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giovedì 23 novembre 2023

UN INDOVINO MI DISSE di TIZIANO TERZANI

TITOLO: Un indovino mi disse
AUTORE: Tiziano Terzani
EDITORE: Tea
PAGINE: 430
PREZZO: € 10
GENERE: letteratura italiana, letteratura di viaggio, memoir, reportage
LUOGHI VISITATI: Sud Est asiatico primi anni '90
acquistabile su amazon: qui (link affiliato)


Colloquiale, intimo e coinvolgente. È come se prendessimo un caffè o meglio un lunghissimo te - magari su una spiaggia del sud est asiatico oppure in uno dei lunghi viaggi in treno o in nave che Terzani ha fatto nel suo 93 -  e, come fossimo vecchi amici, Terzani ci racconta dalla sua vita e di quell’anno magico che gli ha fatto vivere tante belle esperienze.

Cos’ha di speciale il 1993? Per tutto l’anno Terzani non ha mai preso un aereo o un velivolo e si è sposato con altri mezzi di trasporto. Perché? Perché anni prima un indovino gli predisse di non prendere voli, e così più per gioco che per paura/scaramanzia passa un intero anno senza volare, un anno dove comunque viaggia, si sposta perché svolge il proprio lavoro di giornalista e torna, come di consueto, nella sua Firenze per le vacanze.

Tutto inizia nel 1976 quando per caso un vecchio indovino cinese ammonisce Terzani a non volare nel 93; passano gli anni e Terzani che è il primo scettico, il primo a non credere, quello che trova sempre una spiegazione logica decide di sfruttare l’occasione che la profezia gli offre per vivere una nuova esperienza.

 “… mi ritrovai alla fine del 1992. Che fare? Prendere sul serio quel vecchio cinese e riorganizzare la mia vita, tenendo conto del suo avvertimento? O far finta di niente e tirare avanti dicendomi: «Al diavolo gli indovini e le loro fandonie»?
A quel punto avevo vissuto in Asia, ininterrottamente, per più di un ventennio – prima a Singapore, poi a Hong Kong, Pechino, Tokyo, infine a Bangkok – e pensai che il miglior modo di affrontare quella «profezia» fosse il modo asiatico: non mettercisi contro, ma piegarcisi.
[..] E poi a me l’idea di non volare per un anno intero piaceva di per sé. Soprattutto come sfida. […] La profezia era la scusa.”

È anzitutto un magnifico libro di viaggio, che offre spunti anche per viaggi attuali diversi dal solito dove il viaggio non è solo un modo per raggiungere la metà ma è esso stesso la meta, lo scopo del viaggio non è tanto o solo raggiungere un luogo ma il viaggio in sé, l’esperienza, ciò che vedi e chi incontri. E lo trovo un insegnamento molto importante.

Tiziano Terzani è un giornalista fiorentino che ha girato il mondo e dagli anni ’70 è corrispondente dal il Sud Est Asiatico per il Der Spiegel e noi lo seguiamo nei suoi spostamenti per lavoro, viaggiamo con lui in giro per l’Asia e viviamo tante esperienze e avventure come quando partecipa a una sorta di rally che inaugura una strada che unisce Thailandia e Cina Ponendo fine (purtroppo) al secolare isolamento di una regione oppure l’epocale il viaggio in treno che lo porta da Bangkok a Firenze.

“… con il solo peso di un sacco sulle spalle e di una borsa a mano, uscii una mattina da Turtle House e partii per un grande viaggio, uno dei più lunghi della mia vita, uno dei più lenti, quello con cui volevo darmi più agio: Bangkok-Firenze. Ero diretto in Occidente, ma dovetti incominciare andando verso Oriente. Essendo impossibile attraversare la Birmania in direzione dell’India, il modo più sicuro di lasciare la Thilandia era di entrare in Cambogia, di proseguire in Vietnam, poi in Cina, in Mongolia, in Siberia e avanti, avanti fino a casa.” 

Ma Terzani in questo 1993 fa anche un’altra cosa, una sorta di gioco per cui si mette a consultare indovini: in ogni luogo che visita (e ne visita tanti) si informa e consulta l’indovino più famoso, ricercato, apprezzato del luogo. Scopriamo così tante tecniche diverse per predire il futuro, chi legge le carte, chi le mani, chi i piedi, chi traccia segni oppure costruisce schemi partendo da data e ora di nascita; emergono tante realtà diverse ma Terzani si accorge di una cosa molto interessante ogni cultura dà maggior importanza a determinati aspetti della vita e così l’indovino, in base alla cultura di appartenenza, tenderà a parlare a predire il futuro con maggior attenzione a uno o a un altro aspetto come può essere il denaro oppure l’amore o la longevità; e la cosa che trovo simpatica è che utilizzano per Terzani gli stessi schemi/modelli che utilizzano per i compatrioti asiatici.  

Se ne vedono di tutti i colori è un aspetto interessante e quasi un ulteriore viaggio che compiamo con Terzani nel senso che viaggiamo nello spazio ma anche dentro le culture che incontriamo e lo facciamo attraverso il fenomeno degli indovini. Si interroga anche sul significato e sul senso degli indovini offrendo anche qui spunti di riflessione molto interessanti.

“Gli chiesi di aiutarmi con la storia delle elezioni e di trovarmi il migliore indovino della città. Questa volta non era tanto il mio destino che mi interessava – ne avevo già collezionate varie versioni -, quanto la risposta a un pensiero che sin dall’inizio dell’anno mi girava in testa: se è davvero possibile prevedere il futuro, se l’uomo porta davvero in sé i semi di quel che lo aspetta, la Cambogia era il posto in cui provarlo. Nel giro di quattro anni, una persona su tre era morta in questo paese, perlopiù in maniera violenta. Gli indovini lo avevano predetto? C’era stato qualcuno che aveva messo in guardia contro la possibilità di un bagno di sangue?
Se nel palmo di una mano c’è un segno che indica una malattia a diciott’anni e la possibilità di un infarto a cinquantadue, cosa doveva esserci nelle mani dei due milioni di cambogiani che il 17 aprile 1975 videro il loro mondo finire? Le fosse comuni della Cambogia erano piene di gente predestinata a finire lì. Se nessuno aveva saputo leggere quel loro futuro, allora voleva dire che chiunque pretende di saperlo fare è un impostore; voleva dire che il futuro non è nella mano di nessuno, non è nelle stelle. Voleva dire che il destino non esiste.” 

Offre anche tanti spunti di riflessione a partire dai viaggi in aereo, avete mai pensato a come il viaggio aereo distorca il mondo e lo faccia assomigliare? Viaggiare in aereo fa perdere non solo il senso della distanza tra i luoghi ma anche la lontananza, fisica, culturale e sociale perché tutti gli aeroporti sono praticamente uguali in ogni angolo del mondo, sono “internazionali” e poi fa perdere anche il senso dei confini e delle frontiere, diversità ben visibili se si viaggia via terra per esempio.

“La Cambogia finisce con un grande arco di trionfo in pietra rosa, sovrastato dalla riproduzione delle torri di Angkor. Da lì dovetti fare a piedi un centinaio di metri per arrivare a un portale di cemento grigio e disadorno che segnava invece l’inizio del Vietnam. Gli stranieri che si presentano lì sono rarissimi e il mio arrivo creò una grande curiosità, una perquisizione minuziosa dei miei bagagli e un interrogatorio in cui la domanda ricorrente fu: «Perché non hai preso l’aereo?». Già, perché?
Forse anche per riscoprire che il mondo è un complicato mosaico di paesi, ciascuno con le sue frontiere da varcare; forse per riaccorgermi che la terra non è una massa monocolore punteggiata di aeroporti, come appare nelle carte delle linee aeree; o forse semplicemente per riprovare l’emozione di varcare, fisicamente a piedi, e non per aria, una vera frontiera come quella.”

Avrei voluto sottolineare tutto il libro, è pieno di passaggi interessanti oltre alle sue esperienze si parla di geopolitica, di Storia, ci sono curiosità, aneddoti e tante riflessioni. Leggiamo di culture e tradizioni e di storia più o meno recente e di come sono oggi paesi come il Vietnam, la Cambogia e la Cina per esempio, paesi in cui Terzani ha vissuto e lavorato.

Un libro bellissimo ma anche doloroso. Anzitutto perché è un libro che trasporta e fa viaggiare attraverso l’Asia il lettore; ma è un Asia che non esiste più (stiamo parlando principalmente del 1993 sono passati 30 anni) ma già all’epoca Terzani ci dice che non esiste più, che sta scomparendo, piano piano tutti i paesi si occidentalizzano abbandonando molto del tradizionale a favore del moderno, dello sviluppo (e il modello di monto/vita moderna e sviluppato è quello occidentale) a partire dalla Thailandia.

“Il destino di quella straordinaria civiltà che aveva, davvero per millenni, preso un’altra via, che aveva affrontato la vita, la morta, la natura, gli dei in maniera diversa dagli altri, mi rattristava! Quella cinese era una civiltà che aveva inventato un suo modo di scrivere, di mangiare, di fare l’amore, di pettinarsi: una civiltà che per secoli ha curato diversamente i suoi malati, ha guardato diversamente il cielo, le montagne, i fiumi; che ha avuto una diversa idea di come costruire le case, di fare i templi, un’altra concezione dell’anatomia, un diverso concetto di anima, di forza, di vento, d’acqua; una civiltà che ha scoperto la polvere da sparo e l’ha solo usata per fare fuochi d’artificio invece che proiettili per i cannoni. Quella civiltà oggi cerca solo di essere moderna come l’Occidente; vuole diventare come quell’isolotto ad aria condizionata che è Singapore; produce giovani che sognano solo di vestirsi come rappresentanti di commercio, di fare la coda davanti ai fast food di McDonald, di avere un orologio al quarzo, un televisore a colori e un telefonino portatile.
Non è triste? Non dico per i cinesi. Ma per l’umanità in genere, che perde molto nel perdere le sue diversità e nel diventare tutta uguale.”

 

Ma è doloroso anche per le narrazioni degli ultimi decenni di storia del sud est asiatico questo sud est asiatico ricco di storia, tradizioni millenarie, usi e costumi interessanti, dilaniato da guerre e dittature, si parla della guerra del Vietnam, della Cambogia di Pol Pot e del regime birmano, Terzani è stato corrispondente per questi eventi li ha vissuti in prima persona.

Una parte che ho apprezzato moltissimo (anche se ho apprezzato davvero tutto) è quella relativa alle prime elezioni democratiche in Cambogia che si tengono nel 1993 a cui naturalmente Terzani assiste, avvengono sotto l’egida dell’ONU e sono elezioni democratiche.  Le parole di Terzani sono così profonde, così vere da sembrare scontate ma non lo sono, ho apprezzato moltissimo che dica quello che pensa con tanta lucidità e coraggio sull’intervento ONU in Cambogia emerge ancora una volta l’ipocrisia occidentale, si tratta di un pensiero che non si può non condividere e che può essere traslato anche a molti altri scenari. Se il mondo fosse governato da uomini come Terzani a mio modestissimo parare vivremmo praticamente in paradiso!

 

“Quello che è successo in Cambogia dal 1975 al 1979, sotto il regime dei Khmer Rossi, sfidava ogni fantasia dell’orrore; era più spaventoso di qualsiasi cosa un uomo potesse immaginarsi. L’intera società era stata rovesciata, le città abbandonate, le pagode distrutte, la religione abolita e la gente regolarmente massacrata in un continua orgia purificatrice. Un milione e mezzo, forse due milioni, di cambogiani – un terzo della popolazione – erano stati eliminati. Cercai quelli che avevo conosciuto e non trovai nessuno. Erano tutti finiti a «fare da concime nei campi», perché anche i «controrivoluzionari», dicevano i Khmer Rossi, dovevano, almeno come cadaveri, servire a qualcosa.
Viaggiai per un mese attraverso un paese martoriato a raccogliere testimonianze di questa follia. La gente era così atterrita, così inebetita dall’orrore che spesso non riusciva a raccontare o non voleva farlo. Nelle campagne mi venivano indicati «i centri di raccolta per l’eliminazione dei nemici» - di solito erano le vecchie scuole – dove restavano le tracce delle torture, i pozzi dove non era più possibile bere perché riempiti di morti, le risaie dove a volte non si riusciva a camminare senza pestare le ossa di quelli che lì, a colpi di bastone, per risparmiare le pallottole, erano stati massacrati.
Dovunque si scoprivano nuove fosse comuni. C’erano superstiti che non riuscivano più a montare su una barca da quando avevano visto i loro famigliari portati in mezzo a un lago e buttati in pasto ai coccodrilli. Altri non riuscivano più a salire su una palma perché i Khmer Rossi avevano usato gli alberi per mettere alla prova le loro vittime e decidere chi dovesse vivere e chi morie. Quelli che riuscivano ad arrivare fino in cima erano considerati contadini da utilizzare; gli altri, intellettuali da eliminare.
Da allora la Cambogia non fu mai più la stessa. […] Non potevo più guardare serenamente una fila di palme senza pensare istintivamente che le più alte erano quelle più concimate di cadaveri. In Cambogia persino la natura aveva perso la sua rincuorante innocenza.
[…] Dopo aver ignorato per anni la tragedia di questo paese, la comunità internazionale era finalmente intervenuta massicciamente. Non certo per mettere ordine, per punire gli assassini e ristabilire un minino di decenza nella vita! […] per la piccola Cambogia, le «Grandi Potenze» avevano trovato una di quelle soluzioni che servono a giustificare ogni immoralità: un compromesso. Con gli Accordi di Parigi, firmati con grande pompa nel 1991, i massacri furono dimenticati, boia e vittime vennero messi sullo stesso piano, i vari gruppi combattenti furono invitati a deporre le armi e i loro capi a presentarsi alle elezioni. Che vincesse il migliore! Come se la Cambogia nel 1993 fosse l’Atene di Pericle.
Questa volta ero a Phnom Penh da qualche giorno e avevo l’impressione di assistere a una grande rappresentazione di follia.
In un palazzo degli anni ’30, che era stato la residenza del governatore francese, s’era installato il Quartier Generale dell’UNTAC, l’Autorità delle Nazioni Unite incaricata di applicare gli accordi di Parigi. Ogni giorno, su una bella terrazza, un giovanotto di nazionalità francese dava informazioni e istruzioni ai cinquecento giornalisti venuti da tutto il mondo per assistere «elle prime elezioni democratiche nella storia della Cambogia»; un altro, di nazionalità americana, spiegava che era proibito prendere foto degli elettori alle urne e chiedere loro, all’uscita dei seggi, per chi avessero votato.
Ai piani superiori, nei piccoli uffici ricavati dalle grandi sale di un tempo, altri funzionari internazionali, avvocati e giudici presi in prestito dai vari paesi, professori universitari a contratto per l’ONU, ciascuno davanti al suo computer, lavoravano a elaborare piani per lo sviluppo e la modernizzazione del paese, stilavano una nuova costituzione, scrivevano leggi per riorganizzare le dogane, eliminare la corruzione, ristrutturare il sistema scolastico e far funzionare gli ospedali. A sentir loro, quella era per la Cambogia un’occasione unica per rimettersi in piedi, per tornare a essere un paese normale. Il mondo intero era lì ad aiutarla. Sulla carta era vero. […] Il destino dei cambogiani non era la grande priorità del momento. Per le Nazioni Unite era prioritario portare a buon fine l’intervento in Cambogia, così da poter ripetere l’operazione altrove. […] Se la comunità internazionale avesse voluto fare qualcosa per i cambogiani, doveva metterli sotto una campana di vetro per una generazione, proteggerli dai loro vicini-nemici, thailandesi e vietnamiti, dai rapaci uomini d’affari venuti come cavallette a sfruttare l’occasione di far due soldi. Doveva anzitutto aiutarli a vivere in pace, a riscoprire se stessi… E poi, forse, poteva chiedere loro se volevano avere una monarchia o una repubblica, se preferivano il partito della Mucca o quello del Serpente.
Invece di mandare esperti di diritto costituzionale, di economia o di comunicazioni, le Nazioni Unite avrebbero dovuto mandare un gruppo di psicanalisti e psicologi a occuparsi dello spaventoso trauma che questo popolo aveva subito.”


La prosa di Terzani è acuta, ha uno sguardo lungimirante, che condivido molto, ha una lingua piana, semplice colloquiale, che mette il lettore a suo agio, lo fa sentire a casa, con un amico e al contempo informa, insegna, istruisce, emerge tutta la conoscenza e anche la saggezza ma non in modo accademico o spocchioso, e poi ha una lingua sarcastica, tagliente ma giusta. 

Ricco di riflessione sulla vita, sul suo senso, sulla modernità e il suo impatto sulle persone, soprattutto sulla loro felicità. E le riflessioni di Terzani sono ottimi spunti di riflessione anche per il lettore.

Ci sono tantissimi riferimenti alla storia geopolitica dell’Asia e ne narra anche degli episodi anche passati che fanno parte della sua esperienza e/o che comunque servono a contestualizzare e spiegare il presente, si parla della guerra in Vietnam, dei Khmer Rossi e della Cambogia, dei grandi cambiamenti che hanno e stanno subendo i vari paesi, la Malesia musulmana. Io conosco davvero pochissimo però è facile star dietro a Terzani.

Lo stile è colloquiale ed è secondo me un pregio enorme, è una fonte infinita di informazioni e saggezza, eppure sembra di ascoltare il tuo amico di scuola. Semplice ma efficace, scorrevole, meraviglioso proprio perché spiega e narra cosa ha portato all’oggi. E poi le riflessioni, le sue opinioni molto forti e coraggiose ma a mio parere assolutamente lucide, meritevoli e degne di essere condivise.

Ho letto il libro nel 2023 esattamente trent’anni dopo la sua ambientazione ma è stato un caso. Mi sono approcciata praticamente al buio, da tempo volevo conoscere Terzani perché mi ispirava e in una promo tea avevo acquistato questo libro. Penso inoltre che molto di quello che Terzani ci racconta sia ancora attuale nonostante gli anni, soprattutto le riflessioni su come la “modernità” sia ricercata a discapito delle tradizioni e delle diversità e soprattutto della felicità, felicità che viene sacrificata perché il mondo va veloce e bisogna adeguarsi e non c’è tempo e spazio per ciò che ci fa piacere.

Voglio leggere altro di suo e sicuramente leggerò Buonanotte sig. Lenin che racconta di un viaggio fatto in Russia subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica e assiste durante il viaggio all’eliminazione dei simboli e delle statue del regime, tra l’altro è il libro che uscirà proprio nel ’93 e ce ne parla. Mentre gli altri suoi libri da un lato mi intimoriscono soprattutto quelli che sono cronache di un reporter di guerra in Vietnam e Cambogia però li voglio recuperare perché secondo me sono fonti importantissime e accessibili anche a chi, come me, è piuttosto digiuno di questi argomenti ma vuole approfondire.

Fatemi sapere se lo avete letto e cos’altro mi consigliate.


venerdì 10 aprile 2020

FURORE - JOHN STEINBECK

TITOLO: Furore
AUTORE: John Steinbeck - traduzione di Sergio Claudio Perroni
EDITORE: Bompiani
PAGINE: 633
PREZZO: € 14
GENERE: letteratura americana
LUOGHI VISITATI:Stati Uniti

acquistabile su amazon: qui (link in bio)




Viaggio epico, milioni di persone che si spostano verso ovest, una nuova corsa verso il west questa volta alla ricerca di un lavoro. Cosa vogliono questi emigranti? Un lavoro onesto, come raccoglitori di frutta e altre colture, metter da parte qualche soldo e poi, magari, comprarsi un piccolo appezzamento proprio, dove spaccarsi la schiena tutto l’anno per coltivare ciò che serve per vivere e far mangiare la famiglia.
Queste persone scappano da molti stati centrali, dove a causa della depressione e di alcune pessime annate si trovano ad essere prima mezzadri e poi buttati fuori dalle loro terre ormai in mano a banche e altre società interessate al profitto e che fanno agricoltura coi trattori e le macchine perché costano meno e rendono molto di più.

“…Gli uomini accoccolati alzavano gli occhi, allarmati. Ma cosa sarà di noi? Come faremo a mangiare? Dovrete lasciare la terra. Gli aratri verranno a spianare la vostra aia.
A quel punto gli uomini accoccolati si alzavano in piedi, furibondi. Mio nonno ha preso questa terra e ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli via. E mio padre è nato qui, e ha liberato questa terra dalla gramigna e dai serpenti. Poi c’è stata una brutta annata e ha dovuto farsi prestare un po’ di soldi. E noi siamo nati qui. Lì, sulla soglia: quelli sono i nostri figli, nati qui. E mio padre ha dovuto farsi prestare altri soldi. Già allora la terra era della banca, ma ci hanno permesso di restare qui e di tenere un po’ di quello che coltivavamo.
Lo sappiamo… sappiamo tutto. Non siamo noi, è la banca. Una banca non è come un uomo. E manco uno che possiede cinquantamila acri è come un uomo. È questo il mostro.
Già gridavano i mezzadri, ma questa terra è nostra. L’abbiamo misurata e l’abbiamo dissodata. Su questa terra siamo nati, su questa terra ci siamo fatti uccidere, su questa terra siamo morti. Anche se non serve più a niente è ancora nostra. Ecco cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci. È questo a darcene il possesso non un pezzo di carta con sopra dei numeri.
Ci dispiace. Non siamo noi. È il mostro. Una banca non è come un uomo.
Sì, ma la banca è fatta di uomini.
No, qui vi sbagliate… vi sbagliate di grosso. La banca è qualcosa di diverso dagli uomini. Tant’è vero che ogni uomo che lavora per una banca odia profondamente quello che la banca fa, e tuttavia la banca lo fa ugualmente. Credetemi, la banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla.
I mezzadri urlavano: mio nonno ha ucciso gli indiani, mio padre ha ucciso i serpenti per questa terra. Forse potremmo uccidere le banche: sono peggio degli indiani e dei serpenti. Forse dobbiamo combattere per tenerci la terra, come hanno fatto mio padre e mio nonno.
E a quel punto erano i delegati a infuriarsi. Dovete andarvene.
Ma è nostra, urlavano i mezzadri. Abbiamo…
No. La terra è della banca, del mostro. Dovete andarvene.
Piglieremo i fucili, come Nonno quando arrivarono gli indiani. E allora?
Allora… prima lo sceriffo, poi l’esercito. Sarete ladri se tenterete di restare, e sarete assassini se ucciderete per restare. Il mostro non è fatto di uomini ma fa fare gli uomini quello che vuole.”


Vanno tutti a ovest in California perché consigliato loro da chi li butta fuori, e perché girano dei volantini in cui si dice che si cercano lavoratori e le paghe sono ottime. Allora si vende a prezzo stracciati quel poco che si ha, si carica l’indispensabile e la famiglia su mezzi di fortuna (auto e camion) e si parte sulla Route 66 alla volta della California.
Il sistema agricolo californiano è molto avanzato, chimici e studiosi e macchine hanno reso ancor più feconda la terra, ma è anche monopolizzato da pochi grandi, interessati esclusivamente ai profitti, sono senza scrupoli e disposti a giocare sporco falsando il mercato e lasciando marcire la frutta.
E poi c’è il problema dei “rossi”, dei “semina zizzania”, ma chi sono i rossi? Be’ chi vuole per sé (e magari anche per gli altri, perché se sei da solo non vali niente ma se si è in tanti a chiedere la stessa cosa e a coalizzarti magari qualcosina si ottiene) una paga equa, sufficiente a sfamare la propria famiglia, che sta morendo di fame. Non ci sono diritti per i lavoratori. Ma quel che è peggio è che la gente del luogo ha paura e si arma - fomentata dai grandi proprietari terrieri e industriali – e se la prende con i nuovi venuti i cosiddetti “Okie” brucia gli accampamenti e non esita ad uccidere, e la polizia fa lo stesso. Emerge tutta l’incapacità statale di fronteggiare la crisi economica ed emerge lo spettro della paura che il comunismo pota diffondersi anche in America (comunismo identificato nella richiesta di tutela per i lavoratori come una paga minima sufficiente a vivere).

La struttura della narrazione è particolare si alternano dei brevi capitoli che spiegano la situazione generale con i capitoli di narrazione della storia della famiglia Joad.
I capitoli generali sono senza un protagonista particolare o ricorrente: in questi Steinbeck descrive e racconta i vari aspetti della vicenda ad esempio c’è quello sull’area di servizio sulla statale 66, c’è quello sul venditore d’auto usate (con tutti i trucchi e gli stratagemmi per fregare i disperati alla ricerca di un mezzo per andare a ovest) quello sugli acquirenti dei disperati, sulla coltivazione in California, su come gli americani si sono impossessati di questo stato.
Poi ci sono i capitoli di narrazione: in cui seguiamo le vicende della famiglia Joad, che è il prototipo, qui viene ricostruita la realtà del tempo e di questa classe sociale scoprendone vita e pensieri, ricostruiti soprattutto attraverso i dialoghi dove il linguaggio è sgrammaticato anche per renderlo realistico. Devo ammettere che inizialmente ho avuto difficoltà ad entrare in empatia coi Joad (Pa’, Ma’, i figli Noah, Tom, Rose of Sharon e suo marito Connie, Al, Ruthie e Windfield e poi ci sono Nonno e Nonna e zio John), ma poi mi ha conquistato e ho apprezzato la saggezza e la risolutezza di Ma’.

“«Macché finita,» disse Ma’ con un sorriso. «Non è finita per niente, Pa’. E c’è un’altra cosa che sanno le donne. Me ne sono accorta. Per l’uomo la vita è fatta di salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, per l’uomo è un salto; se ti compri la terra e ti perdi la terra, per l’uomo è un salto. Per la donna invece è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, ogni tanto c’è una secca, ma l’acqua continua a scorrere, va sempre dritta per la sua strada. Per la donna è così ch’è fatta la vita. La gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume: magari cambia un po’, ma non finisce mai»”.

Amo Steinbeck e il suo coraggio, un libro che vuole dare voce a chi non ce l’ha, narra fatti nel momento stesso in cui stavano accadendo, ha avuto grande coraggio. Il libro è stato un grandissimo successo, che ha portato molti apprezzamenti e anche molte critiche, anche se Steinbeck non ha mai voluto esprimere un pensiero politico. Furore è considerato il capolavoro dello scrittore americano - che ha vinto il Nobel nel ’62 - e questo romanzo è stato vincitore di numerosi premi. Penso di avvicinarmi al vero se dico che l’elemento centrale della narrazione di Steinbeck è l’uomo con particolare attenzione alle classi più “disagiate” e sfortunate, una narrativa diretta a dare voce ai più deboli, almeno per quanto ho letto finora: Uomini e topi, Furore e La Perla; proprio quest’ultimo voglio rileggerlo perché forse finalmente riuscirò ad apprezzarlo (lo lessi la prima volta alle medie e l’ho odiato; l’ho riletto dopo aver aperto di il blog quando scoprii che era di Steinbeck lo stesso scrittore di cui volevo ardentemente leggere “Uomini e topi”, ma penso sia giunto il momento di darli una chance ulteriore, non perché debba piacermi a tutti i costi ma semplicemente perché ora ho capito cosa vuole raccontare).
Il titolo originale in lingua originale è “The Grapes of Wrath” letteralmente i grappoli d’ira, tratto da un passo dell’apocalisse. Titolo che in italiano è stato “tradotto” in Furore concetto espresso anche all’interno della narrazione dallo scrittore stesso:

“Un delitto così abietto che trascende la comprensione. Una piaga che nessun pianto potrebbe descrivere. Un fallimento che annienta ogni nostro successo. La terra è feconda, i filari sono ordinati, i tronchi sono robusti, la frutta è matura. E i bambini affetti da pellagra devono morire di fame perché da un’arancia non si riesce a cavare profitto. E i coroner devono scrivere sui certificati “morto per denutrizione” perché il cibo deve marcire, va costretto a marcire.
Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di kerosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli dei maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.”


Mi sono finalmente decisa a leggere questo libro grazie al progetto #scrittoinamerica che per il mese di aprile prevede il tema del viaggio.

Aspetto vostri pareri su Steinbeck.
 

lunedì 30 marzo 2020

TRE UOMINI IN BARCA - JEROME

TITOLO: Tre uomini in barca
AUTORE: Jerome Klapka Jerome - traduzione di Nicoletta Della Casa Porta
EDITORE: Demetra - collana Passepartout
PAGINE: 256
PREZZO: € 5,90
GENERE: letteratura inglese
LUOGHI VISITATI: Tamigi di fine '800
acquistabile su amazon: qui (link in bio)




Un libro ironico e divertente, che è il genere di Jerome Kapkla Jerome.

“… George reggeva uno strano pacchetto avvolto in tela cerata: era arrotondato e piatto, e da una estremità usciva un lungo manico diritto.
«Che cos’è?» chiese Harris «un’altra padella?»
«No» rispose George con un luccichio folle negli occhi. « È l’ultima moda. Chiunque vada sul fiume ne ha uno. È un benjo».
«Non sapevo che sapessi suonare il banjo!» esclamammo all’unisono Harris e io.
«Non esattamente,» rispose George «però mi hanno detto che è facilissimo, e poi ho il libretto delle istruzioni!».”

Una lettura perfetta per farsi un’idea della vita della media borghesia inglese di fine Ottocento, per conoscerne usi e costumi e vezzi.
“… nelle domeniche di bel tempo è questo il suo normale aspetto: lunghe file di imbarcazioni attendono pazienti il proprio turno di entrare o uscire, mentre altri battelli vi si avvicinano o se ne allontanano, cosicchè il fiume assolato, dalla reggia fino alla chiesa di Hampton, è costellato di giallo, azzurro, arancio, bianco, rosso e rosa. Tutti gli abianti di Hampton e di Mousley indossano i loro abiti da barca per venire a passeggiare con il cane attorno alla chiusa, amoreggiare, fumare e ammirare le barche: nell’insieme – un po’ per i berretti e le giacche degli uomini, e i vestiti colorati delle donne; un po’ per i cani festosi, le barche in movimento, le vele candide, il paesaggio gradevole e il luccichio dell’acqua – a mia conoscenza è uno degli spettacoli più gai nei dintorni della vecchia e noiosissima Londa.”
Meravigliose le descrizioni paesaggistiche. Il libro funge anche da “guida turistica” indica per molte delle località incontrate i luoghi d’interesse da visitare e i posti dove alloggiare e mangiare.
“..Attorno a Clifton Hampden, un piccolo, grazioso villagio sommerso di fiori, lo scenario del fiume è vario e bello. Se volete passare la notte a terra, non potreste fare di meglio che scendere a Barley Mow, sicuramente l’albergo più antico e bizzarro di tutto il fiume. Si trova sulla destra del ponte, un po'’ isolato dal resto del villaggio. Con il suo tetto di paglia dalle falde spioventi e le grate alle finestre sembra uscito da un libro di fiabe, e l’interno rafforza ancora di più quest’impressione…”

Partendo dal racconto della gita in barca fatta dallo stesso Jerome con due suoi amici Harris e George risalendo il Tamigi da Kingstone a Oxford, e narrando tutte le vicissitudini di questa vacanza Jerome divaga tantissimo raccontando una miriade di aneddoti relativi a fatti che ha vissuto lui o qualche suo amico o parente – la digressione è collegata al testo perché una particolare situazione o esperienza di viaggio fa tornare alla mente di Jerome l’aneddoto che va raccontando. Si aggiungono poi le digressioni di carattere storico: in relazione ai luoghi toccati vengono indicati fatti e personaggi storici che hanno soggiornato oppure narra pagine di storia che si è vissuta/intessuta in quei luoghi; tra i personaggi storici citati ci sono Giulio Cesare, Elisabetta I, Enrico VIII e Anna Bolena, Anna di Cleves, Algar il Sassone, Guglielmo il Conquistatore con la regina Matilde e Giovanni Senza Terra.
Ma attraverso aneddoti e ricordi spesso Jerome ha modo di filosofeggiare sulla vita e sul suo senso, il tutto nascosto dietro l’ironia e lo humor inglese, che permeano tutte le pagine, non c’è pagina o avvenimento in cui non strappi una risata o almeno un sorriso al lettore.
“… a volte George salta fuori con osservazioni di un tale buon senso da lasciare a bocca aperta. Vere perle di saggezza, le definisco io, e non solo riguardo al caso in questione, ma in generale riguardo alla nostra navigazione sul fiume della vita. Quanti, durante quel viaggio, rischiano di fare arenare la propria barca caricandola di un mucchio di cianfrusaglie ritenute essenziali al proprio piacere o benessere, ma che in realtà sono soltanto inutile ciarpane. […] Getta la zavorra, amico. Fa’ che la barca della tua vita sia leggera e contenga solo lo stretto indispensabile: una casa accogliente, piaceri semplici, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che ti ami, un gatto, un cane, una pipa o due, abbastanza da mangiare e da coprirti, e solo da bere un po’ più del necessario: perché la sete, si sa, è pericolosa.”
“… mi piace guardare un vecchio barcaiolo a remi, soprattutto se è stato ingaggiato a ore. Il suo metodo ha un che di così stupendamente calmo e riposante, senza traccia della fretta nervosa, dell’agitarsi sconclusionato che sembrano diventati il vessillo del nostro secolo. Non una volta si sforza di superare le altre barche, né si innervosisce se un’altra barca lo sorpassa. In effetti lo sorpassano tutte…. o almeno tutte quelle che seguono la sua stessa rotta. Molti ne sarebbero irritati e infastiditi, ma la calma sublime dimostrata in tali occasioni dal barcaiolo ci offre una lezione indimenticabile contro l’ambizione e l’alterigia.”
Questo romanzo è considerato il più famoso dello scrittore inglese Jerome e la narrazione trae spunto dal viaggio di nozze dello stesso scrittore; di quest’opera c’è un seguito ideale che è “Tre uomini a zonzo” dove si narra di una vacanza in bicicletta anche in questo caso l’autore prende spunto da un viaggio vero fatto con gli amici. Libro che è già finito in wishlist.
È un libro che sa intrattenere, leggendolo si ha l’impressione di tante parole che alla fine non raccontano nulla: racconta di questo viaggio in barca, racconta di tutto ciò che passa per la mente dello scrittore protagonista, dice tantissimo senza dire nulla; sembra quasi senza capo e senza coda ma in senso positivo è un libro che fa compagnia. È un libro che consiglio a chi vuole ritagliarsi un momento di relax in compagnia di un libro simpatico, divertente che non richiede troppo impegno ma al contempo permette di farsi un’idea della vita della società inglese di fine ‘800.

Io ho letto l’opera nell’edizione Demetra nella collana Passpartuot, scoperta per caso nelle librerie Giunti, penso - dalle poche informazioni che sono riuscita a trovare - sia un editore che fa parte del gruppo Giunti, nella collana Passepartuot ho visto pubblicati molti classici della letteratura a un prezzo molto interessante. Ogni opera è accompagnata da un’introduzione di uno scrittore, nel caso del mio libro l’introduzione è a cura di Guido Sgardoli. Conoscete questa casa editrice?
Avete letto qualcosa di Jerome?