TITOLO: Se questo è un uomo
AUTORE:
Primo Levi
EDITORE:
Einaudi
PAGINE:
219
PREZZO:
€ 11,00
GENERE:
letteratura italina, memoir, shoa
LUOGHI VISITATI: campo di Auschwitz
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“Si immagini ora un uomo a cui,
insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i
suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo
vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento,
poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale
quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori
di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro
giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine
‘Campo di annientamento’, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con
questa frase: giacere sul fondo.”
Se questo è un uomo di Primo Levi
è il primo libro che tratta direttamente del tema dell’Olocausto che io ho
letto. La prima volta l’ho lessi diversi anni fa e l’ho voluto rileggere ora
per parlarne qui sul blog approfittando anche di un nuovo progetto che seguo su
Instagram.
È un libro necessario per quanto
doloroso, anzi direi imprescindibile. Primo Levi racconta la sua esperienza nel
campo di concentramento di Auschwitz: dal campo di internamento in Italia dopo
la cattura, il lungo viaggio in treno, la vita nel campo fino all’arrivo dei
russi.
La narrazione non è meticolosa e
dettagliata per quel che riguarda la cronologia degli eventi e nemmeno per i
legami che si sono creati con altre persone. Non è un diario. È piuttosto un
insieme coerente (anche se non legato e spiegato dettagliatamente) di molti
eventi che ha vissuto in prima persona, della sua esperienza in campo e di
alcuni avvenimenti particolari e generali come ad esempio “la cerimonia” della
selezione, il Ka-Be (l’infermeria) e l’orchestra che accompagna uscita e
ingresso dal campo dei lavoratori.
“Alla distribuzione del pane si
sente lontano, fuori dalla finestre, nell’aria buia, la banda che comincia a
suonare: sono i compagni sani che escono inquadrati al lavoro. […] I motivi
sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e
canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti,
saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager,
l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui
di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. […] Alla marcia
di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il
diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli
uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? Quale
prova più concreta della loro vittoria?”
La cerimonia della selezione è
uno dei passaggi più drammatici della vita interna, si tratta di un
“controllo”, della scelta sommaria e, in realtà anche molto arbitraria e
casuale, tra i prigionieri all’interno del campo per decidere chi continua a
“vivere” e chi invece è destinato alle camere a gas, tra chi continua la lotta
in attesa della prossima selezione e chi invece deve abbandonare il mondo.
Nell’esperienza personale di Levi
c’è il lavoro fuori dal campo, nella Buna, una gigantesca fabbrica costruita
grazie alla manodopera del vicino complesso di Auschwitz, è un enorme cantiere
dove i prigionieri vengono sfruttati per i lavori più massacranti, si tratta di
una fabbrica chimica e Primo Levi – che è proprio un chimico - parteciperà
all’esame per fare parte della squadra di chimici che lavorerà in laboratorio.
Questo cantiere infinito è anche
il luogo dove i prigionieri vengono in contatto con i civili, ma cosa pensano i
civili?
“Quello che noi dei tedeschi
pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello
che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo
qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno
sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga
qualche elemento utilizzabile»”
“Infatti, noi per i civili siamo
gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature
che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati
condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione,
noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci
odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano
loro grottesche come voci di animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza
capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più
abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di
fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondono
l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe
distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo «Kazett», neutro singolare.”
Queste sono le parole più
drammatiche, angoscianti e spaventose. Perché mostrano come può reagire l’uomo
libero, come può un uomo libero ragionare di fronte a tanto scempio, e la cosa
che mi spaventa (e mi fa anche arrabbiare) maggiormente è che purtroppo
ragionamenti simili si sentono tutt’oggi.
Ho accennato al commercio, al
mercato interno del lager perché leggendo questo libro si scoprono dei dettagli
assolutamente agghiaccianti: un esempio i prigionieri devono dare il grasso
alle scarpe/zoccoli, chi non lo fa o comunque non ha le calzature in ordine
viene punito fisicamente, io mi aspetto che il campo fornisca il grasso, e
invece no sono gli stessi prigionieri che lo devono procurare.
“Come questa nostra fame non è la
sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo
esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza»,
«paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere,
create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro
case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe
nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera
giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e
brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che
viene.”
Levi si interroga sulla giustezza
di narrare quanto accaduto nei lager e si risponde affermativamente e propone
anche una particolare chiave di lettura di questa esperienza:
“Questa, di cui abbiamo detto e
diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo,
hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo
relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta
conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione rimanga una qualche
memoria.
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti
persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi,
e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre
da questo particolare mondo di cui narriamo. Vorremo far considerare come il
Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e
sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età,
condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un
regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti
i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire
per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento
dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.”
Quindi Levi avanza l’ipotesi di
considerare il lager come un laboratorio per un gigantesco esperimento scientifico
e sociologico sul comportamento umano, da un lato questa interpretazione è
strettamente legata alla ricostruzione ed analisi della psicologia umana che
Levi fa delle persone che lo circondano (sia durante la prigionia cosa che gli
permette di rimanere “vivo”) sia a posteriori durante la scrittura della sua
testimonianza. Dall’altro ho inizialmente trovato raccapricciante l’idea di
vedere il lager come un esperimento scientifico ma forse è un’interpretazione
meno spaventosa di quello che in realtà è stato, perché alla fine lo scopo del
lager era semplicemente e brutalmente annientare una parte di popolazione (in
primis gli ebrei, ma non solo) senza colpa alcuna se non quella di appartenere
ad un'altra cultura e religione?! Non so cosa sia peggio!
“Moltissime sono state le vie da
noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani.
Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una
somma non piccola di aberrazioni e compromessi. Il sopravvivere senza aver
rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti
interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui
superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.”
Come si sopravvive dentro a un
lager? Anzitutto è questione di fortuna e caso! Questi sono i due elementi che
determinano la sorte degli individui. Ma si può lottare contro il sistema lager
anzitutto mantenendo la propria dignità, come un compagno più anziano spiega al
neo internato Levi
“Ma questo ne era il senso, non
dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per
ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo
si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per
portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare
almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi,
privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma
che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è
l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente,
lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca.
Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma
per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli
zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per
non cominciare a morire. Questo cose mi disse Steinlauf.”
E poi ci sono le astuzie che si
imparano col tempo, quando l’unica preoccupazione è il domani immediato, il
tempo e il freddo che rendono ancor più duro il lavoro senza sosta.
Un tema trattato molto importante
e singolare è il sogno: cosa sognano i rinchiusi? Cibo senz’altro, ma secondo
Levi un sogno molto comune e diffuso è quello di essere nuovamente a casa, tra
i propri cari e raccontare l’accaduto, raccontare il lager e trovare
incredulità o meglio non essere creduti, è probabilmente anche questa una delle
ragioni dell’impellente bisogno di Levi di raccontare.
Infatti l’opera rappresenta la
sua testimonianza, scritta di getto subito dopo il ritorno a casa, senza
pianificazione tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947, qui racconta le
cose più importanti, grosse e urgenti.
Il libro finisce all’improvviso,
la narrazione si interrompe con l’arrivo ad Auschwitz dei russi. L’uscita dal
campo e il travagliato viaggio di ritorno sono narrati in un altro libro: La
tregua.
L’aspetto che mi ha maggiormente
colpita nello stile è la lucidità nel descrivere quasi asetticamente la vita e
le regole del campo; senza odio, senza influenzare il lettore ma porgendo al
lettore domande e riflessioni e tanto materiale su cui riflettere.
Nella mia edizione Einaudi c’è
anche un’interessantissima appendice dove lo stesso Levi risponde alle domande che
maggiormente si è sentito rivolgere.
Conoscete questo libro? Avete
letto altro di Primo Levi? Fatemi sapere nei commenti.