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venerdì 24 maggio 2024

L' AMICA GENIALE (vol. 1) - ELENA FERRANTE

TITOLO: L'amica geniale
AUTORE: Elena Ferrante
EDITORE: E/O
PAGINE: 400
PREZZO:€ 19
GENERE: letteratura italiana, saga 
LUOGHI VISITATI: Napoli immediato secondo dopoguerra
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Mancavo solo io, penso l’abbiamo letto tutti. Questo libro, o meglio questa storia perché è una quadrilogia è accompagnata da un grandissimo hype e io generalmente in questi casi aspetto, però per L’amica geniale l’hype non è mai diminuito vuoi per la trasposizione televisiva, vuoi per il mistero che per svariato tempo ha circondato la sua autrice (Elena Ferrante è uno pseudonimo e non si sapeva chi si celasse dietro, tra l’altro mi pare che ora si sa tutto ma non ricordo…). Inoltre snobbavo proprio la storia, un libro italiano ambientato nell’immediato dopoguerra, con delle bambine per protagoniste, poi tanto clamore: no non mi va di leggerlo… Una mattina (due anni fa in questo periodo) vedo che è uscita anche la grapich novel oltre alla serie tv e mi dico basta ora voglio leggere anche io L’amica geniale, compro il libro, lo leggo e me ne innamoro pazzamente. Era un periodo che dormivo pochissimo per via di Giulia (non che ora…) rinunciavo a quelle poche ore di sonno pur di leggere!

Pur avendolo adorato non sono ancora andata avanti perché mi trovo in quella strana situazione in cui da un lato vorresti leggere tutta la storia per vedere come va avanti e cosa succede, dall’altro però non lo voglio finire mi piace pensare che c’è questa storia che mi aspetta. Capita anche a voi?

Veniamo al libro che è meglio.

Un romanzo di formazione e di crescita, un romanzo che racconta un’amicizia forte, importante ma anche turbolenta. Le vicende sono narrate in prima persona da Lenù che racconta la sua amicizia con Lila, si incontrano da bambine e diventano amiche, un amicizia che durerà tutta la vita. Siamo a Napoli in un quartiere popolare nell’immediato dopoguerra, (povertà, precariato, malavita e degrado) in questo primo volume si raccontano una decina d’anni.

“Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina. Le donne combattevano tra loro più degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male. Far male era una malattia.”

 Il libro inizia col botto, un prologo fantastico (e per quel che ho letto io finora molto originale): una donna – Lenù – si mette al pc e scrive tutto ciò che ricorda della sua vita con l’amica Lila, ma perché lo fa? Perché Lila a 66 anni scompare volontariamente cancellando ogni traccia dise e quindi l’amica per ripicca, per dispetto, per impedirle di scomparire si mette a scrivere la loro storia! (Mettersi a scrivere in cosegenza della scomparsa di una persona cara non è cosa nuova, ma farlo per impedire a questa persona di cancellare le proprie tracce sì). Già da qui la voglia di leggere la storia e capire perché Lila a un certo punto scompare è tantissima, come scoprire tutta la loro amicizia.

“«È bello» mormorai, «parlare con gli altri».
«Sì, ma solo se quando parli c’è qualcuno che risponde».
Mi sentii in petto uno sbuffo di gioia. Che richiesta c’era in quella bella frase? Mi stava dicendo che voleva parlare soltanto con me perché non prendevo per buono tutto quello che le usciva di bocca ma le rispondevo? Mi stava dicendo che soltanto io sapevo star dietro alle cose che le passavano per la testa?
Sì. E me lo stava dicendo con un tono che non le conoscevo, fievole, sebbene come al solito brusco. […] Ne ragionammo. Avevamo dodici anni, ma camminammo a lungo per le vie bollenti del rione, tra la polvere e le mosche che si lasciavano alla spalle i vecchi camion di passaggio, come due vecchiette che fanno il punto delle loro vite piene di delusioni e si tengono strette l’una all’altra. Nessuno ci capiva, solo noi due – pensavo – ci capivamo. Noi, insieme, soltanto noi, sapevamo come la cappa che gravava sul rione da sempre, cioè fin da quando avevamo memoria […] C’era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventava accettabile. L’essenziale, però, era saper giocare e io e lei, io e lei soltanto, sapevamo farlo.”
 


 Per quanto riguarda la trama Lila e Lenù si incontrano sui banchi delle elementari, vivono nello stesso palazzo e iniziano a frequentarsi diventando amiche, un’amicizia che durerà tutta la vita. Come detto il periodo narrato copre circa una decina d’anni ci sono gli anni delle elementari, poi la crescita i primi amori e le diverse esperienze che fanno. Anzitutto scolastiche perché Lila non può proseguire la scuola oltre la quinta elementare per problemi economici e dovrà andare a lavorare nel negozio di calzolaio del padre, mentre Lenù (da qui l’appellativo di amica geniale) va alle medie e al liceo, ovviamente anche le frequentazioni sono diverse, gli impegni non permettono loro di passare tutto il tempo assieme ma spesso riescono a vedersi e uscire assieme ai coetanei del rione (un agglomerato molto interessante di personaggi secondari).

“Fu durante quel percorso verso via Orazio che cominciai a sentirmi in modo chiaro un’estranea resa infelice dalla mia stessa estraneità. Ero cresciuta con quei ragazzi, ritenevo normali i loro comportamenti, la loro lingua violenta era la mia. Ma seguivo anche quotidianamente, ormai da sei anni, un percorso di cui loro ignoravano tutto e che io invece affrontavo in modo così brillante da risultare la più capace. Con loro non potevo usare niente di ciò che imparavo ogni giorno, dovevo contenermi, in qualche modo autodegradarmi. Ciò che ero a scuola, lì ero obbligata a metterlo tra parentesi o a usarlo a tradimento, per intimidirli. Mi chiesi cosa ci facevo in quell’auto. C’erano i miei amici, certo, […] stavamo andando alla festa […]. Ma proprio quella festa ratificava che Lila, l’unica persona che sentivo ancora necessaria malgrado le nostre vite divergenti, non ci apparteneva più, e venendo meno lei, ogni mediazione tra me e quei giovani, quell’auto in corsa per quelle strade, si era esaurita.”

Io mi sono focalizzata soprattutto sulle due protagoniste. Entrambe le ragazze sono molto intelligenti e portate allo studio ma hanno possibilità diverse, Lila arriva alle elementari che sa già leggere, scrivere e fare di conto senza che nessuno glielo abbia mai insegnato, studierà da autodidatta greco e latino perché li studia Lenù al liceo e darà ripetizioni all’amica ma come detto non può proseguire. Le due amiche sono molto diverse anche caratterialmente Lila è definita una bambina cattiva, è esplosiva, coraggiosa e determinata mentre Lenù è più mite, timida e sognatrice; hanno in comune la voglia di emanciparsi e lasciare il rione e la povertà, seguiranno (per tante ragioni) vie diverse.

Il finale di questo libro è un cliffhanger pazzesco!

Il libro non è solo una storia di amicizia ma anche un modo per approcciarsi a una parte della nostra storia perché con le vicende di Lila e Lenù ripercorriamo anche la storia dell’Italia a partire dal secondo dopoguerra con un affresco in particolare su Napoli e in generale della nostra società (ruolo della donna ma anche alla figura del o della maestra, aspettative, criminalità, politica).

Voglio continuare la lettura non solo di questa quadrilogia ma di tutti i libri di Elena Ferrante.

Fatemi sapere se avete letto la storia dell’amica geniale vi aspetto nei commenti.


domenica 27 dicembre 2020

FU SERA E FU MATTINA - KEN FOLLETT

TITOLO: Fu sera e fu mattina
AUTORE: Ken Follett traduzione di Annamaria Raffo
EDITORE: Mondadori - collana Omnibus
PAGINE: 783
PREZZO: € 27,00
GENERE: romanzo storico
LUOGHI VISITATI: Inghilterra fine del X secolo

 acquistabile su amazon: qui (link affiliato)


 

Per chi come me ha già letto e amato la trilogia di Kingsbridge, leggere questo libro è come tornare a casa. Devo ammettere che avevo qualche timore, leggerissimo perché adoro Follett però temevo che questo volume potesse non essere all’altezza dei precedenti, non potevo sbagliarmi di più: è un libro magnifico! Questo romanzo si presenta come il prequel de Pilastri della terra, il primo volume della trilogia dedicata alla cittadina di Kinsbridge e devo dire che ci sono diverse assonanze con il primo volume, più marcate rispetto agli altri probabilmente per la maggior vicinanza cronologica delle due ambientazioni. Inutile dire che spero in un proseguo della saga già dalla fine del terzo volume dove c’è un accenno alla Mayflower. Ho già altri romanzi di Follett in libreria che aspettano solo di essere letti in particolare ho la Trilogia del Secolo e devo decidermi ad iniziarla.

Trovo difficile parlare dei libri che mi piacciono ma soprattutto faccio fatica con quelli di Ken Follett.

Partiamo dalla trama: siamo nell’Inghilterra sul finire del decimo secolo, protagonista indiscusso è Edgar un giovane artigiano, figlio di un costruttore di barche, che assieme alla madre e ai fratelli inizia una nuova vita a Dreng’s Ferry dopo aver perso tutto nell’incursione vichinga subita da Combe la sua città natale. Dreng’s Ferry è un piccolo villaggio che fa parte del territorio di Shiring, che si caratterizza per un’apparentemente inspiegabile prosperità. La famiglia di Edgar si occupa di gestire un piccolo podere in riva al fiume e quando i suoi fratelli si sposano, lui lascia la fattoria per andare a lavorare alla taverna principalmente come barcaiolo. E in durante questa sua attività un giorno fa attraversare il fiume a una splendida nobildonna normanna: Ragna, figlia del conte Hubert di Cherbourg e futura sposa dell’aldermanno di Shiring Wilwulf.

Shiring è il centro politico e religioso più importante della regione: sede del vescovo, dell’aldermanno, del priorato e dello sceriffo.

“La città di Shiring era in rapida crescita, e serviva ai bisogni di tre istituzioni: la cittadella dell’aldermanno, con i suoi armigeri e luogotenenti, la cattedrale e il palazzo del vescovo, con i preti e i servitori, e l’abbazia, con i monaci e i conversi. I commercianti vendevano quello che fabbricavano: pentole, secchi, coltelli da tavola e altri attrezzi per la casa; poi c’erano tessitori e sarti, sellai, taglialegna e carpentieri, armieri che producevano maglia per armature, spade ed elmi, e fabbricanti di archi e frecce, casari, fornai, birrai e macellai che rifornivano tutti gli altri di carne.
L’attività più remunerativa, però, era il ricamo. Una decina di donne passava le giornate a intrecciare fili di lana colorata su teli di lino chiaro. Solitamente i loro lavori raffiguravano storie della Bibbia e scene della vita dei santi, spesso abbellite da strani uccelli e bordure geometriche. Questi pannelli di lino, che talvolta potevano essere anche di tessuto di lana chiara, erano venduti in tutta Europa per essere inseriti nei paramenti sacri e nelle vesti regali.”

Alle vicende di Edgar e di Ragna, sia in Normandia che poi dopo le nozze in Inghilterra, ci sono quelle di frate Aldred dell’abbazia di Shiring che coltiva il sogno di trasformare l’abazia in un centro di erudizione e di amanuensi, ma i suoi sogni si scontrano con i soprusi del vescovo Wynstan.

Wynstan fa parte di una famiglia molto importante, ricca e influente, ma anche prepotente! È infatti il fratello di Wigelm che è signore della terra ed entrambi sono fratellastri dell’aldermanno di Shiring Wilwulf, e insieme creano un bel accentramento di potere.

Si innesca una sorta di lotta tra bene e male, tra buoni e cattivi dove i buoni sono Edgar, Ragna e Aldred e i cattivi i padroni di Shiring (Wilwulf, Wigelm e Wynstan e i suoi lontani cugini Degbert e Dreng), con continue avventure e colpi di scena.

La scrittura è accattivante, fluida e scorrevole, tiene il lettore incollato alle pagine e assieme alle avventure dei protagonisti è possibile farsi un quadro della situazione geopolitica ma anche sociale e culturale del tempo.

“Voltò la testa si guardò attorno alla luce del fuoco. La sua casa era simile a ogni altra nella città di Combe: struttura di assi di quercia, tetto di paglia e un pavimento di terra solo parzialmente coperto di canne prese agli argini del fiume che scorreva lì vicino. Non c’erano finestre. Al centro dell’unico ambiente il focolare era racchiuso da un quadrato di pietre, e sopra a questo c’era un treppiede di ferro al quale si poteva appendere un paiolo. I piedi disegnavano sul soffitto ombre simili a zampe di ragno. Tutto intorno alle pareti dei pioli di legno reggevano indumenti, utensili da cucina e attrezzi per la costruzione delle barche”.

Infatti ci sono alcuni aspetti che emergono con forza: la condizione delle donne, gli attacchi vichinghi e la schiavitù che era ancora presente.

“«Nessuno farà di me uno schiavo» rispose Erman con tono petulante.
«No» convenne Ma’. «Ti offrirai volontario.»
Edgar aveva sentito parlare di persone ce si asservivano spontaneamente, però non conosceva nessuno che lo avesse fatto. A Combe aveva incontrato moltissimi schiavi, naturalmente: una persona su dieci era uno schiavo, ragazzi e ragazze di bell’aspetto che diventavano il trastullo di uomini ricchi, altri che tiravano l’aratro, venivano fustigati quando si stancavano e passavano la notte legati alla catena come cani. Per lo più erano britanni, gente che veniva dai selvaggi confini occidentali della civiltà, Galles, Cornovaglia e Irlanda. Di tanto in tanto compivano razzie nell’Inghilterra, che era più ricca, rubando bestiame, galline, armi. Gli Inglesi li punivano facendo scorrerie nei loro territori, bruciando i villaggi e catturando degli schiavi. La schiavitù volontaria era un’altra cosa. C’era un rituale stabilito, e Ma’ lo descrisse a Erman con parole sprezzanti: «Ti inginocchieresti davanti a un nobiluomo o a una nobildonna, a testa china in segno di supplica. Il nobile può rifiutarti, ovviamente; ma, se ti mette le mani sulla testa, diventi suo schiavo per tutta la vita.»”

La ricostruzione storica è sapiente, ben riuscita e piuttosto veritiera e corretta anche se, per indicazione dello stesso autore, Follett si è preso qualche licenza. Comunque è un ottimo romanzo storico dove accanto a personaggi realmente esistiti e problematiche generali come le incursioni vichinghe e gallesi, le difficoltà del potere regio di affermarsi in modo effettivo e costante, si inseriscono personaggi di fantasia ma assolutamente verosimili e realistici. Edgar, detto il costruttore (e io fin dall’inizio ho immaginato possa essere un antenato di Tom il costruttore de I Pilastri della Terra) è ricco di inventiva, intelligente, duttile, capace di adattarsi e imparare nuove cose semplicemente osservando, è ligio ai doveri, ha un forte senso della giustizia ed è estremamente leale. Ragna è bellissima, forte, determinata, saggia e carismatica, una nobildonna che precorre i tempi, è nata per governare non per rimanere a casa in attesa di ordine da parte del marito, pronta a lottare per quello in cui crede.

Come negli altri romanzi della saga non manca la storia d’amore impossibile e tormentata per la diversità di rango sociale o di fede religiosa (a seconda dell’epoca) e quindi in genericamente impossibile agli occhi delle convenzioni sociali normalmente accettate.

Per me la saga di Kingsbridge rappresenta la confort zone assoluta: romanzo storico con narratore onnisciente, ottima ricostruzione storica, personaggi godibili le cui storie restano nella memoria. Inoltre proprio Pilastri della terra mi ha fatto nuovamente innamorare della letteratura o meglio mi ha avvicinato alla narrativa dopo gli anni dell’università.

Conoscete questa saga di Follett? Avete letto qualcosa di suo?


martedì 30 giugno 2020

CI RIVEDIAMO LASSÙ - PIERRE LEMAITRE

TITOLO: Ci rivediamo lassù
AUTORE: Pierre Lemaitre - traduzione di Stefania Ricciardi
EDITORE: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)
PAGINE: 453
PREZZO: € 17,50
GENERE: letteratura francese, letteratura contemporanea
LUOGHI VISITATI: Parigi 1918-1920
Vincitore del Premio Gocourt nel 2013 (il premio letterario più prestigioso di Francia)
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Questo romanzo è il primo di una trilogia che Lamaitre ha dedicato alla storia di Francia, si sviluppa tra gli ultimissimi giorni della prima guerra mondiale - iniziamo a conoscere i nostri protagonisti a pochi giorni dall’armistizio - nel novembre 1918 fino al giugno del 1920.

Protagonisti tre uomini, tre uomini che hanno combattuto per la patria: Albert Maillard, Eduard Perincourt e il tenente Henri d’Aulnay-Pradelle. Tre personaggi che non potrebbero essere più diversi tra loro.

Albert Maillard è un ragazzo d’animo buono, eterno indeciso, timido e riservato, un contabile che vive solo con la madre, dopo la guerra si trova ad accudire il suo compagno Édouard.

Édouard Péricourt proviene da una famiglia molto ricca, è un tipo estroso, ribelle, eccentrico ama disegnare e dipingere - praticamente è un bravissimo artista - orfano di madre non ha un buon rapporto con il padre, il banchiere Marcel Péricourt che non vede in lui in figlio maschio tanto agognato – mentre ha un ottimo rapporto con la sorella Madeleine.

Le vicende della guerra o meglio dell’ultima battaglia li unirà in modo quasi indissolubile.

Infine c’è il tenente Henri d’Aunlay-Pradelle un arrivista senza scrupoli, egoista ed egocentrico, proviene da una famiglia nobile oramai decaduta e in rovina, persegue in desiderio di ridare luce al proprio nome e riportare la dimora di famiglia a nuovo splendore, propositi apprezzabili ma non i mezzi con cui cerca di raggiungere i suoi scopi. Per Pradelle la guerra e poi la sua “smobilitazione” sono l’occasione e il mezzo per farsi una posizione e arricchirsi, ma con metodi tutt’altro che onesti.

Ce la faranno i nostri eroi? È la domanda che mi ha frullato in testa dalle prime pagine; una domanda che si fa incalzante quando anche gli avvenimenti si fanno più serrati e soprattutto si avvicina la fine del libro e quindi l’esito della vicenda. Ho sperato in un lieto fine per Albert ed Édouard; mentre per Pradelle ho sperato che ce la facesse, ad affondare però, dato il suo egocentrismo e il suo essere ignobile. Non voglio anticipare nulla…

Lamaitre è un narratore onnisciente, che conosce e scandaglia l’animo umano dei suoi personaggi, rendendoli unici, veri e coerenti, semplicemente meravigliosi; racconta tutto dei suoi personaggi e non perde occasione esprimere un commento e per rivolgersi al lettore. Questa caratteristica del narratore che si rivolge al lettore (che io adoro, inutile dirlo) si rifà alla tradizione della letteratura francese di fine ‘800 che Lamaitre vuole omaggiare ma c’è anche un’altra ragione, come spiega nelle sue interviste vuole ricordare al lettore che sta leggendo una storia, non si tratta di realtà ma di romanzo.

Non mancano i colpi di scena. La narrazione è scorrevole e le vicende dei personaggi sono narrate a capitoli alterni; con un crescendo continuo che tiene incollato il lettore alle pagine.

Oltre le vicende dei personaggi il libro rappresenta anche un’invettiva contro la guerra, nello specifico la Prima Guerra Mondiale, ma le riflessioni si prestano a qualsiasi conflitto. Pone l’accento, in particolare, sul ritorno alla vita normale finito il conflitto - percorso già di per sé non facile - qui le persone vengono lasciate sole, abbonante a sé stesse in primis da quello Stato per cui hanno combattuto e che ora si dimentica di loro, ricordando solo (forse) i caduti.

“Nello stesso tempo, dalla fine della guerra non si fa altro che aspettare. Qui, dopotutto, è un po’ come in trincea. C’è un nemico che non vedi mai, ma che senti con tutto il suo peso. Dipendi da lui. Il nemico, la guerra, la burocrazia, l’esercito, sono tutte cose un po’ simili, nessuno ci capisce niente e nessuno sa risolverle una volta per tutte. […] Ecco come finisce la guerra, mio povero Eugène, un immenso dormitorio di gente stremata che non si è nemmeno capaci di rispedire a casa come si deve. Nessuno che ti dice una parola o soltanto che ti stringe la mano. I giornali ci avevano promesso archi di trionfo, e invece stiamo ammassati in sale esposte ai quattro venti…”

Come detto il libro fa parte di una trilogia ma è autoconclusivo: non solo le vicende narrate si chiudono ma l’autore fornisce ulteriori dettagli e spiegazioni nell’epilogo dove non viene lasciato spazio all’immaginazione del lettore, è un finale chiuso! (altra cosa che io adoro follemente). Ho letto che i libri sono autonomi e questa conclusione ne è la conferma, non vedo l’ora di andare avanti anche perché nel secondo volume “I colori dell’incendio” protagonista sarà proprio Madeleine Péricourt e nel terzo “Lo specchio delle nostre miserie” ho visto che c’è una Louise, e penso sia proprio la ragazzina, ormai donna, che troviamo nel primo romanzo.

Un libro che mi è piaciuto molto. Ho apprezzato la trama, talvolta succedono cose particolare, dettagli quasi surreali, ma trovano il loro senso all’interno della narrazione; anche la delineazione dei personaggi è davvero magnifica. E infine presenta due caratteristiche tecniche che odoro: il narratore onnisciente (addirittura che strizza l’occhio al lettore) e il finale chiuso, dove Lamaitre da conto anche di cosa succede dopo. Inoltre è anche una saga. Se vi piacciono questi elementi narrativi non posso che consigliarvi questo libro.

Voi avete letto qualcosa di Lamaitre?