venerdì 19 giugno 2020

Una giornata nell'antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità - Alberto Angela

TITOLO: Una giornata nell'antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità.
AUTORE: Alberto Angela
EDITORE: Mondadori - collana Oscar Absolute
PAGINE: 331
PREZZO: € 14
GENERE: saggio storico, letteratura italiana
LUOGHI VISITATI: Antica Roma nel 115 d.C.

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“Come vivevano gli antichi romani? Cosa accadeva ogni giorno nelle vie di Roma? Tutti noi ci siamo posti almeno una volta simili domande. Ed è proprio tale curiosità ce vi ha spinto ad aprire questo libro […] Ho cercato di scrivere il libro che avrei sempre voluto trovare in libreria per soddisfare la mia curiosità sul mondo dell’antica Roma. Mi auguro di soddisfare anche la vostra”.

Un libro che fornisce un’infarinatura sulla cultura, la storia e soprattutto le abitudini quotidiane dell’Antica Roma, raccontando cosa può vedere uno “spettatore” in una giornata tipo ai tempi dell’imperatore Traiano, precisamente nell’anno 115 d.C.
Racconta curiosità e aneddoti, si scoprono molte cose interessanti e anche dritte utili per fare conversazione nella vita di tutti giorni, ad esempio sapete da dove deriva il famosissimo cornetto rosso porta fortuna? E il monte Testaccio?
La giornata è ricostruita come il racconto in prima persona di una speciale guida, che dall’alba a notte fonda porta il lettore indietro nel tempo descrivendo tutto ciò che si vedrebbe: dal paesaggio alle strade cittadine, dalle case alle infrastrutture agli edifici pubblici; una guida che porta il lettore a spasso attraverso le vie, dentro le case, i negozi e i bar, ai Fori, al Colosseo, alle Terme e ad un banchetto. A grandi linee vengono ricostruite e spiegate le opere architettoniche più celebri come i Fori, il Colosseo e le Terme, ma anche le insulae e le domus (le due tipiche abitazioni romani).
Alla base della ricostruzione c’è un sapiente mix di fantasia con documenti e testimonianze storiche (ad esempio Svetonio, Marziale, Giovenale, Plinio il Vecchio), ritrovamenti archeologici e lapidi. La particolarità è che il lettore può “incontrare” persone realmente esistite anche tra la gente comune così ad esempio incontriamo un’ostetrica e un soldato.
Ci vengono narrate le abitudini, gli usi e costumi quotidiani, ad esempio come e cosa mangiano i romani? Ci sono excursus interessanti sugli schiavi, sul commercio, sull’architettura, sulla sessualità dei romani. È un ottima base di partenza per procedere poi con degli approfondimenti.
Emerge una Roma cosmopolita, multietnica e multireligiosa, superstiziosa, piena di contraddizioni, dove ricchezza e sfarzo si mescolano a povertà e violenza, e proprio la violenza è una parte predominante della vita (un esempio su tutti sono i giochi del Colosseo); per molti aspetti quasi moderna se paragonata alla situazione dei secoli successivi.
La narrazione è accompagnata da stupendi disegni di Luca Tarlazzi e nel libro ci sono anche le ricostruzioni al computer di alcuni particolari a cura di Gaetano Capasso.
La narrazione è ricca di paragoni e similitudini che si rifanno alle varie epoche sia della storia di Roma, ma anche con altre civiltà dell’antichità, sia del Medioevo e fino ai giorni nostri. Lo trovo estremamente godibile, di intrattenimento e di compagnia, un modo intelligente per imparare, per approcciarsi alla Storia.
La scrittura è semplice e rigorosa, ricca di spiegazioni e di paragoni (anche con i giorni nostri e le nostre abitudini), ma anche di dettagli; un saggio assolutamente coinvolgente, con il dono di rendere la quotidianità dei romani alla portata di tutti. Sono una grande fan di Alberto Angela, nel libro ho ritrovato il suo modo di fare divulgazione (lo stesso dei programmi televisivi); non avevo dubbi che mi sarebbe piaciuto e voglio recuperare i suoi altri volumi. 
Super consigliato. Voi avete letto qualche libro scritto da Alberto Angela?

martedì 16 giugno 2020

L'URLO E IL FURORE - WILLIAM FAULKNER

TITOLO: L'urlo e il furore
AUTORE: William Faulkner traduzione di Vincenzo Mantovani
EDITORE: Einaudi
PAGINE: 326
PREZZO: € 13
GENERE: letteratura americana
LUOGHI VISITATI: Stati Uniti - Mississipi contea Yoknapatawpha di anni 20

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recensione di l'urlo e il furore di William Faulkner


Primo approccio ad un autore che è pietra miliare della letteratura statunitense, vincitore del Nobel nel 1949 per “il suo contributo forte e artisticamente unico al romanzo americano contemporaneo”.
Primo approccio non facile. La lettura richiede attenzione e concentrazione – spesso mi sono trovata a dover rileggere alcuni passaggi – e ci sono frasi davvero prive di senso.
Ho iniziato ad apprezzarlo superato le 200 pagine, quando forse finalmente si riesce a mettere assieme alcuni piccoli tasselli del puzzle, e parliamo di un libro che di pagine ne ha 318 (postfazione compresa)!
Le prime duecento pagine sono un’agonia, se da un lato non si capisce nulla, dall’altro ogni minimo dettaglio - che al momento appare insignificante o addirittura un qualcosa di buttato lì e non spiegato, - alla fine acquisisce un significato - e molto raramente spiegato - anche se magari decine e decine di pagine dopo.  Da ciò emerge tutta la bravura di Faulkner la sua scrittura è articolata, criptica e ricercata; ha un modo arzigogolato di narrare la storia. Viene fatto un uso particolare di punteggiatura, parole – adopera parole non comuni, ricercate – e sintassi con frasi lunghissime che si alternano a molteplici frasi brevissime (magari di poche parole), ed è pieno di ripetizioni; a ciò si aggiunge l’uso di nomi di persona simili o uguali per persone diverse, e l’uso di più soprannomi. Il particolare uso della punteggiatura emerge soprattutto nei dialoghi: spesso riportati senza indicazione di chi parla e nemmeno di segni di punteggiatura che ne stabiliscono inizio e fine ma solo come un fiume di parole che si susseguono interrotte solo da io e lui per indicare che parla, quasi fosse un discorso indiretto ma costruito come se fosse diretto.
“Solo a immaginarmi qual boschetto mi sembrava di poter udire sussurri slanci nascosti cogliere il palpito del sangue caldo sotto la sfrenata pelle nuda vedendo contro le palpebre rosse i porci scatenanti che a coppie uniti si gettavano in mare e lui dobbiamo solo tenere gli occhi aperti per vedere compiersi il male e per un po’ mica per sempre e per un uomo di coraggio non c’è nemmeno bisogno di aspettare tanto e lui tu lo chiami coraggio? e io sissignore tu no? e lui ogni uomo è arbitro delle proprie virtù il fatto che tu lo creda o non lo creda un atto di coraggio è più importante dell’atto in sé più importante di ogni atto altrimenti non saresti in buona fede e io tu non credi che io parli sul serio e lui io ti credo troppo serio per darmi qualche motivo di allarme altrimenti non ti saresti sentito costretto a ricorrere all’espediente di raccontarmi. […] e lui tu non sopporti il pensiero che un giorno non farà più male questo ti piace ecco il punto si direbbe che tu la veda solo come una di quelle esperienze che per così dire t’imbiancano i capelli nello spazio di una notte senza affatto mutare il tuo aspetto non lo farai in queste condizioni sarà un gioco d’azzardo e lo strano è che l’uomo il quale è concepito per caso e ogni respiro del quale è un altro tiro di dadi già truccati per imbrogliarlo si rifiuta di affrontare quell’ultima forza che sa in anticipo di dover sicuramente affrontare senza ricorrere a espedienti che vanno dalla violenza a ridicoli sofismi che non ingannerebbero un bambino finché un giorno disgustatissimo rischia tutto su una mano di carte al buio nessun uomo fa mai una cosa simile al primo impulso della disperazione o del rimorso o del dolore lo fa solo quando si è reso conto che anche la disperazione o il rimorso o il dolore non ha molta importanza per il tenebroso giocatore di dadi e io passeggero?”
Ci sono passaggi molto belli, profondi che dispensano una filosofia di vita, un particolare modo di vedere e interpretare la vita. È una scrittura che definirei sperimentale.
“Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo e non sprecare tutto il tuo fiato nel tentativo di vincerlo. Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L’uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un’illusione dei filosofi e degli stolti. […] Chiedersi senza tregua qual è la posizione di due lancette meccaniche su un quadrante arbitrario, diceva il babbo, è un segno che il cervello continua a funzionare.”

È un romanzo costruito per racconti: quattro racconti con quattro punti di vista diversi e un protagonista/voce narrante diverso. Ciascun racconto narra una particolare giornata che dà il titolo al capitolo. Attraverso il romanzo si narrano le vicende di una decadente famiglia del sud degli Stati Uniti – la famiglia Compson – rimasta legata a valori ed idee superate e anacronistiche, ormai in decadenza nonostante vanti illustri antenati.
C’è un crescendo continuo nel romanzo, a mano a mano che si procede emergono anche le personalità dei vari personaggi. La famiglia Compson è composta dal signor Jason Compson (marito e padre), dalla signorina Caroline (moglie e madre), dai loro figli Beniamin detto Benji, Quentin, Jason, Candace detta Caddy, a loro si aggiunge la servitù di colore: la coppia Dilsey (che si occupa della casa) e Roskus, i loro figli (Versh, T.P. e Frony) e il nipote Luster.  
Nel primo capitolo protagonista e voce narrante è Benji, un ragazzo con seri problemi di ritardo mentale, Faulkner ha dato voce a una persona con problemi mentali e ha reso su carta una possibile istantanea della confusione, fragilità e particolarità della sua psiche, è un bambino di pochi anni nel corpo di un uomo e senza consapevolezza di quello che è. Rimane praticamente affidato alla servitù di colore, in particolare è Luster ad occuparsene maggiormente; la madre lo ritiene un castigo di Dio e tra i fratelli è particolarmente legato a  Caddy.
Nel secondo capitolo le vicende sono quelle di Quentin il figlio maschio mandato a studiare ad Harvard, viene raccontata proprio una giornata ad Harvard che si mischia con strane avventure e ricordi del passato uniti all’ossessione per la sorella Caddy e il tormento interiore di questo personaggio.
Il terzo capitolo ha come protagonista Jason ed emerge tutto il suo carattere, il suo rancore, il suo essere dispotico, misogino, cinico e falso; è anche il capitolo in cui si inizia a tirare le file della narrazione e il lettore finalmente inizia a capire e collegare tasselli.
Infine il quarto capitolo ha un narratore esterno e onnisciente (particolarità che lo differenzia molto dagli altri, è il mio capitolo preferito) il punto focale è la servitù di colore e in particolare la domestica Dilsey e suo nipote Luster che è colui che si occupa di accudire Benji.
Il romanzo si chiude con una postfazione dell’autore in cui narra brevemente le vicende della famiglia Compson.
Come dicevo non è una lettura facile, sono stata tentata di abbandonare il libro penso sia stato il libro verso cui ho nutrito più avversione, però è anche tra quelli che alla fine mi hanno dato grandi soddisfazioni; in questo caso la mia regola aurea di leggere/finire i libri che inizio mi ha davvero ripagato.
Ho letto questo libro per la tappa del mese di giugno di #scrittoinamerica che prevede un tema difficile: la Grande Depressione dopo la crisi del ‘29. Tra i libri suggeriti ho scelto questo per due motivi, il primo è che era il libro per che mi è stato più semplice recuperare, il secondo è che volevo approcciarmi a Faulkner da tempo e non avendo mai letto nulla di suo ho colto l’occasione al volo. Purtroppo è fuori tema, nel senso che non tratta la crisi del ‘29 è stato pubblicato nel 29 ma è ambientato prima.
Ho letto che il monologo di Benji (che rappresenta il primo capitolo di questo romanzo) è forse lo scritto più incomprensibile di Faulkner e che lui stesso non capiva il significato di alcune sue frasi. Bell’inizio!
Non so dire se sia l’opera migliore per approcciarsi a Faulkner (probabilmente no) però sono un libro e un autore che mi sento di consigliare, proprio le difficoltà di lettura sono gli aspetti che a fine romanzo mi hanno fatto apprezzare la scrittura di questo autore, in fondo, come mi ripetevo quando in preda alla disperazione (perché non capivo assolutamente nulla) volevo abbandonare il libro, se ha vinto il Nobel un motivo ci sarà.
Voi avete mai letto Faulkner? Aspetto vostri suggerimenti.

giovedì 11 giugno 2020

CHIAMATE LA LEVATRICE - JENNIFER WORTH

TITOLO: Chiamate la levatrice
AUTORE: Jennifer Worth traduzione di Carla De Caro
EDITORE: Sellerio
PAGINE: 493
PREZZO: 15,00 €
GENERE: memoir, letteratura inglese
LUOGHI VISITATI: Londra anni '50
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recensione di chiamate la levatrice di jennifer worth edito sellerio editore
 
“Perché le levatrici non sono considerate al pari di eroine, come sarebbe giusto? Perché continuano a essere figure marginali? Dovrebbero essere lodate a gran voce da tutti. Ma non è così. La responsabilità che decidono di assumersi è incommensurabile. Le loro abilità e il loro sapere sono senza eguali eppure tali virtù vengono date per scontate e spesso trascurate. Negli anni Cinquanta tutti gli studenti di medicina facevano pratica con le levatrici. Certo, le lezioni in aula erano tenute da un ostetrico, ma senza la pratica clinica non avrebbero avuto senso. Così, in tutti gli ospedali universitari, gli studenti venivano affidati a una levatrice, che poi accompagnavano nelle sue visite per acquisire le nozioni pratiche dell’ostetricia. Tutti i medici condotti sono stati formati da una levatrice. Ma queste verità rimangono sconosciute ai più.”
Un libro meraviglioso, coinvolgente. Ti trasporta in un'altra epoca dove le donne partorivano in casa e ad assisterle c’erano delle levatrici professioniste, ed è una di questi angeli a narrare le vicende, tracciando un quadro della Londra degli anni ’50 con particolare riferimento ai quartieri più poveri dell’East End londinese i Docklands, i quartieri del porto fatti di case popolari.
La Worth narra la sua esperienza come levatrice al servizio della Nonnatus House: il convento St. Raymond Nonnatus un ordine religioso che operava nell’East End a favore delle classi più povere e bisognose della popolazione, si occupava delle nascite ma anche di medicina generale in supporto ai medici di base. Le suore del Nonnatus sono tra quelle donne che si sono battute affinché fosse emanata una legge che disciplinasse l’assistenza alle nascite, legge che arriva solo nel 1902, prima ad assistere le partorienti erano donne qualsiasi e potevi essere fortunata ma allo stesso modo potevi non esserlo ed essere assistita da una persona incompetente che poteva anche abbandonare (a morte certa) madre e bambino se le cose si mettevano male:
“È difficile immaginare come fino al secolo scorso, le donne in gravidanza non avessero alcuna assistenza ostetrica specializzata. La prima volta che una donna vedeva un dottore o una levatrice era al momento del travaglio. Per questo morti ed eventi infausti, sia per il bambino che per la madre, erano piuttosto comuni. Tali tragedie venivano interpretate come la volontà di Dio quando, in realtà, erano soltanto l’inevitabile risultato di negligenza e ignoranza. Le signore dell’altra società erano seguite da un dottore durante la gravidanza, ma le sue visite non si potevano certo annoverare tra i trattamenti prenatali: erano piuttosto semplici visite di cortesia, poiché nessun medico, a quel tempo, aveva le competenze necessarie in fatto di assistenza prenatale. […] L’opposizione della medicina sembra aver avuto origine principalmente nella convinzione che ‘le donne cercano di intromettersi troppo in ogni settore della vita’ [opposizione alle levatrici formate e relativo movimento]. Anche gli ostetrici nutrivano forti dubbi che le capacità intellettive delle donne fossero tali da comprendere l’anatomia e la fisiologia del parto, opponendosi quindi alla loro formazione. Ma alla base di tutte queste paure c’era una sola vera ragione: indovinate quale? Bravissimi, ma nonostante la rapidità non avete vinto nulla: i soldi. La maggior parte dei medici, di norma, si faceva pagare una ghinea per parto. Si andava spargendo la voce che le levatrici professioniste si facessero pagare solo mezza ghinea, battendoli sul prezzo! Si era ormai ai ferri corti.”
Ovviamente quando Jennifer Worth arriva al Nonnatus House e inizia la sua pratica di levatrice le cose sono già migliorate, siamo negli anni ’50 e appunto Jennifer, che è già infermiera professionista e ha lavorato in diversi ospedali, va a lavorare al Nonnatus proprio per imparare, fare pratica e quindi poter essere una levatrice professionista.
Scritto in prima persona racconta le esperienze della Worth come levatrice, riflette molto anche chiedendosi perché abbia scelto questo lavoro e perché le piaccia.
“Sembra stanca, penso, ma non mostra segni di stress o di sforzo. È sempre così! È come se una donna fosse dotata di un sistema che le permette di dimenticare tutto; una sostanza chimica o un ormone che agisce nella parte del cervello deputata alla memoria subito dopo il parto cancellando ogni ricordo della precedente agonia. Se non fosse così, nessuna donna farebbe un secondo figlio. […] Io gli rispondo «Buona giornata» e pedalo via allegramente, felice per la mia gioventù, per l’aria del mattino, per l’esaltante trambusto del porto, ma soprattutto per la sensazione impareggiabile di aver reso felice una madre aiutandola a far nascere il suo bellissimo bambino. Perché ho cominciato? Lo rimpiango? Mai e poi mai. Non cambierei il mio lavoro con nessun altro al mondo.”
Perché raccontare attraverso dei libri la propria esperienza di levatrice dopo tanti anni? La risposta la fornisce nell’introduzione la stessa Worth: legge un articolo in cui si analizza la figura della levatrice in letteratura ed esce che questa figura è praticamente assente e la giornalista sfida una levatrice a farsi avanti e scrivere. Ecco. 

La narrazione è ricca e dettagliata, anche di aspetti e dettagli medico scientifici relativi al parto, alle sue fasi e ad altre particolari patologie con cui viene in contatto nella sua attività, numerosi e interessanti i paragoni con le tecniche moderne e come si sia evoluta l’ostetricia dagli anni ‘50 ad oggi.
Quasi 500 pagine che volano, scorrono veloci tra i ricordi di Jennifer e la sua esperienza al Nonnatus House come levatrice e come infermiera, la vita nell’East End di Londra ai Docks con tante storie di vita, più belle e più brutte (povertà, degrado, violenza, resilienza) ma anche di vita generale di persone che ha incontrato e aiutato come Mary e la sig. Jenkis. Non manca di raccontare parte della sua storia personale e piano piano emergono anche le storie delle altre ragazze che prestano servizio lì, delle suore e del personale laico del convento come la cuoca Mrs. B. e il simpaticissimo tuttofare Fred; il Nonnatus House è un posto dove l’accoglienza e la gentilezza sono al primo posto. Dipingere la società inglese negli anni 50 e anche prima facendo raffronti e paragoni con i giorni nostri.
Il tema principale è quello delle nascite, del suo lavoro di levatrice e racconta tante storie diverse, di parti e di visite prenatali, raccontando in parte la vita di queste donne, storie che sono in qualche modo il pretesto anche per raccontare qualcosa della società inglese ma anche in generale della condizione di donna, della gravidanza e di particolari patologie, e infine ci sono capitoli che si occupano della “discendenza mista”.
Sempre narrando della propria esperienza vengono portate all’attenzione del lettore anche altre tematiche: prostituzione e ospizi per i poveri; il libro in questo senso svolge anche la funzione di informare, non si può dire denunciare perché parla di situazioni verificatasi molto tempo prima, alcune erano già finite nel momento in cui la Worth ne viene a conoscenza – figuriamoci quando ne scrive. 
La cosa che più mi ha colpito sono stati gli ospizi per i poveri, strutture nate da un’idea caritatevole ma trasformati in un abominio:
“Chiesi ragguagli a Sorella Evangelina su questa segregazione, che sembrava una pratica talmente disumana da non poterci credere. Eppure era tutto vero. La segregazione era la prima regola di tutti gli ospizi del paese e quella che veniva applicata con maggior rigore. I mariti separati dalle mogli, i genitori dai figli, i fratelli dalle sorelle. Di solito non si rivedevano mai più. […] La vita in ospizio era terribile. Tutti gli ospiti erano rinchiusi nei loro reparti che consistevano in una sala ricreazione, un dormitorio e un cortile all’aperto. Erano confinati nel dormitorio dalle otto di sera fino alle sei di mattina. Al centro della sala c’era un canale di scolo o una fogna dove potevano fare i loro bisogni durante la notte. La sala ricreazione era la sala da pranzo, dove sedevano su lunghe panche per consumare i pasti. Tutte le finestre erano poste al di sopra del livello degli occhi, cosicché nessuno poteva guardare fuori e i davanzali erano inclinati verso il basso, in modo che nessuno potesse arrampicarsi e sedersi lassù. Il cortile era un quadrato di ghiaia recintato, senza porte o cancelli. Era un prigione a tutti gli effetti. I giorni si trasformavano in settimane, le settimane in mesi, mentre la vita scorreva nella monotonia e nella miseria più assolute. Le donne lavoravano tutto il giorno, di solito impiegate in mansioni pesanti: fare il bucato per tutto l’ospizio; lavare i pavimenti (il direttore aveva una vera fissazione); cucinare pasti di infima qualità per tutti gli ospiti; cucire tessuti pesanti come sacchi, vele, stuoie; e la cosa più strana di tutte, fare la stoppa. Si trattava di prendere una vecchia corda, di solito incatramata, disfarla e ridurla in stringhe che venivano poi usate per calafatare le giunzioni delle navi di legno. A dirla così sembra facile; ma non lo era. La corda, soprattutto se incrostata di olio, catrame o sale, poteva essere dura come l’acciaio e disfarla a mani nude era un lavoro doloroso che lasciava le dita dolenti e sanguinanti”.
Non mancano le descrizioni esaurienti e dettagliate dei quartieri popolari, dei suoi abitanti e delle sue dinamiche, che sono i luoghi dove si concentra l’attività del Nonnatus House e quindi di Jennifer Worth:
“Che ci fosse il sole o la pioggia, le case popolari conservavano il loro aspetto tetro. Erano edifici di forma rettangolare, alti circa sei piani, con un’apertura su di un lato, e tutti gli appartamenti si affacciavano verso l’interno. La luce del sole difficilmente raggiungeva il cortile, che era il luogo d’incontro per gli inquilini del palazzo, oltre a contenere i bidoni della spazzatura e i fili per il bucato sempre ricoperti di biancheria stesa ad asciugare, dato l’altro numero di famiglie che l’edificio ospitava. […] Ogni volta dovevo farmi strada in mezzo al bucato e cercare la scala che mi interessava. Tutte le scale erano esterne, con i gradini di pietra, e portavano a un ballatoio che girava tutto intorno ai quattro angoli dell’edificio, senza interruzione. Tutti gli appartamenti si affacciavano su questo ballatoio. Se il cortile era il centro della vita sociale, i ballatoi erano vie brulicanti di vita e pettegolezzi. I ballatoi, per le donne delle case popolari, erano l’equivalente delle strade per gli abitanti delle case a schiera. Si viveva a stretto contatto con i propri vicini, tanto che doveva essere impossibile nascondere anche il più piccolo segreto. Il mondo esterno non era un granché interessante per gli abitanti dell’East End, e così il principale argomento di conversazione erano gli affari degli altri. E per la maggior parte di loro questo era l’unico interesse, l’unico divertimento o distrazione. Non c’era da stupirsi, dunque, che spesso e volentieri scoppiassero risse furiose. […] Trovai l’entrata giusta e salii per cinque piani fino all’appartamento che cercavo. Tutti gli appartamenti erano sempre più o meno uguali: due o tre stanze che davano l’una sull’altra.  In un angolo della stanza principale c’erano un lavandino di pietra, un fornello a gas e una credenza che costituivano la cucina. Le toilette, quando vennero introdotte, furono installate in prossimità delle condutture dell’acqua, quindi accanto al lavandino. L’installazione delle toilette era stato un enorme passo avanti per il miglioramento dell’igiene pubblica: il cortile rimaneva pulito e non era più necessario tenere in casa vasi da notte che le donne dovevano svuotare ogni giorno nei pozzi comuni dabbasso. […] Le case popolari dell’East End di Londra vennero costruite nel 1850, principalmente per ospitare i lavoratori del porto e le loro famiglie. A quei tempi, probabilmente, erano considerate un alloggio più che dignitoso, sufficiente per una famiglia. Rappresentavano di certo un miglioramento rispetto ai tuguri dai pavimenti di fango che a stento riuscivano a riparare la famiglia dalle intemperie.”
Infine voglio segnalare che dai libri di Jennifer Worth è stata tratta una serie tv dalla BBC, è stata trasmessa anche in Italia col titolo di “L’amore e la vita” - al momento non sembra disponibile su nessuna piattaforma almeno secondo il sito justwatch. Ho letto che la serie ha avuto molto successo, io non l’ho mai vista, e voi la conoscete?
Questo libro è il primo di una trilogia, inutile dire che voglio recuperare anche gli altri due volumi: Tra le vie di Londra e Le ultime levatrici dell’East End.
Non posso che consigliare di leggere questo libro, tiene compagnia, insegna molto e fa conoscere la Londra degli anni ’50.
Vi incuriosisce? Oppure lo avete letto? Fatemi sapere