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giovedì 23 novembre 2023

UN INDOVINO MI DISSE di TIZIANO TERZANI

TITOLO: Un indovino mi disse
AUTORE: Tiziano Terzani
EDITORE: Tea
PAGINE: 430
PREZZO: € 10
GENERE: letteratura italiana, letteratura di viaggio, memoir, reportage
LUOGHI VISITATI: Sud Est asiatico primi anni '90
acquistabile su amazon: qui (link affiliato)


Colloquiale, intimo e coinvolgente. È come se prendessimo un caffè o meglio un lunghissimo te - magari su una spiaggia del sud est asiatico oppure in uno dei lunghi viaggi in treno o in nave che Terzani ha fatto nel suo 93 -  e, come fossimo vecchi amici, Terzani ci racconta dalla sua vita e di quell’anno magico che gli ha fatto vivere tante belle esperienze.

Cos’ha di speciale il 1993? Per tutto l’anno Terzani non ha mai preso un aereo o un velivolo e si è sposato con altri mezzi di trasporto. Perché? Perché anni prima un indovino gli predisse di non prendere voli, e così più per gioco che per paura/scaramanzia passa un intero anno senza volare, un anno dove comunque viaggia, si sposta perché svolge il proprio lavoro di giornalista e torna, come di consueto, nella sua Firenze per le vacanze.

Tutto inizia nel 1976 quando per caso un vecchio indovino cinese ammonisce Terzani a non volare nel 93; passano gli anni e Terzani che è il primo scettico, il primo a non credere, quello che trova sempre una spiegazione logica decide di sfruttare l’occasione che la profezia gli offre per vivere una nuova esperienza.

 “… mi ritrovai alla fine del 1992. Che fare? Prendere sul serio quel vecchio cinese e riorganizzare la mia vita, tenendo conto del suo avvertimento? O far finta di niente e tirare avanti dicendomi: «Al diavolo gli indovini e le loro fandonie»?
A quel punto avevo vissuto in Asia, ininterrottamente, per più di un ventennio – prima a Singapore, poi a Hong Kong, Pechino, Tokyo, infine a Bangkok – e pensai che il miglior modo di affrontare quella «profezia» fosse il modo asiatico: non mettercisi contro, ma piegarcisi.
[..] E poi a me l’idea di non volare per un anno intero piaceva di per sé. Soprattutto come sfida. […] La profezia era la scusa.”

È anzitutto un magnifico libro di viaggio, che offre spunti anche per viaggi attuali diversi dal solito dove il viaggio non è solo un modo per raggiungere la metà ma è esso stesso la meta, lo scopo del viaggio non è tanto o solo raggiungere un luogo ma il viaggio in sé, l’esperienza, ciò che vedi e chi incontri. E lo trovo un insegnamento molto importante.

Tiziano Terzani è un giornalista fiorentino che ha girato il mondo e dagli anni ’70 è corrispondente dal il Sud Est Asiatico per il Der Spiegel e noi lo seguiamo nei suoi spostamenti per lavoro, viaggiamo con lui in giro per l’Asia e viviamo tante esperienze e avventure come quando partecipa a una sorta di rally che inaugura una strada che unisce Thailandia e Cina Ponendo fine (purtroppo) al secolare isolamento di una regione oppure l’epocale il viaggio in treno che lo porta da Bangkok a Firenze.

“… con il solo peso di un sacco sulle spalle e di una borsa a mano, uscii una mattina da Turtle House e partii per un grande viaggio, uno dei più lunghi della mia vita, uno dei più lenti, quello con cui volevo darmi più agio: Bangkok-Firenze. Ero diretto in Occidente, ma dovetti incominciare andando verso Oriente. Essendo impossibile attraversare la Birmania in direzione dell’India, il modo più sicuro di lasciare la Thilandia era di entrare in Cambogia, di proseguire in Vietnam, poi in Cina, in Mongolia, in Siberia e avanti, avanti fino a casa.” 

Ma Terzani in questo 1993 fa anche un’altra cosa, una sorta di gioco per cui si mette a consultare indovini: in ogni luogo che visita (e ne visita tanti) si informa e consulta l’indovino più famoso, ricercato, apprezzato del luogo. Scopriamo così tante tecniche diverse per predire il futuro, chi legge le carte, chi le mani, chi i piedi, chi traccia segni oppure costruisce schemi partendo da data e ora di nascita; emergono tante realtà diverse ma Terzani si accorge di una cosa molto interessante ogni cultura dà maggior importanza a determinati aspetti della vita e così l’indovino, in base alla cultura di appartenenza, tenderà a parlare a predire il futuro con maggior attenzione a uno o a un altro aspetto come può essere il denaro oppure l’amore o la longevità; e la cosa che trovo simpatica è che utilizzano per Terzani gli stessi schemi/modelli che utilizzano per i compatrioti asiatici.  

Se ne vedono di tutti i colori è un aspetto interessante e quasi un ulteriore viaggio che compiamo con Terzani nel senso che viaggiamo nello spazio ma anche dentro le culture che incontriamo e lo facciamo attraverso il fenomeno degli indovini. Si interroga anche sul significato e sul senso degli indovini offrendo anche qui spunti di riflessione molto interessanti.

“Gli chiesi di aiutarmi con la storia delle elezioni e di trovarmi il migliore indovino della città. Questa volta non era tanto il mio destino che mi interessava – ne avevo già collezionate varie versioni -, quanto la risposta a un pensiero che sin dall’inizio dell’anno mi girava in testa: se è davvero possibile prevedere il futuro, se l’uomo porta davvero in sé i semi di quel che lo aspetta, la Cambogia era il posto in cui provarlo. Nel giro di quattro anni, una persona su tre era morta in questo paese, perlopiù in maniera violenta. Gli indovini lo avevano predetto? C’era stato qualcuno che aveva messo in guardia contro la possibilità di un bagno di sangue?
Se nel palmo di una mano c’è un segno che indica una malattia a diciott’anni e la possibilità di un infarto a cinquantadue, cosa doveva esserci nelle mani dei due milioni di cambogiani che il 17 aprile 1975 videro il loro mondo finire? Le fosse comuni della Cambogia erano piene di gente predestinata a finire lì. Se nessuno aveva saputo leggere quel loro futuro, allora voleva dire che chiunque pretende di saperlo fare è un impostore; voleva dire che il futuro non è nella mano di nessuno, non è nelle stelle. Voleva dire che il destino non esiste.” 

Offre anche tanti spunti di riflessione a partire dai viaggi in aereo, avete mai pensato a come il viaggio aereo distorca il mondo e lo faccia assomigliare? Viaggiare in aereo fa perdere non solo il senso della distanza tra i luoghi ma anche la lontananza, fisica, culturale e sociale perché tutti gli aeroporti sono praticamente uguali in ogni angolo del mondo, sono “internazionali” e poi fa perdere anche il senso dei confini e delle frontiere, diversità ben visibili se si viaggia via terra per esempio.

“La Cambogia finisce con un grande arco di trionfo in pietra rosa, sovrastato dalla riproduzione delle torri di Angkor. Da lì dovetti fare a piedi un centinaio di metri per arrivare a un portale di cemento grigio e disadorno che segnava invece l’inizio del Vietnam. Gli stranieri che si presentano lì sono rarissimi e il mio arrivo creò una grande curiosità, una perquisizione minuziosa dei miei bagagli e un interrogatorio in cui la domanda ricorrente fu: «Perché non hai preso l’aereo?». Già, perché?
Forse anche per riscoprire che il mondo è un complicato mosaico di paesi, ciascuno con le sue frontiere da varcare; forse per riaccorgermi che la terra non è una massa monocolore punteggiata di aeroporti, come appare nelle carte delle linee aeree; o forse semplicemente per riprovare l’emozione di varcare, fisicamente a piedi, e non per aria, una vera frontiera come quella.”

Avrei voluto sottolineare tutto il libro, è pieno di passaggi interessanti oltre alle sue esperienze si parla di geopolitica, di Storia, ci sono curiosità, aneddoti e tante riflessioni. Leggiamo di culture e tradizioni e di storia più o meno recente e di come sono oggi paesi come il Vietnam, la Cambogia e la Cina per esempio, paesi in cui Terzani ha vissuto e lavorato.

Un libro bellissimo ma anche doloroso. Anzitutto perché è un libro che trasporta e fa viaggiare attraverso l’Asia il lettore; ma è un Asia che non esiste più (stiamo parlando principalmente del 1993 sono passati 30 anni) ma già all’epoca Terzani ci dice che non esiste più, che sta scomparendo, piano piano tutti i paesi si occidentalizzano abbandonando molto del tradizionale a favore del moderno, dello sviluppo (e il modello di monto/vita moderna e sviluppato è quello occidentale) a partire dalla Thailandia.

“Il destino di quella straordinaria civiltà che aveva, davvero per millenni, preso un’altra via, che aveva affrontato la vita, la morta, la natura, gli dei in maniera diversa dagli altri, mi rattristava! Quella cinese era una civiltà che aveva inventato un suo modo di scrivere, di mangiare, di fare l’amore, di pettinarsi: una civiltà che per secoli ha curato diversamente i suoi malati, ha guardato diversamente il cielo, le montagne, i fiumi; che ha avuto una diversa idea di come costruire le case, di fare i templi, un’altra concezione dell’anatomia, un diverso concetto di anima, di forza, di vento, d’acqua; una civiltà che ha scoperto la polvere da sparo e l’ha solo usata per fare fuochi d’artificio invece che proiettili per i cannoni. Quella civiltà oggi cerca solo di essere moderna come l’Occidente; vuole diventare come quell’isolotto ad aria condizionata che è Singapore; produce giovani che sognano solo di vestirsi come rappresentanti di commercio, di fare la coda davanti ai fast food di McDonald, di avere un orologio al quarzo, un televisore a colori e un telefonino portatile.
Non è triste? Non dico per i cinesi. Ma per l’umanità in genere, che perde molto nel perdere le sue diversità e nel diventare tutta uguale.”

 

Ma è doloroso anche per le narrazioni degli ultimi decenni di storia del sud est asiatico questo sud est asiatico ricco di storia, tradizioni millenarie, usi e costumi interessanti, dilaniato da guerre e dittature, si parla della guerra del Vietnam, della Cambogia di Pol Pot e del regime birmano, Terzani è stato corrispondente per questi eventi li ha vissuti in prima persona.

Una parte che ho apprezzato moltissimo (anche se ho apprezzato davvero tutto) è quella relativa alle prime elezioni democratiche in Cambogia che si tengono nel 1993 a cui naturalmente Terzani assiste, avvengono sotto l’egida dell’ONU e sono elezioni democratiche.  Le parole di Terzani sono così profonde, così vere da sembrare scontate ma non lo sono, ho apprezzato moltissimo che dica quello che pensa con tanta lucidità e coraggio sull’intervento ONU in Cambogia emerge ancora una volta l’ipocrisia occidentale, si tratta di un pensiero che non si può non condividere e che può essere traslato anche a molti altri scenari. Se il mondo fosse governato da uomini come Terzani a mio modestissimo parare vivremmo praticamente in paradiso!

 

“Quello che è successo in Cambogia dal 1975 al 1979, sotto il regime dei Khmer Rossi, sfidava ogni fantasia dell’orrore; era più spaventoso di qualsiasi cosa un uomo potesse immaginarsi. L’intera società era stata rovesciata, le città abbandonate, le pagode distrutte, la religione abolita e la gente regolarmente massacrata in un continua orgia purificatrice. Un milione e mezzo, forse due milioni, di cambogiani – un terzo della popolazione – erano stati eliminati. Cercai quelli che avevo conosciuto e non trovai nessuno. Erano tutti finiti a «fare da concime nei campi», perché anche i «controrivoluzionari», dicevano i Khmer Rossi, dovevano, almeno come cadaveri, servire a qualcosa.
Viaggiai per un mese attraverso un paese martoriato a raccogliere testimonianze di questa follia. La gente era così atterrita, così inebetita dall’orrore che spesso non riusciva a raccontare o non voleva farlo. Nelle campagne mi venivano indicati «i centri di raccolta per l’eliminazione dei nemici» - di solito erano le vecchie scuole – dove restavano le tracce delle torture, i pozzi dove non era più possibile bere perché riempiti di morti, le risaie dove a volte non si riusciva a camminare senza pestare le ossa di quelli che lì, a colpi di bastone, per risparmiare le pallottole, erano stati massacrati.
Dovunque si scoprivano nuove fosse comuni. C’erano superstiti che non riuscivano più a montare su una barca da quando avevano visto i loro famigliari portati in mezzo a un lago e buttati in pasto ai coccodrilli. Altri non riuscivano più a salire su una palma perché i Khmer Rossi avevano usato gli alberi per mettere alla prova le loro vittime e decidere chi dovesse vivere e chi morie. Quelli che riuscivano ad arrivare fino in cima erano considerati contadini da utilizzare; gli altri, intellettuali da eliminare.
Da allora la Cambogia non fu mai più la stessa. […] Non potevo più guardare serenamente una fila di palme senza pensare istintivamente che le più alte erano quelle più concimate di cadaveri. In Cambogia persino la natura aveva perso la sua rincuorante innocenza.
[…] Dopo aver ignorato per anni la tragedia di questo paese, la comunità internazionale era finalmente intervenuta massicciamente. Non certo per mettere ordine, per punire gli assassini e ristabilire un minino di decenza nella vita! […] per la piccola Cambogia, le «Grandi Potenze» avevano trovato una di quelle soluzioni che servono a giustificare ogni immoralità: un compromesso. Con gli Accordi di Parigi, firmati con grande pompa nel 1991, i massacri furono dimenticati, boia e vittime vennero messi sullo stesso piano, i vari gruppi combattenti furono invitati a deporre le armi e i loro capi a presentarsi alle elezioni. Che vincesse il migliore! Come se la Cambogia nel 1993 fosse l’Atene di Pericle.
Questa volta ero a Phnom Penh da qualche giorno e avevo l’impressione di assistere a una grande rappresentazione di follia.
In un palazzo degli anni ’30, che era stato la residenza del governatore francese, s’era installato il Quartier Generale dell’UNTAC, l’Autorità delle Nazioni Unite incaricata di applicare gli accordi di Parigi. Ogni giorno, su una bella terrazza, un giovanotto di nazionalità francese dava informazioni e istruzioni ai cinquecento giornalisti venuti da tutto il mondo per assistere «elle prime elezioni democratiche nella storia della Cambogia»; un altro, di nazionalità americana, spiegava che era proibito prendere foto degli elettori alle urne e chiedere loro, all’uscita dei seggi, per chi avessero votato.
Ai piani superiori, nei piccoli uffici ricavati dalle grandi sale di un tempo, altri funzionari internazionali, avvocati e giudici presi in prestito dai vari paesi, professori universitari a contratto per l’ONU, ciascuno davanti al suo computer, lavoravano a elaborare piani per lo sviluppo e la modernizzazione del paese, stilavano una nuova costituzione, scrivevano leggi per riorganizzare le dogane, eliminare la corruzione, ristrutturare il sistema scolastico e far funzionare gli ospedali. A sentir loro, quella era per la Cambogia un’occasione unica per rimettersi in piedi, per tornare a essere un paese normale. Il mondo intero era lì ad aiutarla. Sulla carta era vero. […] Il destino dei cambogiani non era la grande priorità del momento. Per le Nazioni Unite era prioritario portare a buon fine l’intervento in Cambogia, così da poter ripetere l’operazione altrove. […] Se la comunità internazionale avesse voluto fare qualcosa per i cambogiani, doveva metterli sotto una campana di vetro per una generazione, proteggerli dai loro vicini-nemici, thailandesi e vietnamiti, dai rapaci uomini d’affari venuti come cavallette a sfruttare l’occasione di far due soldi. Doveva anzitutto aiutarli a vivere in pace, a riscoprire se stessi… E poi, forse, poteva chiedere loro se volevano avere una monarchia o una repubblica, se preferivano il partito della Mucca o quello del Serpente.
Invece di mandare esperti di diritto costituzionale, di economia o di comunicazioni, le Nazioni Unite avrebbero dovuto mandare un gruppo di psicanalisti e psicologi a occuparsi dello spaventoso trauma che questo popolo aveva subito.”


La prosa di Terzani è acuta, ha uno sguardo lungimirante, che condivido molto, ha una lingua piana, semplice colloquiale, che mette il lettore a suo agio, lo fa sentire a casa, con un amico e al contempo informa, insegna, istruisce, emerge tutta la conoscenza e anche la saggezza ma non in modo accademico o spocchioso, e poi ha una lingua sarcastica, tagliente ma giusta. 

Ricco di riflessione sulla vita, sul suo senso, sulla modernità e il suo impatto sulle persone, soprattutto sulla loro felicità. E le riflessioni di Terzani sono ottimi spunti di riflessione anche per il lettore.

Ci sono tantissimi riferimenti alla storia geopolitica dell’Asia e ne narra anche degli episodi anche passati che fanno parte della sua esperienza e/o che comunque servono a contestualizzare e spiegare il presente, si parla della guerra in Vietnam, dei Khmer Rossi e della Cambogia, dei grandi cambiamenti che hanno e stanno subendo i vari paesi, la Malesia musulmana. Io conosco davvero pochissimo però è facile star dietro a Terzani.

Lo stile è colloquiale ed è secondo me un pregio enorme, è una fonte infinita di informazioni e saggezza, eppure sembra di ascoltare il tuo amico di scuola. Semplice ma efficace, scorrevole, meraviglioso proprio perché spiega e narra cosa ha portato all’oggi. E poi le riflessioni, le sue opinioni molto forti e coraggiose ma a mio parere assolutamente lucide, meritevoli e degne di essere condivise.

Ho letto il libro nel 2023 esattamente trent’anni dopo la sua ambientazione ma è stato un caso. Mi sono approcciata praticamente al buio, da tempo volevo conoscere Terzani perché mi ispirava e in una promo tea avevo acquistato questo libro. Penso inoltre che molto di quello che Terzani ci racconta sia ancora attuale nonostante gli anni, soprattutto le riflessioni su come la “modernità” sia ricercata a discapito delle tradizioni e delle diversità e soprattutto della felicità, felicità che viene sacrificata perché il mondo va veloce e bisogna adeguarsi e non c’è tempo e spazio per ciò che ci fa piacere.

Voglio leggere altro di suo e sicuramente leggerò Buonanotte sig. Lenin che racconta di un viaggio fatto in Russia subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica e assiste durante il viaggio all’eliminazione dei simboli e delle statue del regime, tra l’altro è il libro che uscirà proprio nel ’93 e ce ne parla. Mentre gli altri suoi libri da un lato mi intimoriscono soprattutto quelli che sono cronache di un reporter di guerra in Vietnam e Cambogia però li voglio recuperare perché secondo me sono fonti importantissime e accessibili anche a chi, come me, è piuttosto digiuno di questi argomenti ma vuole approfondire.

Fatemi sapere se lo avete letto e cos’altro mi consigliate.


giovedì 21 gennaio 2021

SE QUESTO É UN UOMO - PRIMO LEVI

TITOLO: Se questo è un uomo
AUTORE: Primo Levi
EDITORE: Einaudi
PAGINE: 219
PREZZO: € 11,00
GENERE: letteratura italina, memoir, shoa
LUOGHI VISITATI: campo di Auschwitz

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“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine ‘Campo di annientamento’, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.”

Se questo è un uomo di Primo Levi è il primo libro che tratta direttamente del tema dell’Olocausto che io ho letto. La prima volta l’ho lessi diversi anni fa e l’ho voluto rileggere ora per parlarne qui sul blog approfittando anche di un nuovo progetto che seguo su Instagram.

È un libro necessario per quanto doloroso, anzi direi imprescindibile. Primo Levi racconta la sua esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz: dal campo di internamento in Italia dopo la cattura, il lungo viaggio in treno, la vita nel campo fino all’arrivo dei russi.

La narrazione non è meticolosa e dettagliata per quel che riguarda la cronologia degli eventi e nemmeno per i legami che si sono creati con altre persone. Non è un diario. È piuttosto un insieme coerente (anche se non legato e spiegato dettagliatamente) di molti eventi che ha vissuto in prima persona, della sua esperienza in campo e di alcuni avvenimenti particolari e generali come ad esempio “la cerimonia” della selezione, il Ka-Be (l’infermeria) e l’orchestra che accompagna uscita e ingresso dal campo dei lavoratori.

“Alla distribuzione del pane si sente lontano, fuori dalla finestre, nell’aria buia, la banda che comincia a suonare: sono i compagni sani che escono inquadrati al lavoro. […] I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. […] Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? Quale prova più concreta della loro vittoria?”

La cerimonia della selezione è uno dei passaggi più drammatici della vita interna, si tratta di un “controllo”, della scelta sommaria e, in realtà anche molto arbitraria e casuale, tra i prigionieri all’interno del campo per decidere chi continua a “vivere” e chi invece è destinato alle camere a gas, tra chi continua la lotta in attesa della prossima selezione e chi invece deve abbandonare il mondo.

Nell’esperienza personale di Levi c’è il lavoro fuori dal campo, nella Buna, una gigantesca fabbrica costruita grazie alla manodopera del vicino complesso di Auschwitz, è un enorme cantiere dove i prigionieri vengono sfruttati per i lavori più massacranti, si tratta di una fabbrica chimica e Primo Levi – che è proprio un chimico - parteciperà all’esame per fare parte della squadra di chimici che lavorerà in laboratorio.

Questo cantiere infinito è anche il luogo dove i prigionieri vengono in contatto con i civili, ma cosa pensano i civili?

“Quello che noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile»”

“Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci di animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondono l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo «Kazett», neutro singolare.”

Queste sono le parole più drammatiche, angoscianti e spaventose. Perché mostrano come può reagire l’uomo libero, come può un uomo libero ragionare di fronte a tanto scempio, e la cosa che mi spaventa (e mi fa anche arrabbiare) maggiormente è che purtroppo ragionamenti simili si sentono tutt’oggi.

Ho accennato al commercio, al mercato interno del lager perché leggendo questo libro si scoprono dei dettagli assolutamente agghiaccianti: un esempio i prigionieri devono dare il grasso alle scarpe/zoccoli, chi non lo fa o comunque non ha le calzature in ordine viene punito fisicamente, io mi aspetto che il campo fornisca il grasso, e invece no sono gli stessi prigionieri che lo devono procurare.

“Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.”

Levi si interroga sulla giustezza di narrare quanto accaduto nei lager e si risponde affermativamente e propone anche una particolare chiave di lettura di questa esperienza:

“Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione rimanga una qualche memoria.
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui narriamo. Vorremo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.”

Quindi Levi avanza l’ipotesi di considerare il lager come un laboratorio per un gigantesco esperimento scientifico e sociologico sul comportamento umano, da un lato questa interpretazione è strettamente legata alla ricostruzione ed analisi della psicologia umana che Levi fa delle persone che lo circondano (sia durante la prigionia cosa che gli permette di rimanere “vivo”) sia a posteriori durante la scrittura della sua testimonianza. Dall’altro ho inizialmente trovato raccapricciante l’idea di vedere il lager come un esperimento scientifico ma forse è un’interpretazione meno spaventosa di quello che in realtà è stato, perché alla fine lo scopo del lager era semplicemente e brutalmente annientare una parte di popolazione (in primis gli ebrei, ma non solo) senza colpa alcuna se non quella di appartenere ad un'altra cultura e religione?! Non so cosa sia peggio!

“Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.”

 

Come si sopravvive dentro a un lager? Anzitutto è questione di fortuna e caso! Questi sono i due elementi che determinano la sorte degli individui. Ma si può lottare contro il sistema lager anzitutto mantenendo la propria dignità, come un compagno più anziano spiega al neo internato Levi

“Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire. Questo cose mi disse Steinlauf.”

E poi ci sono le astuzie che si imparano col tempo, quando l’unica preoccupazione è il domani immediato, il tempo e il freddo che rendono ancor più duro il lavoro senza sosta.

Un tema trattato molto importante e singolare è il sogno: cosa sognano i rinchiusi? Cibo senz’altro, ma secondo Levi un sogno molto comune e diffuso è quello di essere nuovamente a casa, tra i propri cari e raccontare l’accaduto, raccontare il lager e trovare incredulità o meglio non essere creduti, è probabilmente anche questa una delle ragioni dell’impellente bisogno di Levi di raccontare.

Infatti l’opera rappresenta la sua testimonianza, scritta di getto subito dopo il ritorno a casa, senza pianificazione tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947, qui racconta le cose più importanti, grosse e urgenti.

Il libro finisce all’improvviso, la narrazione si interrompe con l’arrivo ad Auschwitz dei russi. L’uscita dal campo e il travagliato viaggio di ritorno sono narrati in un altro libro: La tregua.

L’aspetto che mi ha maggiormente colpita nello stile è la lucidità nel descrivere quasi asetticamente la vita e le regole del campo; senza odio, senza influenzare il lettore ma porgendo al lettore domande e riflessioni e tanto materiale su cui riflettere.

Nella mia edizione Einaudi c’è anche un’interessantissima appendice dove lo stesso Levi risponde alle domande che maggiormente si è sentito rivolgere.

Conoscete questo libro? Avete letto altro di Primo Levi? Fatemi sapere nei commenti.

venerdì 18 dicembre 2020

IL ROGO DI BERLINO - HELGA SCHNEIDER

TITOLO: Il rogo di Berlino
AUTORE: Helga Schneider
EDITORE: Adelphi - collana Gli Adelphi
PAGINE: 229
PREZZO: € 11
GENERE: letteratura tedesca, memoir
LUOGHI VISITATI: Berlino durante anni '40-'46 

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Un libro triste e doloroso.

Berlino, la capitale del Terzo Reich, sotto i bombardamenti! Un volto, un aspetto nuovo (almeno per me) dei drammi e delle tragedie che sono state la seconda guerra mondiale. Il tutto raccontato da una bambina di quattro, cinque anni quando la madre biologica l’abbandona per unirsi alle SS. Siamo nel 1941 e Berlino già si trova a combattere con la fame e la miseria, le cose non possono che peggiorare arrivando a bombardamenti continui, assenza di acqua, elettricità e cibo, dove le persone sono costrette a vivere rintanate nelle cantine dei palazzi, chi ce l’ha, sperando che il proprio palazzo non venga distrutto; rischiando quotidianamente la vita per procurarsi acqua e cibo.

“Il bus imbocca la Lothar-Bucher-Strasse in senso vietato, ma nessuno ci fa caso. I pochi automezzi che si aggirano per le vie deserte non si preoccupano certo di osservare le regole del traffico, e comunque mancano del tutto i vigili, un genere completamente estinto, così come sono scomparsi i pompieri che dovrebbero spegnere gli incendi provocati dalle bombe al fosforo. Non funziona più nulla: non ci sono più postini né fattorini che portino il latte, non si trova più un solo medico, e le squadre di Pronto Intervento, che fino a qualche tempo fa sgomberavano le strade dai cadaveri, ora non rispondono più al telefono. Una città un tempo funzionale e organizzata ha abbandonato la popolazione a sé stessa: niente più diritti, niente più doveri.”

È un romanzo autobiografico. La cosa che forse mi ha maggiormente fatto male, non è tanto e solo gli orrori della guerra, ma la solitudine e l’abbandono affettivo in cui la piccola Helga deve vivere. Abbandonati dalla madre, il padre si risposa praticamente subito e lei e il fratellino devono crescere con la matrigna Ursula. Purtroppo tra le due non scatta la scintilla, non scatta l’amore, Helga è una bambina ribelle, testarda (e come darle torto), tra lei e la matrigna è sempre guerra. Anche col fratellino le cose non vanno bene, lui è legatissimo alla matrigna, è viziato e pretenzioso e anche cattivo, tra i due (almeno per gli anni narrati in questo libro) manca quel legame fraterno di solidarietà e amore reciproco che dovrebbe contraddistinguere ogni rapporto tra fratelli. Helga vive anche delle esperienze in istituti correttivi, ma verrà riportata a casa e passa l’ultimo anno e mezzo del conflitto con la famiglia rintanati in cantina.

“La maggior parte del tempo stavamo sdraiati sui nostri giacigli per risparmiare le forze. Da un lato desideravamo che la guerra finisse, dall’altro temevamo l’arrivo dei russi. Intanto continuavano a bombardarci, ma nessuno capiva quali obiettivi potessero essere ancora in piedi e fare gola al nemico. Berlino era un rogo, cosa volevano ancora?”

Grazia alla zia Hilde che lavora al ministero della propaganda Helga e il fratellino Peter avranno la fortuna di fare un soggiorno nel bunker della Cancelleria del Reich e anche di incontrare Hitler di persona. Ho detto fortuna perché nel bunker è possibile lavarsi e soprattutto mangiare a sazietà.

Il tutto viene narrato secondo le percezioni di una bambina: la stessa autrice una volta adulta che rivive quei terribili anni. Il libro è molto scorrevole ma non è una lettura facile per la drammaticità di quanto narrato, tanto più che si tratta di una storia vera, e non una semplice finzione letteraria.

La Schneider ha scritto altri libri autobiografici, come questo, in particolare penso a “Lasciami andare, madre” libro dove affronta la figura materna, quella madre che, come detto all’inizio, abbandona i suoi figli per arruolarsi nelle SS e servire alla causa del nazismo – e “I miei vent’anni (oltre il rogo di Berlino)” dove racconta la sua vita da adulta dopo aver lasciato la casa del padre. Ma è autrice anche di svariati altri romanzi non autobiografici dove però il tema centrale rimane sempre quello della Seconda Guerra Mondiale e della vita nella Germania Nazista. Penso di poter affermare che si tratta di libri non facili da leggere per il contenuto e la carica emotiva che sprigionano, ma necessari.

“Tutto era sereno. C’era il sole e i tigli era spumeggianti di verde. Com’era tutto diverso!
A un tratto vedemmo spuntare la portinaia che cominciò a spazzare il vialetto. Guardavo ogni cosa con altri occhi. Come ci aveva deformato lo sguardo quella maledetta cantina! In un attimo mi passò davanti agli occhi tutto l’orrore vissuto: era successo davvero? E come eravamo sopravvissuti? Senza acqua né luce né cibo né igiene. Al buio. Al freddo. In quella promiscuità infernale!
Mi concentrai di nuovo sul cortile. Alcuni bambini giocavano a palla, ma non li conoscevo: non c’erano né Egon né Rudolf. Allora sollevai gli occhi verso le rovine che circondavano lo spiazzo e mi fecero uno strano effetto. Avevano perduto il loro senso di monito, e si erano inserite serenamente nell’ambiente come scenari un po’ bizzarri di un cortile ormai perfettamente riassettato: le crepe dei vialetti erano state riempite di cemento, le macerie sgomberate; i cespugli erano stati potati, l’erba tagliata. Ogni traccia di cadavere eliminata. La rimessa riparata. C’era un’aria di ordinata normalità. […] Quei monconi macabri e quei muri dilaniati o in equilibrio precario, quei vuoti delle finestre sui cui davanzali si erano annidati impudenti ciuffi d’erba e quei mucchi di calcinacci polverosi sembravano essersi ormai riconciliati col passato, concedendogli un troppo facile perdono. Dissi qualcosa in proposito a Peter, ma lui si toccò la fronte e sentenziò: «Sei stupida».
Forse aveva ragione: forse era davvero assurdo come sentivo le cose.”