TITOLO: Io non mi chiamo Miriam
AUTORE: Majgull Axelsson traduzione di: Laura Cangemi
EDITORE: Iperborea
PAGINE: 562
PREZZO: € 19,50
GENERE: letteratura svedese
LUOGHI VISITATI: Nässjö - Svezia anni '50 e Germania anni '40
“Lanciò un’occhiata alla propria immagine riflessa sulla
finestra buia. Aveva esattamente l’aspetto che voleva avere: come in
un’inserzione pubblicitaria Vecko-Journalen. Capelli ben pettinati. Vestito
impeccabile con la vita sottile e la gonna ampia. Un grembiulino ricamato utile
più come decorazione che per proteggere. E poi la collana di perle, il regalo
più bello dell’ultimo Natale, quel gioiello che la intimoriva ancora ogni volta
che se lo metteva. Come aveva fatto proprio lei, Miriam o Malika, la zingara,
la prigioniera di due campi di concentramento, la bugiarda, a diventare una
signora sorridente con tanto di collana di perle? Com’era successo?”
Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson è un libro estremamente
doloroso e interessante sotto molti punti di vista. Protagonista e voce
narrante è Miriam una vecchietta che vive in Svezia e che il giorno del suo
85°compleanno, per ragioni a lei inspiegabili, l’io, la coscienza le riportano
alla mente il suo triste passato. Tutti conoscono il suo passato, Miriam è una
sopravvissuta all’olocausto, è uscita viva da ben due campi di concentramento
nazisti, quello che praticamente nessuno sa però è che lei non è ebrea come
tutti credono ma una rom e per una serie di ragioni fortuite e casuali si
ritrova ebrea (!!! Possibile spoiler!!!! Durante un trasferimento cambia la sua
divisa e alcune altre prigioniere la chiamano Miriam -il nome della ragazza
ebrea a cui quella divisa apparteneva prima – il numero di matricola è
praticamente identico e così dal caso nascono una serie di altre coincidenze e
lei diventa Miriam per tutti). Così anche dopo la liberazione continuerà a
fingersi ebrea come tutti la credono, del resto finita la seconda guerra
mondiale nessuno vuol parlare di Olocausto e i pochissimi sopravvissuti certo
non si mettono ad indagare sugli altri.
La narrazione è in prima persona e alterna vari momenti: la
vita di oggi e i ricordi del passato, quindi la gioventù in famiglia, la
deportazione e le tantissime esperienze nei campi di concentramento, i primi
tempi a Jomjpuko e la vita che riprende la normalità. Il passato è in parte
raccontato alla nipote Camilla mentre fanno una lunga passeggiata in torno al
lago e in parte è rivissuto nel senso che sono narrati direttamente, in presa
diretta.
Il libro mostra una dicotomia rom/ebreo, perché se è vero
che gli ebrei erano odiati dai nazisti, i rom erano e sono odiati da tutti
anche dopo la seconda guerra mondiale, la stessa Miriam una volta salva in
Svezia assisterà a ben due esperienze di odio verso i rom. Ma anche nel campo
di concentramento, lei è considerata un’ebrea e sente gli altri parlar male dei
rom.
“Else era la persona migliore di tutta Ravensbrück.
La più buona. La più saggia. La più forte. Ma l’aveva detto. Con un’alzata di
spalle. «Zingari. Si sa come sono fatti, quelli…» Else l’aveva salvata. Le
aveva dato da mangiare. Le aveva procurato un buon lavoro. L’aveva fatta
parlare. Inoltre aveva usato quella parola che Miriam non aveva mai osato
pronunciare ma che si teneva dentro, in silenzio. Libertà. Libertà. Però Else
era anche quella che aveva detto quella frase sugli zingari. E le aveva fatto
paura. Molta più paura del solito. Sentiva che la terra le si poteva spalancare
sotto i piedi da un momento all’altro, che rischiava di inciampare e cadere o
essere ingoiata da un buco nero e muto. Che nessuno, non un solo essere umano
al mondo, avrebbe voluto aiutarla, salvarla, darle il minimo soccorso. E perché
questo era quello che era: una rom. Una zingara.
[…] Si vergognava? Era per questo che se ne stava rannicchiata in fondo alla
parete di assi, era per questo che voleva mantenere almeno mezzo centimetro di
distanza da Else? Sì, forse era così, anche se non sapeva perché. Forse perché
aveva mentito? Perché girava per il campo con una cicatrice sul braccio, un
triangolo giallo e un numero falso sulla fascia? Ma c’era una vera ragione per
vergognarsene? In fondo si trattava di qualcosa che era successo senza alcuna
colpa da parte sua, una coincidenza sommatasi a un’altra coincidenza, niente di
calcolato e pianificato. Oltretutto non le dava neanche un vantaggio in
rapporto alle SS e alle Aufseherinnen, anzi. La ragazza smunta che aveva
conosciuto all’arrivo aveva ragioni: i nazisti odiano gli ebrei più di quanto
odiassero gli zingari. E però gli altri prigionieri disprezzavano gli zingari
più degli ebrei. Il fatto era che nessuno, a parte le puttane e i ladri,
sembrava disprezzare gli ebrei, mentre tutti si permettevano di disprezzare gli
zingari.”
Questo libro non è testimonianza diretta (come la maggior
parte dei libri sull’Olocausto) ma è un ricostruzione inventata e apre uno
squarcio su un aspetto dei campi di concentramento di cui si parla poco: ad
essere deportati e sterminati non sono stati solo gli ebrei (senza naturalmente
nulla togliere alla gravità del fatto) ma anche altre “categorie” tra cui
parlando di etnie i rom, per i quali c’era una specifica sezione nel campo di
Auschwitz-Birkenau e sono stati utilizzati per esperimenti scientifici (sorte
toccata al fratellino di Miriam). Alla fine del libro ci sono le note
dell’autrice dove racconta la presenza di alcuni personaggi realmente esistiti
e la cosiddetta “rivolta degli zingari” e un dettagliato corredo bibliografico.
“… dopo qualche settimana ad Auschwitz, si era resa conto
che i rom erano gli unici a essere stati assegnati a un settore organizzato per
famiglie. Tutti gli altri prigionieri scelti per ammazzarsi di lavoro al
servizio del Reich erano stati messi in settori maschili e femminili separati.
I rom no. Nel loro campo gli uomini si mescolavano alle donne e ai bambini.
All’inizio Malika non capiva perché, ma poi ci era arrivata. Paura. Gli uomini
delle SS, quei signori incredibilmente forti, eleganti e impettiti, erano in
realtà intimoriti dagli zingari e dalla loro presunta ferocia. Avevano capito
che, se si fossero separati i mariti dalle mogli e i genitori dai figli,
avrebbero opposto resistenza e non volevano che succedesse. Di conseguenza
avevano stipato nel settore degli zingari intere famiglie lasciando che fossero
gli adulti a decidere dove dormire. Non che fosse servito a molto. La
resistenza avevano dovuto affrontarla lo stesso. […] Sì, era successo. I rom
avevano opposto resistenza. E avevano trionfato sulle SS. I rom erano gli unici
ad aver mai sconfitto le SS ad Auschwitz. Quel ricordo la indusse a
rannicchiarsi il più possibile. Se avesse continuato a chiamarsi Miriam non
avrebbe mai potuto raccontare di quella sera. D’altra parte, nessuno avrebbe mai
dato ascolto a una Malika eventualmente resuscitata. La gente avrebbe creduto
che fosse tutta una menzogna e un’invenzione, stupide fantasie da zingari.
Invece non era così. Era vero. Più vero che mai. I rom avevano opposto
resistenza. E avevano sconfitto le SS.”
È sicuramente una storia malinconica, triste e dolorosa ma
come dico sempre parlando di libri che trattano dell’Olocausto, necessaria.
Serve a ricordare e a spronarci a non dimenticare per non ripetere gli stessi
errori. E serve anche a insegnarci ad apprezzare quello che abbiamo.
Ho trovato estremamente interessante il punto di vista
dell’autrice Majgull Axelsson e voglio approfondire la conoscenza.
Fatemi sapere nei commenti se avete letto questo o altri
libri di Majgull Axelsson.