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domenica 7 febbraio 2021

LA MIA FAMIGLIA E ALTRI ANIMALI DI GERALD DURRELL

TITOLO: La mia famiglia e altri animali
AUTORE: Gerald Durrel - traduzione di Adriana Motti
EDITORE: Adelphi
PAGINE: 354
PREZZO: € 12,00
GENERE: letteratura inglese, memoir, letteratura scientifica
LUOGHI VISITATI: Corfù, Grecia metà anni '30

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Un libro divertente.

Gerald Durrell, naturalista e scrittore inglese, in questo libro ci racconta la sua esperienza di vita sull’isola greca di Corfù dove ha passato parte della sua infanzia e adolescenza, assieme alla madre e ai fratelli nel mezzo degli anni ’30 del secolo scorso.

Gerry, come lo chiamavano in famiglia, è un ragazzino appassionato di scienze naturalistiche, passa il tempo immerso nella natura a osservare e studiare piante ed animali, anche per questo la famigli gli riserva un’intera stanza, il suo primo studio:

“Dopo la sfortunata faccenda dello scorpione, la famiglia mi aveva dato una grande stanza al primo piano per alloggiarvi le mie bestiole, nella vaga speranza che così sarebbero rimaste relegate in una determinata parte della casa. Questa stanza – che io chiamavo il mio studio e che il resto della famiglia chiamava il Cimiciaio – aveva un gradevole odoro di etere di alcool denaturato. Là dentro tenevo i miei libri di storia naturale, il mio diario, il microscopio, gli strumenti per sezionare, i retini, i vascoli e altri oggetti importanti. Grandi scatole di cartone contenevano le mie uova di uccello, le mie collezioni di scarabei, farfalle e libellule, mentre sugli scaffali c’era una bella serie di bottiglie piene di alcool denaturato nelle quali erano conversate cose di grande interesse come un pulcino a quattro zampe (regalo del marito di Lugaretzia), lucertole e serpenti vari, uova di rana in diversi stadi di sviluppo, un polipo neonato, tre topi bruni ancora piccolini (omaggio di Roger),  e una minuscola tartaruga, appena uscita dall’uovo, che non aveva resistito all’inverno. Sulle pareti, in modo sparso ma pieno di gusto, facevano bella mostra di sé una lastra di ardesia con i resti fossilizzati di un pesce, una fotografia che mi ritraeva mentre stringevo la mano a uno scimpanzé, e un pipistrello impagliato. L’avevo impagliato io stesso, senza nessun aiuto, ed ero molto orgoglioso del risultato. Visto che le mie nozioni di tassidermia erano estremamente limitate, a me sembrava che somigliasse parecchio a un pipistrello, specie se uno stava dall’altra parte della stanza. Con le ali spalancate, guardava il mondo con aria torva dalla sua tavoletta di sughero attaccata alla parete.”

Nella vita di Durrell però si deve pensare anche alla sua istruzione, non frequenta delle scuole come le conosciamo noi oggi ma va a lezione da diversi precettori che gli insegnano le basi di tutte le materie dalla matematica alle lettere passando per la storia e la geografia e le lingue straniere, in particolare studierà il francese con il console belga a Corfù. La particolarità è che questi insegnanti sono uno più bizzarro dell’altro da chi alleva uccelli in soffitta a chi si fa carico del problema dei gatti randagi.

Protagonisti indiscussi del libro sono le piante e soprattutto gli animali che Gerry ha avuto modo di “conoscere” e studiare sull’isola e le sue avventure di scoperta. Non mancano però le vicende legate alla sua famiglia e agli amici che si è fatto, soprattutto tra i contadini dell’isola e due menzioni d’onore vanno a Spiro Hakiaoupulos il taxista personale dei Durrell e a Theodore Stephanides medico e scienziato amico di tutta la famiglia ma che strinse con Gerry un legame particolarmente forte data la comune passione per le scienze naturalistiche tanto che organizzavano assieme spedizioni esplorative settimanali.

Le vicende non sono raccontate in modo scrupolosamente cronologico ma piuttosto in relazione ai vari eventi cui sono legate. La narrazione è piana, piuttosto lenta, è una lettura molto interessante anche dal punto di vista scientifico, in alcune parti si avvicina molto al saggio ma è divertente e alternata le nozioni scientifiche con le avventure della famiglia Durrell, senz’altro Gerry ci mette del suo nel creare queste “avventure” con tutti gli animali che si porta a casa, ma anche gli altri membri della famiglia sono interessanti ed eccentrici. Vengono narrate molte avventure ma non è un libro pieno d’azione. La godibilità del testo sta secondo me anche e soprattutto nel taglio ironico e divertente che Durrell è riuscito a dare alla ricostruzione di questi anni di vita. È un opera che viene presentata come autobiografica, ed è vero ma nella ricostruzione Durrell si è preso diverse licenze poetiche.  Emerge tutta la passione per il mondo naturale circostante, che Durrell aveva già da piccolissimo e che poi è diventato non solo il suo lavoro ma la sua ragione di vita.

Dalla lettura è possibile anche farsi un quadro generale della vita a Corfù - che sembra piuttosto oziosa almeno nella campagna - e dei suoi abitanti “umani” oltre che del meraviglioso paesaggio e degli aspetti naturalistici. Inoltre in quegli anni l’isola era meta di artisti alla ricerca di tranquillità e ispirazione ed è proprio questo il motivo del trasferimento a Corfù della famiglia Durrell, il fratello maggiore Lawrence (Larry) infatti è uno scrittore.

“«Sei straniero?» domandò, aspirando profondamente e con immensa soddisfazione.
Dissi che ero inglese, e che vivevo con la mia famiglia in una villa sulle colline. Poi aspettai le inevitabili domande sul sesso, il numero e l’età dei miei parenti, il loro lavoro e le loro aspirazioni, seguite da un abile interrogatorio per appurare il perché vivevamo a Corfù. Questa era la solita prassi dei contadini; lo facevano in modo non antipatico, ed erano spinti soltanto da un amichevole interesse. Loro ti raccontavano tutte le loro faccende personali con la massima semplicità e franchezza, e si sarebbero offesi se tu non avessi fatto altrettanto.”

 “L’isola sonnecchiava sotto di noi, scintillante come un acquarello appena dipinto, nella foschia dell’afa: ulivi grigioverdi, cipressi neri, rocce multicolori lungo la costa, e il mare levigato e opalescente d’un azzurro martin pescatore, verde giada, con qualche lieve increspatura sulla sua superficie liscia dove si incurvava intorno a un promontorio roccioso e fitto di ulivi. Proprio sotto di noi c’era una piccola baia lunata col suo bordo di sabbia bianca, una baia così bassa e con un fondo di sabbia così abbagliante che l’acqua era di un azzurro pallido, quasi bianco.”

“Sotto la villa, tra una fila di colline su cui essa si ergeva e il mare, si stendevano i Campi a Scacchiera. Il mare si insinuava nella costa formando una grande baia quasi del tutto chiusa, poco profonda e vivida, e sul terreno piatto lungo i suoi bordi si stendeva l’intricato disegno dei canali che una volta, ai tempi di Venezia, erano state delle saline. Ognuno di quei simmetrici pezzetti di terra incorniciati dai canali era intensamente coltivato e tutto rigoglioso di vegetazione, dalle messi del granoturco alle patate, ai fichi, alle vigne. Questi campi, minuscoli e vividi riquadri contornati dalle acque scintillanti, si stendevano come una vasta scacchiera multicolore sulla quale si muovevano da un punto all’altro le colorate figure dei contadini.
Era una delle aree che preferivo per le mie esplorazioni, perché i piccoli canali e il sottobosco lussureggiante albergavano di una moltitudine di creature.”

Questo libro mi ricorda molto “Il libro del mare” di Morten A. Stroksnes e forse anche “L’arte di collezionare mosche” di Fredrik Sjöberg entrambi libri che possiedo e aspettano di essere letti, vi farò sapere se ho visto giusto.

Voglio terminare la mai recensione riportando – un po’ come fa il libro che si chiude con un messaggio del Durrell Wildlife Conservation Trust, un ente caritatevole che si occupa della salvaguardia dalla natura fondato dallo stesso Gerald assieme ad uno zoo sull’isola di Jersey – una frase scritta da Gerald Durrell che trovo bella ma soprattutto importantissima: “Gli animali sono la grande maggioranza senza voto e senza voce che può sopravvivere solo col nostro aiuto”.

È un libro molto divertente che consiglio di leggere soprattutto a chi è appassionato della natura che ci circonda, permette di scoprire molte curiosità sul mondo animale senza essere pesante o noioso, non conoscevo molti nomi (soprattutto di piante e di animali e li ho cercarmi sono cercata su google moltissimi nomi (soprattutto) di piante e di animali che non conoscevo, è quasi un documentario su carta che intrattiene e diverte e intermezza le spiegazioni con le vicende personali. E infine, ma non per importanza, permette di scoprire un’importante figura del panorama scientifico (che sembra piuttosto simpatico).

Conoscete questo libro? Avete letto qualcosa di Gerald Durrell? Fatemi sapere nei commenti.

 

domenica 24 gennaio 2021

LA FAMIGLIA KARNOWSKI - I.J. SINGER

TITOLO: La famiglia Karnowski
AUTORE: Israel Joshua Singer - traduzione di Anna Linda Callow
EDITORE: Adelphi
PAGINE: 498
PREZZO: € 10,00
GENERE: romanzo familiare, letteratura polacca
LUOGHI VISITATI: Berlino, New York 

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Un romanzo familiare che vede protagoniste tre generazioni di Karnowski, tutti maschi, David, Georg e Jegorg, molto diversi tra loro.

Il capostipite è David, un ebreo polacco che dopo il matrimonio lascia il piccolo paesino di Melnitz per trasferirsi a Berlino, patria della conoscenza e dei lumi. David è un erudito, uno studioso fattosi da se, ottimo commerciante, si fa promotore di una filosofia di vita diretta all’integrazione senza dimenticare o perdere le proprie tradizioni religiose, la politica di essere ‘ebreo in casa, berlinese fuori’. La moglie Lea invece non si trova molto bene nella capitale tedesca, non si integrerà mai, rimane, come la definisce il marito, “una paesana” legata alle tradizioni del popolino da cui proviene e piena di superstizioni, ai salotti della Berlino bene preferisce di gran lunga quello dei coniugi Burak, amici e suo compaesani, dove si sente a casa.

“Quando ricevette l’ordine di presentarsi alla polizia, dove gli annunciarono che presto sarebbe stato internato in un campo con tutti gli altri russi, David Karnowski fu profondamente amareggiato.
Non riusciva a concepire che potesse accadere una cosa del genere. A lui? Lui che era fuggito dall’ignoranza e dall’oscurantismo dell’Est per la cultura e i lumi dell’Ovest? Lui che parlava un tedesco impeccabile ed era membro del consiglio di amministrazione della più grande sinagoga di Berlino? Un erudito che sapeva tutto su Moses Mendelssohn, Lessing e Schiller? Un onesto commerciante proprietario di uno stabile in città, padre di figli nati nel paese, arrestato insieme alla volgare plebaglia?”
 

Poi c’è il figlio Georg, ‘ribelle’ curioso e facile ad entusiasmarsi come a stancarsi delle varie cose. Georg si scontra col padre fin da ragazzo perché vuole fare quello che vuole; è ebreo, va bene ma che significa? Non gli interessano le regole e le morali che gli derivano dalla religione, penso di non sbagliare a definirlo ateo. Dopo vari tentativi trova finalmente la sua strada, quella del medico e si sposerà con un tedesca, seguendo il suo cuore e non le tradizioni.

Infine Jegorg (figlio di Georg) che odia il padre perché è ebreo e gli ha passato alcuni tratti caratteristici della razza ebraica come i folti capelli neri e la pelle olivastra in vistoso contrasto con gli occhi azzurro ghiaccio ereditati dalla madre. Jegorg è un ragazzino difficile, cagionevole di salute, vive l’avvento del nazismo e in quanto ebreo dovrà subire delle umiliazioni molto pesanti e reagisce semplicemente odiando il padre e tutti gli ebrei.

“Lo specchio gli rimandò un’immagine che gli ricordava le caricature dei giornali.
«Mio Dio, quanto sono brutto, e che faccia da ebreo!» esclamò gettandolo via.”

C’è un continuo scontro generazionale tra padri e figli; il figlio abbraccia ideali e stili di vita diversi da quelli del padre e per questo incomprensibili. David estremamente interessato alla cultura e all’integrazione senza dimenticare la propria religione e le sue tradizioni. Georg è invece assolutamente indifferente alla religione e alla passioni da studioso del padre, arriverà a seguire l’amore a discapito delle tradizioni. Infine Jegorg un mezzo ebreo che odia gli ebrei, nonostante subisca umiliazioni pesanti per le sue origini raziali, è filo nazista, patteggia per gli uomini con gli stivali, si sente tedesco o meglio ariano e odia il padre, non capisce e non apprezza l’amore della famiglia. Odioso ma forse si riscatterà.

I Karnowski non sono però gli unici personaggi del romanzo, accanto a loro Singer ci racconta anche le vicende di alcuni loro amici in particolare i Burak e il dottor Landau. I coniugi Burak - amici di Lea Karnowski -sono proprietari di un grande negozio su una delle vie più importanti di Berlino, una specie di bazar che vende di tutto a prezzi stracciati e che ha moltissimi clienti tedeschi. Spicca la personalità frizzante e amichevole del capofamiglia Salomon, un eterno giocherellone con la battuta sempre pronta; si differenzia da molti altri ebrei perché non nasconde, anzi ostenta la sua religione e le sue origini polacche.

Poi c’è il dottor Landau, un anziano medico ebreo, che vive e lavora in un quartiere popolare e di operai; è un tipo particolare, vegetariano, grande camminatore, senza peli sulla lingua aiuta il prossimo esercitando la professione praticamente gratuitamente. È colui che guida Georg nelle proprie scelte professionali.

E infine una menzione spetta al vecchio Reb Efraim, uomo che ha dedicato la vita all’analisi e allo studio dei testi sacri, un pozzo di sapienza che viene consultato da rabbini, professori e studiosi di ogni confessione religiosa. Colpisce per il pragmatismo e la saggezza e la calma, invita anche chi gli sta intorno a fare altrettanto, in particolare a non disperarsi per “gli uomini con gli stivali” perché gli ebrei hanno sempre avuto nemici e sempre ne avranno, ma i figli di Israele non soccomberanno mai.

“Reb Efraim si interessa solo dei suoi libri sacri, pezzi da collezione, manoscritti rari, stipati su scaffali di legno grezzo dal pavimento tarlato fino al soffitto a volta della stanza.
Alto, sottile, con il viso allungato, un’imponente barba grigia e lunghi capelli dello stesso colore, uno zucchetto di cotone liso sulla testa e una grande pipa in bocca, siede immerso nei testi esoterici, in mezzo a polverosi manoscritti e pergamene che sfoglia ed esamina con l’aiuto di una lente di ingrandimento. Sul tavolone di legno ingombro di carte, sono posati un vaso di terracotta pieno di penne d’oca appuntite e un piattino contenente colla e pennelli induriti. La colla serve a Reb Efraim per restaurare le pagine lacere, riparare i bordi, rimettere insieme i fascicoli staccati; le penne d’oca ad annotare correzioni a margine e integrare le parti mancanti, strappate o bruciate, in caratteri ebraici minuscoli e ornati. Non utilizza mai pennini d’acciaio, soltanto penne d’oca che si procura dal venditore di pollame della casa accanto e a cui fa accuratamente la punta con un apposito coltellino. La sua scrittura somiglia più all’arabo che all’ebraico. Ogni lettera è adorna di corone e svolazzi, come quelli che usano gli scribi nel ricopiare i rotoli della Torah.
Il professor Breslauer del seminario rabbinico è un visitatore assiduo. Benché non ami troppo addentrarsi nel ghetto, non ha molta scelta, perché, nonostante i tanti rabbini e studiosi, in tutta la città non si trova un solo erudito paragonabile a reb Efraim Walder. Come il professor Breslauer, anche altri dotti frequentano la sua stanzetta, insigni rabbini, storici, studiosi del giudaismo. La Dragonerstrasse guarda ogni volta con stupore quei personaggi importanti del ricco quartiere occidentale arrivare in visita. E figurarsi quando vedono comparire non soltanto gli ebrei di Berlino Ovest, ma professori cristiani e preti in cerca di chiarimenti di teologia ebraica. Per questo motiva perfino il gendarme mostra un grande rispetto nei confronti del vecchio signore e gli indirizza un saluto militare ogni volta che lo incontra per strada.”
 

Nel romanzo Singer compie un’analisi della comunità ebraica berlinese, da un lato c’è il ghetto della Dragonstrasse che si contrappone agli ebrei tedeschi della Berlino Ovest, tra cui il nostro David Karnowski, parla delle distinzioni e delle discriminazioni che ci sono al suo interno. Quindi da un lato, appunto, c’è il quartiere ebraico chiassoso e povero dall’altro gli ebrei che si sono integrati alla perfezione, tedeschi a tutti gli effetti (chiamati yeke) e che con gli altri condividono ben poco e che per questo guardano con spregio, ma anche all’interno della comunità della Berlino ovest esiste una scala sociale ben precisa e nel momento del bisogno gli yeke non si fanno scrupolo a ignorare gli amici anche se ben integrati perché non tedeschi.

La narrazione è scorrevole e gli anni passano velocemente, Singer si sofferma su alcuni momenti ed episodi particolari e poi veniamo proiettati avanti nel tempo, dove ci racconta un altro momento significativo, il tempo trascorso nel mezzo è liquidato in poche parole, riassunto in una frase.

La collocazione temporale della vicenda è indefinita, non ci sono riferimenti diretti al periodo storico di ambientazione ma è ricostruibile a posteriori dal lettore e si va dagli inizi del ‘900 fino all’avvento del periodo nazista.

“Quando i giovani in stivali cantavano per le strade che il sangue ebraico avrebbe zampillato sotto i colpi del coltello, lo pensavano davvero. Non erano parole al vento, come avevano creduto gli abitanti dei quartieri ovest di Berlino.”

Il periodo nazista che vivono i protagonisti è quello delle prime avversità, le scritte sulle vetrine, l’impossibilità di esercitare determinate professioni, limitazioni alla libertà personale, discriminazioni e umiliazioni molto marcate ma non la deportazione; e poi c’è la migrazione e la nuova vita negli Stati Uniti.

“Georg sapeva che cosa impediva al ragazzo di uscire. Neppure lui era mai tranquillo quando era per strada, mai sicuro di non essere insultato. Ma proprio per questo si costringeva a vincere l’inquietudine. Giusto perché quelle canaglie non desideravano altro, si rifiutava di procurare loro quella soddisfazione. Dopo i primi mesi trascorsi chiuso in casa, lontano dalla strada, dalle parate e dai teppisti, aveva ripreso ad uscire anche senza alcuna necessità, solo per sfida. Con un passo ostentatamente sicuro camminava per miglia ogni mattina per scacciare la pigrizia, lo scoraggiamento e i pensieri cupi. Alcuni vicini si voltavano dall’altra parte quando lo incontravano per non essere costretti a salutarlo, altri correvano il rischio e gli facevano un cenno col capo. Alcune donne intrepide gli sorridevano e lo salutavano addirittura per prime. Georg teneva la testa ancora più alta per mostrare che non si lasciava impressionare da nessuno, che neanche per idea si sentiva avvilito, non lui, il dottor Georg Karnowski!” 

Il finale è travolgente, assolutamente wow, anche se è dannatamente aperto, lascia la possibilità a tante strade e interpretazioni e io voglio interpretarlo positivamente.

Il personaggio di Jegorg è odioso e antipatico ma forse si riscatta.

Conoscete La famiglia Karnowski? Avete letto altro di Israel Joshua Singer?

venerdì 18 dicembre 2020

IL ROGO DI BERLINO - HELGA SCHNEIDER

TITOLO: Il rogo di Berlino
AUTORE: Helga Schneider
EDITORE: Adelphi - collana Gli Adelphi
PAGINE: 229
PREZZO: € 11
GENERE: letteratura tedesca, memoir
LUOGHI VISITATI: Berlino durante anni '40-'46 

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Un libro triste e doloroso.

Berlino, la capitale del Terzo Reich, sotto i bombardamenti! Un volto, un aspetto nuovo (almeno per me) dei drammi e delle tragedie che sono state la seconda guerra mondiale. Il tutto raccontato da una bambina di quattro, cinque anni quando la madre biologica l’abbandona per unirsi alle SS. Siamo nel 1941 e Berlino già si trova a combattere con la fame e la miseria, le cose non possono che peggiorare arrivando a bombardamenti continui, assenza di acqua, elettricità e cibo, dove le persone sono costrette a vivere rintanate nelle cantine dei palazzi, chi ce l’ha, sperando che il proprio palazzo non venga distrutto; rischiando quotidianamente la vita per procurarsi acqua e cibo.

“Il bus imbocca la Lothar-Bucher-Strasse in senso vietato, ma nessuno ci fa caso. I pochi automezzi che si aggirano per le vie deserte non si preoccupano certo di osservare le regole del traffico, e comunque mancano del tutto i vigili, un genere completamente estinto, così come sono scomparsi i pompieri che dovrebbero spegnere gli incendi provocati dalle bombe al fosforo. Non funziona più nulla: non ci sono più postini né fattorini che portino il latte, non si trova più un solo medico, e le squadre di Pronto Intervento, che fino a qualche tempo fa sgomberavano le strade dai cadaveri, ora non rispondono più al telefono. Una città un tempo funzionale e organizzata ha abbandonato la popolazione a sé stessa: niente più diritti, niente più doveri.”

È un romanzo autobiografico. La cosa che forse mi ha maggiormente fatto male, non è tanto e solo gli orrori della guerra, ma la solitudine e l’abbandono affettivo in cui la piccola Helga deve vivere. Abbandonati dalla madre, il padre si risposa praticamente subito e lei e il fratellino devono crescere con la matrigna Ursula. Purtroppo tra le due non scatta la scintilla, non scatta l’amore, Helga è una bambina ribelle, testarda (e come darle torto), tra lei e la matrigna è sempre guerra. Anche col fratellino le cose non vanno bene, lui è legatissimo alla matrigna, è viziato e pretenzioso e anche cattivo, tra i due (almeno per gli anni narrati in questo libro) manca quel legame fraterno di solidarietà e amore reciproco che dovrebbe contraddistinguere ogni rapporto tra fratelli. Helga vive anche delle esperienze in istituti correttivi, ma verrà riportata a casa e passa l’ultimo anno e mezzo del conflitto con la famiglia rintanati in cantina.

“La maggior parte del tempo stavamo sdraiati sui nostri giacigli per risparmiare le forze. Da un lato desideravamo che la guerra finisse, dall’altro temevamo l’arrivo dei russi. Intanto continuavano a bombardarci, ma nessuno capiva quali obiettivi potessero essere ancora in piedi e fare gola al nemico. Berlino era un rogo, cosa volevano ancora?”

Grazia alla zia Hilde che lavora al ministero della propaganda Helga e il fratellino Peter avranno la fortuna di fare un soggiorno nel bunker della Cancelleria del Reich e anche di incontrare Hitler di persona. Ho detto fortuna perché nel bunker è possibile lavarsi e soprattutto mangiare a sazietà.

Il tutto viene narrato secondo le percezioni di una bambina: la stessa autrice una volta adulta che rivive quei terribili anni. Il libro è molto scorrevole ma non è una lettura facile per la drammaticità di quanto narrato, tanto più che si tratta di una storia vera, e non una semplice finzione letteraria.

La Schneider ha scritto altri libri autobiografici, come questo, in particolare penso a “Lasciami andare, madre” libro dove affronta la figura materna, quella madre che, come detto all’inizio, abbandona i suoi figli per arruolarsi nelle SS e servire alla causa del nazismo – e “I miei vent’anni (oltre il rogo di Berlino)” dove racconta la sua vita da adulta dopo aver lasciato la casa del padre. Ma è autrice anche di svariati altri romanzi non autobiografici dove però il tema centrale rimane sempre quello della Seconda Guerra Mondiale e della vita nella Germania Nazista. Penso di poter affermare che si tratta di libri non facili da leggere per il contenuto e la carica emotiva che sprigionano, ma necessari.

“Tutto era sereno. C’era il sole e i tigli era spumeggianti di verde. Com’era tutto diverso!
A un tratto vedemmo spuntare la portinaia che cominciò a spazzare il vialetto. Guardavo ogni cosa con altri occhi. Come ci aveva deformato lo sguardo quella maledetta cantina! In un attimo mi passò davanti agli occhi tutto l’orrore vissuto: era successo davvero? E come eravamo sopravvissuti? Senza acqua né luce né cibo né igiene. Al buio. Al freddo. In quella promiscuità infernale!
Mi concentrai di nuovo sul cortile. Alcuni bambini giocavano a palla, ma non li conoscevo: non c’erano né Egon né Rudolf. Allora sollevai gli occhi verso le rovine che circondavano lo spiazzo e mi fecero uno strano effetto. Avevano perduto il loro senso di monito, e si erano inserite serenamente nell’ambiente come scenari un po’ bizzarri di un cortile ormai perfettamente riassettato: le crepe dei vialetti erano state riempite di cemento, le macerie sgomberate; i cespugli erano stati potati, l’erba tagliata. Ogni traccia di cadavere eliminata. La rimessa riparata. C’era un’aria di ordinata normalità. […] Quei monconi macabri e quei muri dilaniati o in equilibrio precario, quei vuoti delle finestre sui cui davanzali si erano annidati impudenti ciuffi d’erba e quei mucchi di calcinacci polverosi sembravano essersi ormai riconciliati col passato, concedendogli un troppo facile perdono. Dissi qualcosa in proposito a Peter, ma lui si toccò la fronte e sentenziò: «Sei stupida».
Forse aveva ragione: forse era davvero assurdo come sentivo le cose.”