AUTORE: Abir Mukherjee traduzione di: Alfredo Colitto
EDITORE: Sem
PAGINE: 348
PREZZO: € 17
GENERE: letteratura indiana, giallo storico
LUOGHI VISITATI: Calcutta aprile 1919
Un giallo storico ambientato nell’India Coloniale siamo a
Calcutta nell’aprile del 1919, protagonista il Capitano ispettore Samuel
Wyndham un uomo che decide di ricominciare dall’altra parte del mondo nel
tentativo di dimenticare la vita passata buttandosi nel lavoro (ha combattuto
nella prima guerra mondiale ed è rimasto solo al mondo). Quando lo incontriamo
è appena arrivato in India, per lui è tutto nuovo e da scoprire e deve subito
dedicarsi a un indagine che è una sorta di battesimo di fuoco.
Infatti il caso da risolvere è piuttosto spinoso: nella
città nera, cioè nella parte di Calcutta abitata prevalentemente dai nativi, in
un vicolo viene ritrovato cadavere MacAuley un uomo che faceva parte
dell’amministrazione coloniale britannica, a capo di un ufficio importante ed
era anche il faccendiere del governatore e di alcuni ricchi imprenditori. A
complicare ulteriormente il caso la circostanza che, assieme al corpo, viene
trovato un biglietto anonimo che intima agli inglesi di andarsene, ci sono i
presupposti per un “attacco terroristico” degli indipendentisti e intervengono
anche i servizi segreti.
Iniziamo a conoscere il nostro protagonista e il caso che
deve risolvere permette di mettere in luce doti e capacità, Sam Wyndham è tutto
fuorché perfetto, in particolare ha una dipendenza da oppio, ma è molto bravo
nel suo lavoro investigativo e ha un ottimo intuito oltre ad essere una persona
che usa molto la testa e il cuore, per questo viene scelto dal capo della
polizia che ha bisogno del suo aiuto perché essendo di fuori non deve favori a
nessuno.
Altra grande protagonista è Calcutta, una città costruita
praticamente da zero dagli inglesi, ci viene raccontato molto della città, della
sua costruzione, delle tradizioni e dei nativi.
“Se Calcutta aveva un cuore, si trattava di Dalhousie. Come Trafalgar a Londra, era una piazza troppo grande per essere elegante. Nessuno spazio pubblico ha bisogno di essere enorme. Al centro c’erano una grande piscina rettangolare con acqua del colore delle foglie del banano. Digby mi aveva detto che in passato i nativi la usavano per lavarsi, per nuotare e per riti religiosi. Ma dopo l’ammutinamento del ’57 cose del genere non erano più tollerate. Ora la piscina era deserta e l’acqua verde bottiglia scintillava nel sole pomeridiano. I nativi, almeno quelli approvati da noi, camminavano a testa bassa verso riunioni e appuntamenti, in redingote, camicie abbottonate e colletti inamidati. Intorno alla piscina c’era una ringhiera di ferro e cartelli in inglese e in bengalese li avvertivano delle multe in cui sarebbero incorsi se avessero deciso di cedere ai loro bassi istinti e farsi un tuffo.
Ai lati della piazza sorgevano i palazzi chiave dell’amministrazione britannica: l’ufficio postale, quello del telefono e il massiccio Writers’ Building. Le vite di oltre cento milioni di indiani, dal Bihar fino al confine birmano, erano amministrate da lì, quindi mi sembrava logico che si trattasse dell’edificio più grande forse di tutto l’impero. Ma la parola grande non gli rendeva giustizia. Forse era anche meglio dire grandioso. Il suo scopo era impressionare chiunque lo vedesse, ma soprattutto i nativi. Ed era formidabile. Altro quasi quattro piani, era lungo circa duecento metri, con plinti massicci ed enormi colonne sormontate da statue di dei. Non dei indiani, ovviamente, ma greci o forse romani, non ho mai capito la differenza.
era una caratteristica di Calcutta: tutto ciò che avevamo costruito lì erano in stile classico e più grande del necessario. Era come se i nostri uffici, le nostre ville e monumenti, gridassero: ‘Guardate cosa siamo capaci di fare! Siamo i veri eredi di Roma!’
Era l’architettura dei dominatori, e sembrava un po’ assurda. I palazzi palladiani, con colonne e frontoni, le statue di uomini in toga morti da secoli, le iscrizioni latine ovunque, persino nei bagni pubblici… uno straniero avrebbe pensato che Calcutta fosse stata colonizzata dagli italiani, non dagli inglesi.
La piazza vibrava di attività. Tram e autobus vomitavano un flusso continuo di impiegati bianchi e nativi, in giacca e cravatta malgrado il caldo, che si univano alla folla di gente che entrava e usciva da sotto l’ampio portico del Writers’”
“La città un po’ alla volta cedette il passo alla giungla e il viaggio prese l’aria di una spedizione. Quella era l’India che avevo sognato. La terra selvaggia e misteriosa descritta da Kipling e da Sir Henry Cunningham. La foschia del mattino copriva le rive come un lenzuolo di mussolina, da cui ogni tanto spuntava un banyan o una capanna di nativi. Piccole barche di legno, alcune con una vela, altre poco più che canoe, ci passavano accanto, pilotate da uomini con lunghi pali.
Sulla riva orientale del fiume, dalla nebbia emerse un grande tempio, alto almeno trenta metri e dall’aspetto aliena. Era una costruzione bianca a due livelli, sormontata da una strana struttura a cupola che a sua volta era circondata da almeno una dozzina di guglie. Di fronte al tempio principale c’erano una serie di sacrari, dodici in tutto, come discepoli nell’atto di rendere omaggio. I muri bianchissimi e i tetti rosso sangue risplendevano nella luce del mattino presto.
«Un tempio di Kali» disse l’ufficiale indicandolo. «Ce ne sono parecchi intorno a Calcutta, ma questo è il mio preferito».
Le offerte alla dea si allontanavano galleggiando dalla riva, una miriade di calendule, petali di rosa e lampade votive che trasportavano le preghiere dei devoti. Remnant indicò i gradini che scendevano fino all’acqua. «Quelli sono i ghat per le abluzioni» disse. «Gli indù credono che un bagne in quelle acque possa levare tutti i peccati.»”
E il discorso poi in generale può estendersi anche al resto
dell’India sono anni in cui si inizia a parlare di indipendenza. E anche il caso
che Sam deve risolvere è legato a questo tema. Molto interessante ad esempio
anche il fatto che uno dei sottoposti/collaboratori di Sam, Surrender-not
soprannome per il sergente Banerjee un nativo che spiega la sua scelta di
entrare a servizio della polizia imperiale che trovo di un pragmatismo degno di
nota.
“Banerjee riflettè prima di parlare. «Io ritengo, signore, che un giorno potremmo davvero avere un governo autonomo all’interno dell’impero britannico, o addiruttura la totale indipendenza. Ma a differenza del signor Gandhi, non credo che questo porterà pace universale e collaborazione tra i miei connazionali. Ci saranno ancora degli omicidi in India. E se un giorno voi ve ne andrete davvero, noi indiani dovremmo essere in grado di gestire i posti che abbandonerete. Questo vale per la polizia come per tutto il resto.»”
La particolarità è che è narrato in prima persona, voce
narrante è lo stesso Sam. La narrazione è piuttosto lineare e semplice anche se
è farcita/ricca di espressioni indiane o di inglese coloniale con tantissimi
termini specifici per ruoli e cose, che permettono di entrare ancor meglio
nell’ambientazione. È sicuramente un libro più di trama che di forma, ma è
molto interessante, intrattiene, l’ho trovato un buon giallo dove non mancano i
colpi di scena, con il plus dell’ambientazione che permette di volgere lo
sguardo su un momento storico preciso (e se vogliamo distante da noi) ma anche
molto affasciante seppur con tutte le problematiche conseguenti. È il primo
volume di una serie che sicuramente continuerò.
Fatemi sapere se lo conoscete.