TITOLO: Chiamate la levatrice
AUTORE: Jennifer Worth traduzione di Carla De Caro
EDITORE: Sellerio
PAGINE: 493
PREZZO: 15,00 €
GENERE: memoir, letteratura inglese
LUOGHI VISITATI: Londra anni '50
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“Perché le levatrici non sono
considerate al pari di eroine, come sarebbe giusto? Perché continuano a essere
figure marginali? Dovrebbero essere lodate a gran voce da tutti. Ma non è così.
La responsabilità che decidono di assumersi è incommensurabile. Le loro abilità
e il loro sapere sono senza eguali eppure tali virtù vengono date per scontate
e spesso trascurate. Negli anni Cinquanta tutti gli studenti di medicina
facevano pratica con le levatrici. Certo, le lezioni in aula erano tenute da un
ostetrico, ma senza la pratica clinica non avrebbero avuto senso. Così, in
tutti gli ospedali universitari, gli studenti venivano affidati a una
levatrice, che poi accompagnavano nelle sue visite per acquisire le nozioni
pratiche dell’ostetricia. Tutti i medici condotti sono stati formati da una
levatrice. Ma queste verità rimangono sconosciute ai più.”
Un libro meraviglioso,
coinvolgente. Ti trasporta in un'altra epoca dove le donne partorivano in casa
e ad assisterle c’erano delle levatrici professioniste, ed è una di questi angeli
a narrare le vicende, tracciando un quadro della Londra degli anni ’50 con
particolare riferimento ai quartieri più poveri dell’East End londinese i
Docklands, i quartieri del porto fatti di case popolari.
La Worth narra la sua esperienza
come levatrice al servizio della Nonnatus House: il convento St. Raymond
Nonnatus un ordine religioso che operava nell’East End a favore delle classi
più povere e bisognose della popolazione, si occupava delle nascite ma anche di
medicina generale in supporto ai medici di base. Le suore del Nonnatus sono tra
quelle donne che si sono battute affinché fosse emanata una legge che
disciplinasse l’assistenza alle nascite, legge che arriva solo nel 1902, prima
ad assistere le partorienti erano donne qualsiasi e potevi essere fortunata ma allo
stesso modo potevi non esserlo ed essere assistita da una persona incompetente
che poteva anche abbandonare (a morte certa) madre e bambino se le cose si
mettevano male:
“È difficile immaginare come fino
al secolo scorso, le donne in gravidanza non avessero alcuna assistenza
ostetrica specializzata. La prima volta che una donna vedeva un dottore o una
levatrice era al momento del travaglio. Per questo morti ed eventi infausti,
sia per il bambino che per la madre, erano piuttosto comuni. Tali tragedie
venivano interpretate come la volontà di Dio quando, in realtà, erano soltanto
l’inevitabile risultato di negligenza e ignoranza. Le signore dell’altra
società erano seguite da un dottore durante la gravidanza, ma le sue visite non
si potevano certo annoverare tra i trattamenti prenatali: erano piuttosto
semplici visite di cortesia, poiché nessun medico, a quel tempo, aveva le
competenze necessarie in fatto di assistenza prenatale. […] L’opposizione della
medicina sembra aver avuto origine principalmente nella convinzione che ‘le
donne cercano di intromettersi troppo in ogni settore della vita’ [opposizione
alle levatrici formate e relativo movimento]. Anche gli ostetrici nutrivano
forti dubbi che le capacità intellettive delle donne fossero tali da
comprendere l’anatomia e la fisiologia del parto, opponendosi quindi alla loro
formazione. Ma alla base di tutte queste paure c’era una sola vera ragione:
indovinate quale? Bravissimi, ma nonostante la rapidità non avete vinto nulla:
i soldi. La maggior parte dei medici, di norma, si faceva pagare una ghinea per
parto. Si andava spargendo la voce che le levatrici professioniste si facessero
pagare solo mezza ghinea, battendoli sul prezzo! Si era ormai ai ferri corti.”
Ovviamente quando Jennifer Worth
arriva al Nonnatus House e inizia la sua pratica di levatrice le cose sono già
migliorate, siamo negli anni ’50 e appunto Jennifer, che è già infermiera
professionista e ha lavorato in diversi ospedali, va a lavorare al Nonnatus
proprio per imparare, fare pratica e quindi poter essere una levatrice
professionista.
Scritto in prima persona racconta
le esperienze della Worth come levatrice, riflette molto anche chiedendosi
perché abbia scelto questo lavoro e perché le piaccia.
“Sembra stanca, penso, ma non
mostra segni di stress o di sforzo. È sempre così! È come se una donna fosse
dotata di un sistema che le permette di dimenticare tutto; una sostanza chimica
o un ormone che agisce nella parte del cervello deputata alla memoria subito
dopo il parto cancellando ogni ricordo della precedente agonia. Se non fosse
così, nessuna donna farebbe un secondo figlio. […] Io gli rispondo «Buona
giornata» e pedalo via allegramente, felice per la mia gioventù, per l’aria del
mattino, per l’esaltante trambusto del porto, ma soprattutto per la sensazione
impareggiabile di aver reso felice una madre aiutandola a far nascere il suo
bellissimo bambino. Perché ho cominciato? Lo rimpiango? Mai e poi mai. Non
cambierei il mio lavoro con nessun altro al mondo.”
Perché raccontare attraverso dei
libri la propria esperienza di levatrice dopo tanti anni? La risposta la
fornisce nell’introduzione la stessa Worth: legge un articolo in cui si analizza
la figura della levatrice in letteratura ed esce che questa figura è
praticamente assente e la giornalista sfida una levatrice a farsi avanti e
scrivere. Ecco.
La narrazione è ricca e
dettagliata, anche di aspetti e dettagli medico scientifici relativi al parto,
alle sue fasi e ad altre particolari patologie con cui viene in contatto nella
sua attività, numerosi e interessanti i paragoni con le tecniche moderne e come
si sia evoluta l’ostetricia dagli anni ‘50 ad oggi.
Quasi 500 pagine che volano,
scorrono veloci tra i ricordi di Jennifer e la sua esperienza al Nonnatus House
come levatrice e come infermiera, la vita nell’East End di Londra ai Docks con
tante storie di vita, più belle e più brutte (povertà, degrado, violenza,
resilienza) ma anche di vita generale di persone che ha incontrato e aiutato
come Mary e la sig. Jenkis. Non manca di raccontare parte della sua storia
personale e piano piano emergono anche le storie delle altre ragazze che
prestano servizio lì, delle suore e del personale laico del convento come la cuoca
Mrs. B. e il simpaticissimo tuttofare Fred; il Nonnatus House è un posto dove l’accoglienza
e la gentilezza sono al primo posto. Dipingere la società inglese negli anni 50
e anche prima facendo raffronti e paragoni con i giorni nostri.
Il tema principale è quello delle
nascite, del suo lavoro di levatrice e racconta tante storie diverse, di parti
e di visite prenatali, raccontando in parte la vita di queste donne, storie che
sono in qualche modo il pretesto anche per raccontare qualcosa della società
inglese ma anche in generale della condizione di donna, della gravidanza e di
particolari patologie, e infine ci sono capitoli che si occupano della
“discendenza mista”.
Sempre narrando della propria
esperienza vengono portate all’attenzione del lettore anche altre tematiche: prostituzione
e ospizi per i poveri; il libro in questo senso svolge anche la funzione di informare, non si può dire
denunciare perché parla di situazioni verificatasi molto tempo prima, alcune
erano già finite nel momento in cui la Worth ne viene a conoscenza –
figuriamoci quando ne scrive.
La cosa che più mi ha colpito
sono stati gli ospizi per i poveri, strutture nate da un’idea caritatevole ma
trasformati in un abominio:
“Chiesi ragguagli a Sorella
Evangelina su questa segregazione, che sembrava una pratica talmente disumana
da non poterci credere. Eppure era tutto vero. La segregazione era la prima
regola di tutti gli ospizi del paese e quella che veniva applicata con maggior
rigore. I mariti separati dalle mogli, i genitori dai figli, i fratelli dalle
sorelle. Di solito non si rivedevano mai più. […] La vita in ospizio era
terribile. Tutti gli ospiti erano rinchiusi nei loro reparti che consistevano
in una sala ricreazione, un dormitorio e un cortile all’aperto. Erano confinati
nel dormitorio dalle otto di sera fino alle sei di mattina. Al centro della
sala c’era un canale di scolo o una fogna dove potevano fare i loro bisogni
durante la notte. La sala ricreazione era la sala da pranzo, dove sedevano su
lunghe panche per consumare i pasti. Tutte le finestre erano poste al di sopra
del livello degli occhi, cosicché nessuno poteva guardare fuori e i davanzali
erano inclinati verso il basso, in modo che nessuno potesse arrampicarsi e
sedersi lassù. Il cortile era un quadrato di ghiaia recintato, senza porte o
cancelli. Era un prigione a tutti gli effetti. I giorni si trasformavano in
settimane, le settimane in mesi, mentre la vita scorreva nella monotonia e
nella miseria più assolute. Le donne lavoravano tutto il giorno, di solito impiegate
in mansioni pesanti: fare il bucato per tutto l’ospizio; lavare i pavimenti (il
direttore aveva una vera fissazione); cucinare pasti di infima qualità per
tutti gli ospiti; cucire tessuti pesanti come sacchi, vele, stuoie; e la cosa
più strana di tutte, fare la stoppa. Si trattava di prendere una vecchia corda,
di solito incatramata, disfarla e ridurla in stringhe che venivano poi usate
per calafatare le giunzioni delle navi di legno. A dirla così sembra facile; ma
non lo era. La corda, soprattutto se incrostata di olio, catrame o sale, poteva
essere dura come l’acciaio e disfarla a mani nude era un lavoro doloroso che
lasciava le dita dolenti e sanguinanti”.
Non mancano le descrizioni
esaurienti e dettagliate dei quartieri popolari, dei suoi abitanti e delle sue
dinamiche, che sono i luoghi dove si concentra l’attività del Nonnatus House e
quindi di Jennifer Worth:
“Che ci fosse il sole o la
pioggia, le case popolari conservavano il loro aspetto tetro. Erano edifici di
forma rettangolare, alti circa sei piani, con un’apertura su di un lato, e
tutti gli appartamenti si affacciavano verso l’interno. La luce del sole
difficilmente raggiungeva il cortile, che era il luogo d’incontro per gli
inquilini del palazzo, oltre a contenere i bidoni della spazzatura e i fili per
il bucato sempre ricoperti di biancheria stesa ad asciugare, dato l’altro
numero di famiglie che l’edificio ospitava. […] Ogni volta dovevo farmi strada
in mezzo al bucato e cercare la scala che mi interessava. Tutte le scale erano
esterne, con i gradini di pietra, e portavano a un ballatoio che girava tutto
intorno ai quattro angoli dell’edificio, senza interruzione. Tutti gli
appartamenti si affacciavano su questo ballatoio. Se il cortile era il centro
della vita sociale, i ballatoi erano vie brulicanti di vita e pettegolezzi. I
ballatoi, per le donne delle case popolari, erano l’equivalente delle strade
per gli abitanti delle case a schiera. Si viveva a stretto contatto con i
propri vicini, tanto che doveva essere impossibile nascondere anche il più
piccolo segreto. Il mondo esterno non era un granché interessante per gli
abitanti dell’East End, e così il principale argomento di conversazione erano
gli affari degli altri. E per la maggior parte di loro questo era l’unico
interesse, l’unico divertimento o distrazione. Non c’era da stupirsi, dunque,
che spesso e volentieri scoppiassero risse furiose. […] Trovai l’entrata giusta
e salii per cinque piani fino all’appartamento che cercavo. Tutti gli
appartamenti erano sempre più o meno uguali: due o tre stanze che davano l’una
sull’altra. In un angolo della stanza
principale c’erano un lavandino di pietra, un fornello a gas e una credenza che
costituivano la cucina. Le toilette, quando vennero introdotte, furono
installate in prossimità delle condutture dell’acqua, quindi accanto al
lavandino. L’installazione delle toilette era stato un enorme passo avanti per
il miglioramento dell’igiene pubblica: il cortile rimaneva pulito e non era più
necessario tenere in casa vasi da notte che le donne dovevano svuotare ogni
giorno nei pozzi comuni dabbasso. […] Le case popolari dell’East End di Londra
vennero costruite nel 1850, principalmente per ospitare i lavoratori del porto
e le loro famiglie. A quei tempi, probabilmente, erano considerate un alloggio
più che dignitoso, sufficiente per una famiglia. Rappresentavano di certo un
miglioramento rispetto ai tuguri dai pavimenti di fango che a stento riuscivano
a riparare la famiglia dalle intemperie.”
Infine voglio segnalare che dai
libri di Jennifer Worth è stata tratta una serie tv dalla BBC, è stata
trasmessa anche in Italia col titolo di “L’amore e la vita” - al momento non
sembra disponibile su nessuna piattaforma almeno secondo il sito justwatch. Ho
letto che la serie ha avuto molto successo, io non l’ho mai vista, e voi la
conoscete?
Questo libro è il primo di una
trilogia, inutile dire che voglio recuperare anche gli altri due volumi: Tra le
vie di Londra e Le ultime levatrici dell’East End.
Non posso che consigliare di
leggere questo libro, tiene compagnia, insegna molto e fa conoscere la Londra degli
anni ’50.
Vi incuriosisce? Oppure lo avete
letto? Fatemi sapere