giovedì 23 luglio 2020

LA CANZONE DI ACHILLE - MADELINE MILLER

TITOLO: La canzone di Achille
AUTORE: Madeline Miller - traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini
EDITORE: Feltrinelli - Marsilio
PAGINE: 382
PREZZO: € 11,00
GENERE: romanzo storico/mitologico
LUOGHI VISITATI: Grecia antica - Mitologia Greca

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“Aveva davvero pensato che non lo avrei riconosciuto? Lo riconoscerei anche solo dal tocco, dal profumo; lo riconoscerei anche se fossi cieco, dal modo in cui respira, da come i suoi piedi sferzano la terra. Lo riconoscerei anche nella morte, anche alla fine del mondo.”

Questo libro non è la storia di Achille, non è la storia di un eroe e nemmeno della Guerra di Troia (di cui Achille è forse il protagonista più conosciuto). È la storia di un legame, forte, indistruttibile tra due persone Patroclo e Achille, un legame di amicizia, rispetto, devozione e profondo amore.

La voce narrante è quella di Patroclo, un ragazzino esule che viene accolto allo corte di re Peleo, qui incontra Achille e ne diventerà il compagno

“Therapon fu il termine che usò. Un compagno d’armi legato a un principe da un giuramento di sangue e amore. In guerra, questi uomini erano le guardie d’onore; in pace, i consiglieri più vicini. Era una figura tenuta in altissima considerazione, un altro dei motivi per cui i ragazzi cercavano sempre di mettersi in mostra davanti al figlio di Peleo: speravano di essere scelti.”

Assieme ricevono l’istruzione del centauro Chirone sul monte Pelio, in particolare Patroclo si appassiona alla medicina. Ma sono richiamati a Ftia, il regno di Peleo e Achille, quando iniziano i preparativi per muovere guerra contro Troia. Entrambi sono costretti ad andarci ma per ragioni diverse: Achille perché è il più grande guerriero della sua generazione, è l’aristos achaion e non può non partecipare; Patroclo in virtù di un giuramento fatto a soli nove anni, quando suo padre lo aveva portato a presentarsi come pretendente della mano di Elena e in quell’occasione tutti i pretendenti avevano giurato che avrebbero difeso il prescelto e il matrimonio.

“«Ci saranno altre guerre.»

«Non come questa» disse Diomede. «Questa sarà la più grande combattuta dal nostro popolo, che verrà ricordata nei canti e nei poemi per generazioni. Sei uno sciocco se non te ne rendi conto.»

«Mi rendo conto che si tratta delle corna di un marito e dell’avidità di Agamennone.»

«Allora sei cieco. Cosa c’è di più eroico del combattere per l’onore della donna più bella del mondo, contro la più potente città d’Oriente? Nemmeno Perseo potrebbe dire di aver fatto altrettanto; nemmeno Giasone. Eracle, sarebbe disposto a uccidere di nuovo sua moglie per un’opportunità come questa. Governeremo l’Anatolia, fino all’Arabia. I nostri nomi saranno scolpiti nelle leggende per i secoli a venire.»”

La guerra sarà molto lunga e Patroclo ci racconta la vita al campo, la guerra ma soprattutto il timore, l’angoscia crescente per l’avvicinarsi della morte di Achille, perché è “scritto” che morirà e ciò accadrà dopo aver ucciso il principe Ettore, il più valoroso dei troiani. Ma per ben dieci lunghi anni questo scontro fondamentale non avrà luogo, e non è chiaro se ne è mancata l’occasione oppure sia stata deliberatamente evitata…

Non voglio aggiungere altro sulla guerra di Troia perché chi ha una solida formazione classica o comunque conosce approfonditamente l’argomento sa già cosa aspettarsi, ma chi come me invece è digiuno della materia - (la mia formazione in epica e letteratura classica è stata superficiale e in prima superiore in un istituto commerciale) certo avevo idea di cosa fosse la guerra di Troia, del motivo scatenante, dell’epicità dello scontro tra Achille ed Ettore, della vittoria dei greci grazie alla furbizia di Odisseo (cioè Ulisse) ma davvero poco altro – incontrerà delle sorprese davvero interessanti nonostante si sappia fin dall’inizio che Achille muore, perché questo lo sappiamo tutti.

Seppur in secondo piano emergono alcuni aspetti della vita nella Grecia antica, il narratore da spesso conto delle tradizioni in uso e della situazione geopolitica, anche se si tratta di una ricostruzione legata alla mitologia penso possano comunque considerarsi plausibili anche perché non contraddette dalla realtà storica ricostruita (così ad esempio la presenza di una pluralità di regni, spesso in lotta tra loro); la stessa mitologia altro non è che l’insieme delle credenze religiose dell’antica Grecia ed è utilizzata o meglio studiata dagli storici anche per ricostruirne la vita, la cultura e le tradizioni. Un aspetto particolare e importante è il ruolo fondamentale giocato nella vita dei greci dagli dei e dalle profezie, con gli Dei si immischiano continuamente con la vita dei mortali, spesso e volentieri anche concependo figli assieme, di cui Achille è un esempio.

Questo romanzo è una commistione tra mitologia e storia e fantasia.

La principale fonte è l’Iliade di Omero (come detto alla fine del romanzo), dove però si conosce il fortissimo legame tra Achille e Patroclo ma non viene specificato, definito. L’opera della Miller è un’interpretazione possibile del loro legame, a dire il vero nemmeno nuova od originale (nel senso che già in antichità questo rapporto è stato definito in termini amorosi) ma estremamente apprezzabile e godibile per il lettore. Inoltre è un’interpretazione corretta, plausibile dal punto di vista mitologico perché in linea con quanto narrato dalla mitologia greca.

Da un punto di vista storico oggi si ritiene accertata una guerra tra greci e troiani con la sconfitta dei troiani e la conseguente distruzione della loro città intorno al 1200 a.C., però questa guerra fu combattuta per ragioni politiche ed economico-commerciali e non perché i troiani avevano rapito la donna più bella del mondo.

Come dicevo a parlare è Patroclo, è lui a raccontare la sua vita al fianco di Achille e a raccontare com’era questo semidio. L’Achille uomo è un ragazzo dolce, sensibile, gentile, modesto, inconsapevole della sua bellezza e della sua potenza nonché del suo potere, appassionato di musica e canto, in una parola lo definirei quasi ingenuo, in senso positivo; ciò non toglie abilissimo nel combattimento.

“Erano le uniche occasioni in cui vedevo Achille. Viveva le sue giornate lontano da noi, da vero principe, impegnato in attività che non ci riguardavano in alcun modo. Tuttavia mangiava sempre con noi e si spostava tra i vari tavoli. Nella grande sala, la sua bellezza splendeva come una fiamma, vitale e luminosa e attraeva il mio sguardo anche contro la mio volontà. La sua bocca era un arco carnoso, il suo naso una freccia aristocratica. Quando si sedeva, le sue membra non sembravano scomposte come le mie ma trovavano sempre una perfetta grazia, come se fossero opera di uno scultore. Forse la sua caratteristica più straordinaria era la sua inconsapevolezza. Non si pavoneggiava e non si metteva in mostra come facevano di solito i ragazzi belli. Anzi, sembrava del tutto ignaro dell’effetto che aveva sugli altri. Come fosse possibile non riuscivo neanche a immaginarlo: i ragazzi gli stavano addosso come cani bramosi con la lingua che penzola fuori dalle fauci.”

 

“Chiunque altro avrebbe capito che Teti agiva soltanto per i suoi scopi. Come aveva potuto essere così sciocco? Quelle parole rabbiose mi pungevano la bocca. Ma quando cercai di pronunciarle, mi accorsi che non potevo. Le guance di Achille erano arrossate dalla vergogna e la pelle sotto i suoi occhi era segnata. L’essere fiducioso faceva parte di lui, come le sue mani o i suoi piedi prodigiosi. E anche se ero ferito, non volevo che perdesse la fiducia, non volevo vederlo diventare inquieto e pieno di paure come tutti noi, non lo avrei mai voluto nemmeno per tutto l’oro del mondo.”

Ovviamente il personaggio di Achille matura, anche molto, soprattutto dopo la partenza della guerra di Troia è chiamato ad andare in guerra, ad uccidere e a rendere onore al suo nome, a crearsi, a forgiare quella gloria per cui è nato e per cui deve morire:

“Achille prosperava. Andava in battaglia in preda a una vertiginosa euforia, le labbra stirate in un sogghigno mentre combatteva. Non era l’atto di uccidere che lo appagava – aveva imparato in fretta che non c’era uomo capace di tenergli testa. E nemmeno due, e nemmeno tre. Non traeva gioia da una così facile macelleria, e per mano sua morirono meno della metà degli uomini che avrebbe potuto uccidere. La cosa per cui viveva erano le cariche, la schiera di uomini che si lanciava verso i lui come una tempesta. Lì, in mezzo a venti spade che tentavano di trapassarlo, poteva finalmente, veramente combattere. Si inebriava della sua stessa forza, era come un cavallo da corsa costretto nella stalla troppo a lungo e ora libero di correre. Con febbrile e impossibile grazia, ricacciava indietro dieci, quindici, venticinque uomini. Questo è ciò che so davvero fare.

Con il passare del tempo aumenta la tensione emotiva, aumenta la paura per la morte di Achille, per la sorte che toccherà a Patroclo. Il finale è doloroso ma anche dolcissimo e pieno di speranza.


La scrittura è scorrevole ed evocativa, si respira aria di mitologia fin dalla prima pagina. Del resto Madeline Miller ha studiato lettere classiche e ha insegnato nei licei ed ha riversato nel romanzo la sua conoscenza e la sua passione. Questo è stato il suo libro d’esordio pubblicato nel 2011, l’anno seguente vince l’Orange Prize for Fiction (oggi chiamato Women’s Prize for Fiction, premio letterario britannico che si propone di premiare la scrittura femminile, possono essere premiate solo scrittici); nel 2018 è uscito il suo secondo romanzo intitolato “Circe” che ho già messo in wish list e non vedo l’ora di leggere.

Quella della cultura greca è un mondo che mi affascina molto con questa commistione di storia e mitologia, con questa lettura partecipo al progetto #iltesorogreco. Questo romanzo mi ha ricordato un altro libro che ho letto e apprezzato molto sempre ambientato nell’antica Grecia “L’assassinio di Socrate” di Marcos Chicot, non so perché (probabilmente è solo l’ambientazione) ma fin dall’inizio della lettura qualcosa mi ha fatto accostare i due libri e i due autori.

 

Avete letto questo libro?

venerdì 17 luglio 2020

LE MIE FIABE AFRICANE - NELSON MANDELA

TITOLO: Le mie fiabe africane
AUTORE: Nelson Mandela - traduzione di Bianca Lazzaro
EDITORE: Feltrinelli - collana Universale Economica Feltrinelli
PAGINE: 170
PREZZO: € 8,50
GENERE: antologia, raccolta di racconti (fiabe)
LUOGHI VISITATI: continente africano
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le mie fiabe africane di nelson mandela recensione

Una lettura interessante che è un ottimo modo per entrare nel folclore, nella tradizione orale e di storie di un continente tanto grande e variegato come l’Africa; e nonostante ciò è possibile individuare alcune costanti così il ruolo assegnato ad un animale tende ad essere uguale in tutte le fiabe ad esempio la lepre incarna la furbizia e la scaltrezza, il leone è il re.

Non so francamente cosa mi aspettassi di trovare in queste fiabe, ma durante la lettura (soprattutto agli inizi) mi sono stupita di trovare tante somiglianze, tanti elementi in comune con le fiabe che conosciamo, dopo averci riflettuto sono giunta ad una conclusione che mi piace molto: in tutto il mondo le persone inventano delle storie semplici per insegnare o anche solo per intrattenere e alla fine in tutte troviamo molti elementi comuni nonostante l’apparente distanza geografica e “culturale”, siamo tutti uguali anche se viviamo in luoghi diversi e abbiamo tradizioni ed usanze diverse (che poi se analizzate attentamente forse così diverse non sono).

Così anche in queste fiabe troviamo la magia, animali parlanti, streghe e stregoni, metamorfosi e incantesimi, re, principesse; ovviamente ci sono delle differenze di contesto: ad esempio abbiamo la savana e gli animali che la abitano, anziché castelli ci sono palazzi imperiali e i villaggi (chiamati “kraal”).

Le fiabe sono piuttosto brevi, la maggior parte occupa poche pagine, in tutto sono trenta e provengono dalla tradizione di tutto il continente africano e alcune anche dalla tradizione della comunità indo-malese di Città del Capo in Sudafrica.

Ogni fiaba è introdotta da un brevissimo trafiletto corsivo iniziale che dà conto del luogo di provenienza e della tradizione da cui è tratta e della fonte specifica.

Ci sono alcune fiabe che proprio non mi sono piaciute, sarà che non ne ho capito il significato (ammesso che ce ne fosse uno); alcune sono molto simpatiche in particolare ve ne voglio segnalare due che hanno degli animali per protagonisti: “La gatta che venne in casa” dove si racconta come furono addomesticati i gatti  e “I doni del re” dove viene spiegata la ragione di particolari caratteristiche animali ad esempio perché l’elefante ha le zanne e la proboscide? Oppure perché alcuni hanno il corpo maculato e altri le corna?

I temi trattati sono svariati, animali che si trasformano in meravigliosi principi grazie all’amore di una ragazza che rompe un incantesimo, o maleficio (ad esempio “Il serpente a sette teste”, “Il guardiano del lago”; animali “umanizzati”, streghe, re e principesse, bambine disubbidienti (“Mmadipetsane”) e bambini puri (“Mpipidi e l’albero motlopi” che è una fiaba dolcissima e tenera) e non mancano mostri e spiriti maligni (“Asmodeus e l’imbottigliatore di spiriti).

Tra le mie preferite c’è “La madre che divenne polvere” una fiaba che racconta dell’avvento della vita sulla terra, dell’indifferenza, dell’irriconoscenza e dell’egoismo degli uomini, anche se non di tutti; una fiaba molto attuale che evidenzia principalmente i lati “brutti” dell’umanità e invita con parole semplici a riflettere su temi importanti.

“E così la stella, figlia del sole, che aveva regnato nel cielo con brillantezza impareggiabile, divenne la Madre di Tutti i Figlia nati sul pianeta verde e blu. Li amava tutti e si prendeva cura di ognuno di loro. I figli alti e quelli bassi, i figli grassi e quelli magri, quelli scuri, chiari e dalla pelle dorata. Si prendeva cura di tutti, giorno e notte. […] Essi prendevano gli uccelli nei boschi e li mettevano dentro gabbie in cui non c’era lo spazio per volare. Andavano in cerca di pesci nel mare per metterli in vasche senza spazio per nuotare. Uccidevano gli animali solo per svago e ne collezionavano le teste e le pelli. Talvolta intrappolavano le bestie selvatiche e le sbattevano dentro prigioni. Tagliavano gli alberi delle foreste e le lasciavano spoglie. E così, quando la terra si stancò e la Madre di Tutti i Figli diventò vecchia, si ammalò e morì, non furono neppure in grado di preoccuparsi.” (citazione dalla fiaba “La madre che divenne polvere”).

Forse se proprio voglio trovare un difetto al volume (e lo voglio trovare) è la mancanza di una spiegazione, di un corredo di commenti al significato, a ciò che la fiaba vuole insegnare. Come detto ciascuna fiaba è accompagnata da un brevissimo corsivo introduttivo ma per alcune non mi è stato sufficiente e non le ho capite appieno, ma probabilmente sarà un mio limite.

Ovviamente l’opera va guardata e inserita nel suo ruolo che è quello di far conoscere ai bambini di oggi - e anche agli adulti – la tradizione favolistica, così come dice Mandela nell’introduzione:

“Il mio desiderio è che in Africa la voce del cantastorie possa non morire mai, e che tutti i bambini africani abbiano la possibilità di sperimentare la magia dei libri senza smarrire mai la capacità di arricchire la loro dimora terrena con la magia delle storie.”

 Ho scelto di leggere questo libro per il progetto #viaggiatoritralerighe che per il mese di luglio prevede di esplorare il continente Africano.

Una strada piana e dolce per iniziare ad addentrarsi nella cultura e nella tradizione africana e nel suo folclore.

Lo conoscete? Aspetto vostri suggerimenti di libri africani.

martedì 14 luglio 2020

IL VECCHIO E IL MARE DI ERNEST HEMINGWAY

TITOLO: Il vecchio e il mare
AUTORE: Ernest Hemingway - traduzione di Fernanda Pivano
EDITORE: Mondadori - Collana Oscar Moderni
PAGINE: 124
PREZZO:  € 12,00
GENERE: letteratura americana (statunitense)
LUOGHI VISITATI: Golfo del Messico
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recensione il vecchio e il mare di ernest hemingway

“Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway libro imprescindibile dell’autore statunitense, con cui ha vinto il Premio Pulitzer nel 1953 ed è anche l’opera che gli è valsa il Nobel per la letteratura nel 1954, in una parola il suo capolavoro.

È un romanzo breve dove emerge lo stile di Hemingway ma anche le sue tematiche e le sue passioni, perché lo stesso scrittore è un appassionato di pesca e pratica regolarmente la pesca ai Marlin nel Golfo del Messico. Nella mia edizione (che è Mondadori) ci sono anche due lettere/ articoli scritti da Hemingway proprio sul tema della pesca al Marlin, con tanto di riflessioni/impressioni su questo pesce.

Torniamo al romanzo.

Viene narrata la vicenda di Santiago un vecchio pescatore cubano, solo al mondo, il cui unico affetto è Manolito, un ragazzo cui ha insegnato a pescare, e che in qualche modo si prende cura del vecchio.

Santiago è un pescatore, esce quotidianamente in mare con la sua piccola barca, gli ami, le lenze in cerca di pesci da vendere. Quando lo incontriamo sta affrontando un periodo molto sfortunato: sono ottantaquattro giorni che non prende un pesce. E anche all’alba dell’ottantacinquesimo giorno esce come al solito, ma è un giorno speciale, finalmente sembra che la fortuna gli arrida, prende all’amo un Marlin enorme (più grande della stessa barca) e inizia la prima fase di lotta con il pesce che dura dei giorni; giorni in cui il pesce trascina la barca sempre più al largo fino allo scontro finale che vedrà trionfare l’uomo, il pescatore. Santiago lega il pesce alla barca, issa la vela e fa rotta verso terra, ma il vecchio ha vinto contro il pesce non contro la natura e deve nuovamente lottare, ora per tenersi il pesce catturato con tanta fatica: lotta con gli squali finché può e finché ha armi; ma quando giunge al porto la sera del terzo giorno del gigantesco Marlin rimane solo la colonna vertebrale legata al fianco della barca. Il vecchio Santiago è tornato vincitore ma sconfitto.

 

Pur nella sua brevità l’opera è concentrata e lenta. Ho percepito moltissimo la lentezza: seguiamo un pescatore che esce in barca da solo, che praticamente ha fatto della solitudine la sua compagna di vita, così parla; parla con sé stesso o meglio dialoga con sé stesso, dandosi ordini e consigli, e si risponde; ma parla anche con i pesci e il Marlin che ha catturato (di cui riconosce il valore, la forza). E poi filosofeggia: c’è tanto tempo per pensare alla vita, la sua ma in generale al senso della vita.  

“«Mi piacerebbe comprarne un po’, se c’è qualche posto dove la vendono» disse.

Con cosa potrei comprarla? si chiese. Potrei comprarla con una fiocina perduta e un coltello rotto e due mani ferite?

«Forse» disse. «Hai cercato di comprarla con ottantaquattro giorni di mare. E quasi te l’avevano venduta.»

Bisogna che non pensi sciocchezze, pensò. La fortuna è una cosa che viene in molte forme e chi sa riconoscerla? Però ne comprerei un po’ in qualsiasi forma e pagherei quel che mi chiedono. Come vorrei vedere il riflesso delle luci, pensò. Vorrei troppe cose. Ma questa è la cosa che vorrei adesso.”

 

“Non pensare ai peccati, pensò. Ci sono abbastanza problemi adesso, senza i peccati. E poi non riesco a capirli.

Non riesco a capirli e non sono certo di credervi. Forse è stato un peccato uccidere il pesce. Credo proprio che sia così, anche se l’ho fatto per vivere e per nutrire molta gente. Ma allora tutto è un peccato. Non pensare ai peccati. È troppo tardi per pensarci e c’è chi è pagato apposta per farlo. Lascia che ci pensino loro. Tu sei nato per fare il pescatore e il pesce è nato per fare il pesce. San Pedro era un pescatore, e anche il padre del grande DiMaggio.

Ma gli piaceva pensare a tutte le cose che gli capitavano e poiché non c’era niente da leggere e non aveva la radio, pensò molto e continuò a pensare al peccato. Non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo, pensò. L’hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand’era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo. O lo è ancora di più?”

 

È stato il mio primo approccio a questo autore, positivo e senza troppe difficoltà (vedasi i “problemi” avuti con Faulkner il mese scorso). Questa volta sono arrivata preparata nel senso che ho letto il romanzo nell’ambito del progetto #scrittoinamerica che per il mese di luglio affronta il minimalismo, quindi avevo una vaga idea di cosa aspettarmi. Il minimalismo è una corrente letteraria che si caratterizza per stile asciutto, preferenza per la brevità e per temi e personaggi quotidiani; tipica soprattutto negli anni ’80 però queste caratteristiche si trovano anche (almeno in alcune sue opere) in Hemingway, tanto che si parla anche di minimalisti post hemingwayani.

Non solo minimalismo ma in quest’opera si trovano anche altri capisaldi della sua prosa, come la passione per pesca e la caccia (che praticava), la natura, la sconfitta dell’uomo e la morte, qui manca solo la guerra. Hemingway è stato un giornalista, ha vissuto una vita avventurosa e movimentata (tanto per citare una curiosità che conoscono tutti ha avuto quattro mogli), è stato corrispondente di guerra durante la Prima Guerra Mondiale e durante la Guerra Civile Spagnola; dalle sue esperienze ha tratto il materiale, o comunque ispirazione per i suoi romanzi (così ad esempio “Addio alle armi” si rifà all’esperienza della Prima Guerra Mondiale e alla disfatta di Caporetto, mentre “Per chi suona la campana” si rifà alla Guerra Civile Spagnola).

Hemingway è uno scrittore che voglio approfondire. Così come vorrei approfondire il minimalismo, tra gli scrittori di questa corrente più di tutti mi attirano/ chiamano Carver (magari con la raccolta di racconti “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”) e Breat Easton Ellis con “American Psycho”, se li conoscete aspetto i vostri pareri.

Avete letto “Il vecchio e il mare”? Vi aspetto nei commenti.