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venerdì 17 gennaio 2025

IL COMMESSO di BERNARD MALAMUD

TITOLO: Il commesso 
AUTORE: Bernard Malamud         traduzione di: Giancarlo Buzzi
EDITORE: Minimum Fax
PAGINE: 327
PREZZO: € 12
GENERE: letteratura americana
LUOGHI VISITATI: New York fine anni '50




Un libro che mi è piaciuto molto e di cui mi risulta molto difficile parlare, mi capita con i libri che mi piacciono tanto talmente tanto da non trovare le parole.

Pubblicato nel 1957 ha un ambientazione coeva che oggi direi vintage: una New York d’altri tempi dove un panino costa 3 centesimi.

La storia è quella di un negoziante ebreo, Morris Bober e del suo negozio di alimentari a Brooklyn. Il negozio è l’unica ragione di vita di Morris ma anche ciò che gli ha rubato la giovinezza, che gli sta succhiando tutte le energie e in definitiva la vita (praticamente Morris è “sepolto” dentro al suo negozio da quarant’anni, esce raramente e mai dal quartiere) e nonostante il grandissimo impegno, tiene aperto dalle sei del mattino alle dieci di sera, il negozio non dà ai Bober abbastanza per tirare avanti e devono integrare con il magro stipendio della figlia Helen. Ci sarebbero tante cose da fare, da migliorare per stare al passo con i tempi e la concorrenza ma non ci sono i soldi, il negozio è lo stesso da decenni, ormai è fatiscente e i clienti sempre più scarsi, anche i più fedeli si rivolgono alla concorrenza. Uno dei problemi è proprio la presenza di nuovi supermercati nel quartiere, supermercati moderni e attrezzati che inoltre sono gestiti da “gentili”. I Bober sono ebrei ma vivono in un quartiere “normale” (cioè non ebraico o a maggioranza ebraica) e la loro appartenenza razziale è motivo di discrimine.

Abbiamo una narrazione lenta, tutto è incentrato sul negozio che è praticamente anche, salvo pochissime eccezioni, l’unico luogo dove vediamo i personaggi, dove si svolge “l’azione”. È un libro molto statico e molto introspettivo: Malamud scandaglia approfonditamente l’animo dei personaggi, ci racconta quello che dicono e quello che fanno ma anche e soprattutto i loro pensieri, sentimenti, paure, timori e le loro aspirazioni. Malamud appartiene al filone della narrativa ebraico-americana come Philip Roth e come Saul Bellow (per citare i più famosi), ho letto che è considerato il padre letterario di Roth (anche se quest’ultimo si discosta per essere molto più diretto e pungente). 

Voglio spendere due parole sui personaggi che sono il fulcro principale della narrazione che come detto sopra non è di azioni ma di introspezioni.

C’è la famiglia Bober composta da Morris, la moglie Ida e la figlia Helen, sono ebrei osservanti e per loro l’appartenenza religiosa è molto importante, non accetterebbero mai un matrimonio misto per la figlia.

Helen ha le idee chiare, è pratica e pragmatica, forse un po’ troppo idealista e per questo si è fatta terra bruciata intorno, è terribilmente sola l’unica compagnia le viene dai libri e dalla lettura. Non che sia priva di ammiratori, è anche una bella ragazza e nello stesso quartiere vivono altre due famiglie ebree in entrambe ci sarebbe un possibile pretendente, una ragazzo interessato ma lei vuole qualcosa di diverso, sogna e vuole una vita con determinate caratteristiche e non accetta compressi.

Il personaggio di Morris è pazzesco, è l’onesta fatta persona, non ruberebbe un grammo mentre gli altri non si fanno scrupoli a derubarlo e ingannarlo. È un sessantacinquenne ebreo emigrato dalla Russia zarista che cerca di realizzare il sogno americano con il suo negozio di alimentari a Brooklyn. È un uomo buono e onesto, che però si scontra con la dura realtà della vita, le perdite, la vecchiaia, la malattia e soprattutto il progresso.

“«Perché ho sgobbato tanto? Dov’è, dov’è finita la mia giovinezza?»
Gli anni erano passati spietatamente, senza profitto. Ma di chi era la colpa? Quello che non gli aveva fatto il destino se l’era fatto da sé. Bastava soltanto scegliere la strada giusta e lui invece aveva scelto quella sbagliata. Anche quando era giusta, si rivelava sbagliata. Per capirne il motivo bisognava possedere un’istruzione che lui non aveva. Tutto ciò che sapeva era che voleva qualcosa di meglio, ma in tutti questi anni non era mai riuscito a trovare il sistema per ottenerlo. La fortuna era un dono. Karp ce l’aveva, e anche qualche suo vecchio amico, individui ricchi che ormai erano nonni, mentre la sua povera figliuola, fatta sua immagine, rischiava – se pure non se lo poneva come obiettivo -  di restare zitella. La vita era ben povera cosa e il mondo cambiava in peggio. L’America era diventata troppo complicata e un uomo non contava più nulla. Troppi negozi, troppe depressioni, troppe ansie. Cosa aveva voluto fuggire, venendo qui?” pag 276 e 277

Infine il “commesso” del titolo Frank Alpine: un giovane di origini italiane, senza fissa dimora, un piccolo delinquente con un burrascoso passato alle spalle con la spola tra orfanatrofi e famiglie affidatarie poco amorevoli. Un ragazzo cresciuto da solo e per strada che ha sempre potuto contare solo su stesso. A un certo punto (anche per delle ragioni che si scoprono nel libro) decide di redimersi, di impegnarsi a diventare una persona migliore e come fa? Facendo il garzone per i Bober, in realtà praticamente imponendosi come garzone, il suo aiuto è molto prezioso i Bober ormai sono vecchi. Alla ragione iniziale se ne aggiungerà un’altra, io direi piuttosto scontata, un infatuazione, un interesse per Helen. (Dico scontata perché abbiamo vicino due ragazzi dannatamente soli e bisognosi di comprensione).

Voglio leggere altro di Malamud a me è piaciuto molto. Fatemi sapere nei commenti se lo conoscete e cosa mi consigliate.


giovedì 21 gennaio 2021

SE QUESTO É UN UOMO - PRIMO LEVI

TITOLO: Se questo è un uomo
AUTORE: Primo Levi
EDITORE: Einaudi
PAGINE: 219
PREZZO: € 11,00
GENERE: letteratura italina, memoir, shoa
LUOGHI VISITATI: campo di Auschwitz

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“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine ‘Campo di annientamento’, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.”

Se questo è un uomo di Primo Levi è il primo libro che tratta direttamente del tema dell’Olocausto che io ho letto. La prima volta l’ho lessi diversi anni fa e l’ho voluto rileggere ora per parlarne qui sul blog approfittando anche di un nuovo progetto che seguo su Instagram.

È un libro necessario per quanto doloroso, anzi direi imprescindibile. Primo Levi racconta la sua esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz: dal campo di internamento in Italia dopo la cattura, il lungo viaggio in treno, la vita nel campo fino all’arrivo dei russi.

La narrazione non è meticolosa e dettagliata per quel che riguarda la cronologia degli eventi e nemmeno per i legami che si sono creati con altre persone. Non è un diario. È piuttosto un insieme coerente (anche se non legato e spiegato dettagliatamente) di molti eventi che ha vissuto in prima persona, della sua esperienza in campo e di alcuni avvenimenti particolari e generali come ad esempio “la cerimonia” della selezione, il Ka-Be (l’infermeria) e l’orchestra che accompagna uscita e ingresso dal campo dei lavoratori.

“Alla distribuzione del pane si sente lontano, fuori dalla finestre, nell’aria buia, la banda che comincia a suonare: sono i compagni sani che escono inquadrati al lavoro. […] I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. […] Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? Quale prova più concreta della loro vittoria?”

La cerimonia della selezione è uno dei passaggi più drammatici della vita interna, si tratta di un “controllo”, della scelta sommaria e, in realtà anche molto arbitraria e casuale, tra i prigionieri all’interno del campo per decidere chi continua a “vivere” e chi invece è destinato alle camere a gas, tra chi continua la lotta in attesa della prossima selezione e chi invece deve abbandonare il mondo.

Nell’esperienza personale di Levi c’è il lavoro fuori dal campo, nella Buna, una gigantesca fabbrica costruita grazie alla manodopera del vicino complesso di Auschwitz, è un enorme cantiere dove i prigionieri vengono sfruttati per i lavori più massacranti, si tratta di una fabbrica chimica e Primo Levi – che è proprio un chimico - parteciperà all’esame per fare parte della squadra di chimici che lavorerà in laboratorio.

Questo cantiere infinito è anche il luogo dove i prigionieri vengono in contatto con i civili, ma cosa pensano i civili?

“Quello che noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile»”

“Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci di animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondono l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo «Kazett», neutro singolare.”

Queste sono le parole più drammatiche, angoscianti e spaventose. Perché mostrano come può reagire l’uomo libero, come può un uomo libero ragionare di fronte a tanto scempio, e la cosa che mi spaventa (e mi fa anche arrabbiare) maggiormente è che purtroppo ragionamenti simili si sentono tutt’oggi.

Ho accennato al commercio, al mercato interno del lager perché leggendo questo libro si scoprono dei dettagli assolutamente agghiaccianti: un esempio i prigionieri devono dare il grasso alle scarpe/zoccoli, chi non lo fa o comunque non ha le calzature in ordine viene punito fisicamente, io mi aspetto che il campo fornisca il grasso, e invece no sono gli stessi prigionieri che lo devono procurare.

“Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.”

Levi si interroga sulla giustezza di narrare quanto accaduto nei lager e si risponde affermativamente e propone anche una particolare chiave di lettura di questa esperienza:

“Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione rimanga una qualche memoria.
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui narriamo. Vorremo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.”

Quindi Levi avanza l’ipotesi di considerare il lager come un laboratorio per un gigantesco esperimento scientifico e sociologico sul comportamento umano, da un lato questa interpretazione è strettamente legata alla ricostruzione ed analisi della psicologia umana che Levi fa delle persone che lo circondano (sia durante la prigionia cosa che gli permette di rimanere “vivo”) sia a posteriori durante la scrittura della sua testimonianza. Dall’altro ho inizialmente trovato raccapricciante l’idea di vedere il lager come un esperimento scientifico ma forse è un’interpretazione meno spaventosa di quello che in realtà è stato, perché alla fine lo scopo del lager era semplicemente e brutalmente annientare una parte di popolazione (in primis gli ebrei, ma non solo) senza colpa alcuna se non quella di appartenere ad un'altra cultura e religione?! Non so cosa sia peggio!

“Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.”

 

Come si sopravvive dentro a un lager? Anzitutto è questione di fortuna e caso! Questi sono i due elementi che determinano la sorte degli individui. Ma si può lottare contro il sistema lager anzitutto mantenendo la propria dignità, come un compagno più anziano spiega al neo internato Levi

“Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire. Questo cose mi disse Steinlauf.”

E poi ci sono le astuzie che si imparano col tempo, quando l’unica preoccupazione è il domani immediato, il tempo e il freddo che rendono ancor più duro il lavoro senza sosta.

Un tema trattato molto importante e singolare è il sogno: cosa sognano i rinchiusi? Cibo senz’altro, ma secondo Levi un sogno molto comune e diffuso è quello di essere nuovamente a casa, tra i propri cari e raccontare l’accaduto, raccontare il lager e trovare incredulità o meglio non essere creduti, è probabilmente anche questa una delle ragioni dell’impellente bisogno di Levi di raccontare.

Infatti l’opera rappresenta la sua testimonianza, scritta di getto subito dopo il ritorno a casa, senza pianificazione tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947, qui racconta le cose più importanti, grosse e urgenti.

Il libro finisce all’improvviso, la narrazione si interrompe con l’arrivo ad Auschwitz dei russi. L’uscita dal campo e il travagliato viaggio di ritorno sono narrati in un altro libro: La tregua.

L’aspetto che mi ha maggiormente colpita nello stile è la lucidità nel descrivere quasi asetticamente la vita e le regole del campo; senza odio, senza influenzare il lettore ma porgendo al lettore domande e riflessioni e tanto materiale su cui riflettere.

Nella mia edizione Einaudi c’è anche un’interessantissima appendice dove lo stesso Levi risponde alle domande che maggiormente si è sentito rivolgere.

Conoscete questo libro? Avete letto altro di Primo Levi? Fatemi sapere nei commenti.