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martedì 10 novembre 2020

COME CERCHI NELL'ACQUA DI WILLIAM MCILVANNEY

TITOLO: Come cerchi nell'acqua
AUTORE: William McIlvanney traduzione di Alfredo Colitto
EDITORE: Feltrinelli (collana Universale Economica/noir)
PAGINE: 266
PREZZO: € 8,50
GENERE: letteratura scozzese, romanzo giallo/poliziesco
LUOGHI VISITATI: Glasgow 

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“«Allora, qui termina la prima lezione. Hai chiesto come possiamo entrare in contatto con l’assassino. Questo è il modo, Milligan e i suoi uomini possono ricostruire il delitto, se preferiscono. Noi faremo una cosa molto semplice. Cercheremo il colpevole. Nelle vite intorno a lui, quello che ha fatto produrrà un movimento, come cerchi nell’acqua. È quello che dobbiamo cercare. E lo faremo parlando con alcune persone.»”

 “Cerchi nell’acqua” non è il classico giallo dove seguiamo l’investigatore protagonista e pian piano scopriamo con lui – perché man mano anche noi raccogliamo indizi e prove -  chi è il colpevole. Qui non solo l’omicidio è già stato compiuto ma conosciamo già l’assassino. Il punto focale non è sapere chi è il colpevole ma come farà Laidlaw a scoprirlo.

Si tratta di un romanzo scorrevole e piacevole da leggere dove non manca l’elemento di tensione. Infatti la polizia non è l’unica sulle tracce del colpevole, sono tante le persone che gli danno la caccia, oltre ai poliziotti (Laidlaw e Milligan con le rispettive squadre e metodi), c’è il padre della vittima e ci sono due organizzazioni malavitose, tutti lo cercano e per motivi diversi: il cerchio si stringe, chi arriverà prima?

Nella parte finale il ritmo è incalzate e il finale stesso, oserei dire, sorprendente.

La narrazione si caratterizza per dar voce e seguire i vari personaggi che si muovono sulla scena -come l’ispettore Laidlaw, il suo collega Harkness, Bud Lawson (padre della vittima), l’assassino, i vari mafiosi – a capitoli alterni e attraverso questa rotazione si ricostruisce poi l’intero quadro della vicenda.

Elemento preponderante e prepotente è l’analisi psicologica e introspettiva. In parte è dovuto al carattere e il modo di essere del protagonista l’ispettore Jack Laidlaw (una sorta di mentalist), di analista del comportamento, spacca il capello in quattro si chiede sempre il perché di ogni cosa.

Il personaggio dell’ispettore Jack Laidlaw è interessante: è un poliziotto diverso dagli altri, usa metodi diversi e in contrasto con quelli dei colleghi – molto più propensi all’uso della violenza e delle minacce – e queste diversità di metodi e di vedute sono fonte di attriti e antipatie, in modo particolare non corre buon sangue con il collega Milligan:

“«Milligan è privo di dubbi».
«Che significa?»
«Significa che se tutti potessero svegliarsi domani e avere il coraggio dei loro dubbi, il nuovo millennio sarebbe cominciato. Credo che ciò che distrugge siano le false certezze. E Milligan ne è pieno. È un assoluto ambulante. Che cos’è l’omicidio se non un assoluto della volontà, una certezza inventata? Un fallimento esistenziale del coraggio. Quello che non dobbiamo fare è aggravare il crimine a causa della reazione che provoca in noi. Ma è quello che tutti continuiamo a fare. Davanti a un’enormità, perdono il senno e invece di vedere un uomo costruiscono un mostro. È un’industria sociale. E Milligan è uno degli imprenditori che la sostengono. Ce ne sono tanti, ma lui è quello che continua a passarmi davanti agli occhi, come un grosso bruscolino.»”

La filosofia di indagine di Laidlaw è interessante, quasi uno studio sociologico, lui non si limita “a fare il poliziotto e cercare un colpevole e basta”:

“«Per via del mio modo di ragionare, immagino. Non riesco a smettere di pensare che ci sono sempre dei collegamenti. L’idea che le cose brutte accadano per conto loro, in isolamento, senza che abbiano radici dentro tutti noi… Penso sia solo ipocrisia. Siamo tutti coinvolti, secondo me. Solo che in certi casi alcuni sono più coinvolti di altri. Ora, se accettiamo questo, ci cono persone in città che sanno cosa è successo, anche se non sanno di saperlo. »”

Oltre al poliziotto c’è l’uomo, con un vita privata tutt’altro che semplice; in generale Laidlaw non è sempre un mostro di simpatia, tende ad essere strafottente, antipatico, ma al tempo stesso anche gentile e premuroso.

“Harkness mantenne il silenzio. Malgrado lo conoscesse da poco, aveva già identificato un lato del carattere dell’ispettore che cominciava a infastidirlo. In alcune circostanze, gli dicevi ‘Ciao’ e lui doveva analizzare il saluto prima di rispondere. Poteva diventare stancante.”

Non mancano alcuni riferimenti alla città di Glasgow che è il fondale dove si svolgono tutte le vicende e in qualche modo è una protagonista del romanzo, perché la città influenza ed influisce sulla vita dei personaggi e sul loro comportamento.

“«Bel posticino,» disse Laidlaw.
«Già. Devono viverci persone terribili.»
«Non era quello che intendevo,» ribatté Laidlaw. «Le persone sono notevoli, è il posto che è terribile. A ciascuno dei quattro angoli di Glasgow c’è questo schema: il Drum, Easterhouse, Pollok e Castelmilk. È il più grande progetto di quartieri popolari d’Europa. E di cosa si tratta? Case, e solo case. Discariche architettoniche dove gettare le persone come malta. Architettura penale. Quelli che ci abitano devono essere per forza brave persone, altrimenti avrebbero incendiato questi posti da anni.»”

“Si sentiva urtato dalla contraddizioni. Il posto in cui si trovava ora era una presa in giro del posto in cui era stato prima. Eppure entrambi erano Glasgow. La città gli era sempre piaciuta, ma non ne era mai stato consapevole come quella sera. La sua forza lo colpiva sotto forma di contraddizioni. Glasgow era biscotti allo zenzero fatti in casa e Jennifer Lawson morta nel parco. Era la gentilezza sentenziosa del comandante e la rudezza minacciata di Laidlaw. Era Milligan, insensibile come una lastra di cemento, e la signora Lawson, fuori di sé dal dolore. Era la mano destra che ti gettava a terra, e la sinistra che ti aiutava ad alzarti, mentre sulle labbra si alternavano scuse e minacce.”

Dovrebbe essere ambientato negli anni ’70. Questo non è l’unico romanzo con protagonista Jack Laidlaw, ce ne sono altri due che saranno miei.

L’ambientazione scozzese è il motivo per cui ho scelto questo libro, con lui partecipo alla tappa di novembre della challenge #viaggiatoritralerighe che appunto prevede di fare tappa in Scozia.

Un poliziesco interessante, che permette di scoprire la città di Glasgow e le sue dinamiche, un investigatore singolare, diverso dagli altri e fiero di esserlo. Super consigliato.

lunedì 2 novembre 2020

INÉS DELL'ANIMA MIA DI ISABEL ALLENDE

TITOLO: Inés dell'anima mia
AUTORE: Isabel Allende - traduzione di Elena Liverani
EDITORE: Feltrinelli (Universale Economica)
PAGINE: 326
PREZZO: € 10,00
GENERE: romanzo storico, letteratura cilena
LUOGHI VISITATI:Spagna, Nuovo Mondo, Cile negli anni dal 1500 al 1553

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Un bellissimo romanzo storico incentrato su una figura cardine per la conquista del Cile: Inés Suàrez.

Inés Suàrez è una donna forte, combattiva, passionale, un bel personaggio. Ma non è solo un personaggio letterario è una donna realmente esistita e Isabel Allende si è limitata a romanzare la storia della sua vita colmando alcune lacune ma rimanendo il più possibile fedele alla realtà storica.

Inés nasce in Spagna e si reca nelle Americhe alla ricerca del marito, Juan de Malaga, che era partito per il Nuovo Mondo in cerca di fortuna abbadandola, ma Inés non parte alla ricerca di un uomo ma di una vita diversa e migliore, è alla ricerca della libertà.

“A differenza di Juan, non credevo all’esistenza di una città d’oro, dalle acque incantate che donavano l’eterna giovinezza, o di amazzoni che se la spassavano con gli uomini per poi congedarli carichi di gioielli, ma sospettavo che là ci fosse qualcosa di ancor più prezioso: la libertà. Nel Nuovo Mondo ognuno era padrone di se stesso, non ci si doveva chinare davanti a nessuno, si poteva commettere errori e cominciare di nuovo, essere una persona diversa, vivere un’altra vita.”

La nostra Inés ha manifestato da sempre il desiderio di una vita diversa da quella che la Spagna e il suo ruolo di donna potevano offrirle in patria; è un abile ricamatrice, sa cucinare ma soprattutto è una bravissima infermiera, sa prendersi cura di feriti e malati; e tutte queste doti saranno essenziali nella vita nel Nuovo Mondo e nel viaggio verso il Cile e nella nuova colonia.

“Ho vissuto più di quarant’anni nel Nuovo Mondo e ancora non mi sono abituata al disordine, benché io stessa ne abbia beneficiato, dato che, se fossi rimasta nel mio paesino d’origine, oggi sarei un’anziana qualsiasi, povera e cieca per il tanto cucire pizzi alla luce di una lanterna. Là sarei Inés, la sarta della strada dell’acquedotto. Qui sono doña Inés Suàrez, signora tra le più influenti, vedova dell’eccellentissimo governatore don Rodrigo de Quiroga, conquistatrice e fondatrice del Regno del Cile.”

Nel Nuovo Mondo scopre di essere diventata vedova, partecipa alla conquista del Cile al fianco del suo nuovo amore Pedro de Valdivia, l’hidalgo (già luogotenente di Pizarro in Perù) e condottiero che riuscirà a conquistare il Cile e ne diventerà il primo governatore. Con la spedizione di Valdivia e Inés Suàrez viene fondata la città di Santiago, ma le avventure sono solo all’inizio perché sarà necessario difendere questa città e le altre che pian piano vengono fondate.

“Durante i mesi successivi, la città germogliò come per miracolo. Verso la fine dell’estate erano sorte già parecchie case di bell’aspetto, avevano piantato filari d’alberi per avere ombra e uccelli nelle strade, la gente stava raccogliendo le prime verdure dagli orti, gli animali sembravano sani e avevamo immagazzinato provviste per l’inverno. Tale prosperità irritava gli indios della valle, che si rendevano perfettamente conto che non eravamo lì di passaggio. Supponevano, e a ragione, che sarebbero arrivati altri huincas a sottrarre loro la terra e a trasformarli in schiavi. Mentre noi ci adoperavamo per stabilirci, loro si preparavano a cacciarci. Si mantenevano invisibili, ma iniziammo a sentire il lugubre richiamo della trutruca e dei pilloi, flauti ricavati dalle ossa delle gambe dei nemici uccisi.”

Doña Inés Suàrez è conosciuta soprattutto per il ruolo cruciale ricoperto nella difesa della città di Santiago da un attacco dei Mapuche.

Come dicevo si tratta di romanzo storico ed è ricco di personaggi storici, avvenimenti e soprattutto di Storia del Nuovo Mondo, che io conosco poco. Si parla dell’arrivo di Pizarro, della scelta di Valdivia di intraprendere l’esplorazione e la conquista del Cile, la difesa dello stesso dagli attacchi della popolazione Mapuche; non mancano le descrizioni della vita quotidiana nel Nuovo Mondo e nemmeno la parte più personale/intima della vita di Inés e dei suoi amori (in fondo è lei la protagonista del romanzo).

 Molto interessanti sono i brevi approfondimenti sulla cultura indios e sulla città di Cuzco come deve averla vista Inés Suàrez al suo arrivo in Perù.

“Non ho mai visto niente di simile alla magnifica città di Cuzco, ombelico dell’impero inca, città sacra dove gli uomini possono parlare con la divinità. Forse Madrid, Roma, o qualche città araba, che hanno fama di essere splendide, possono essere paragonate a Cuzco, ma io non le ho mai viste. Nonostante i danneggiamenti e in vandalismi subiti durante la guerra, era un gioiello bianco e rispendente sotto il cielo color porpora. Mi si bloccò il respiro e per diversi giorni mi sentii soffocare, non per l’altitudine o l’aria rarefatta, di cui mi avevano avvertito, ma per l’imponente bellezza dei suoi templi, delle fortezze e degli edifici. Si dice che all’arrivo dei primi spagnoli ci fossero palazzi rivestiti d’oro, anche se ora le mura erano nude. A nord della città si erge una costruzione spettacolare, Sacsayhuamán, la fortezza sacra con i suoi tre ordini di cinta murarie a zigzag, il Tempio del Sole, il suo labirinto di strade, torrioni, marciapiedi, scale, terrazzi, cantine e stanze dove vivevano nell’agio cinquanta o sessantamila persone. Il nome significa ‘falco soddisfatto’ e, come un falco, vigila su Cuzco. Venne costruita con monumentali blocchi di pietra tagliati e assemblati senza malta e con una tale precisione che tra le giunture non entrerebbe neanche una daga sottile. Come fecero a fendere quelle enormi pietre senza strumenti di metallo? Come le trasportarono, da molte leghe di distanza, senza ruote né cavalli? E mi domandavo inoltre come una manciata di soldati spagnoli fosse riuscita a conquistare in così poco tempo un impero in grado di essere una tale meraviglia. Per quanto avessero fomentato le dispute tra gli inca e potessero contare su migliaia di yanaconas, pronti a servirli e a battersi per loro, quell’impresa eroica, ancora oggi, mi sembra inspiegabile. ‘Abbiamo Dio dalla nostra parte, oltre che la polvere da sparo e il ferro’ dicevano gli spagnoli, grati ai nativi di difendersi con armi di pietra. ‘Quando ci videro arrivare dal mare in grandi case provviste di ali, credettero che fossimo divinità’ aggiungevano, ma penso che fossero stati loro a diffondere tale versione alla quale gli indios, e persino loro stessi, finirono col credere.”

“Da dove venivano questi Mapuche? Si dice che assomiglino a certi popoli asiatici. Se davvero provengono da lì, non riesco a spiegarmi come abbiano potuto attraversare mari così tempestosi e terre tanto estese per giungere fino a qui. Sono selvaggi, non conoscono né l’arte né la scrittura, non costruiscono né città né templi, non hanno caste, classi né sacerdoti, ma solo capitani di guerra, i loro toquis. Si muovano da un luogo all’altro, liberi e nudi, con le numerose mogli e i figli, che combattono insieme a loro nelle battaglie. Non compiono sacrifici umani e non adorano idoli. Credono in un unico dio, che non è il nostro Dio, che loro chiamano Ngenechén.”

 

Sempre parlando di personaggi una menzione la merita, secondo me, il cronista Daniel Belalcázar incontrato durante la traversata dell’Oceano - non sono riuscita a capire se è realmente esistito o meno – ma il ruolo che svolge nel romanzo è interessante: la voce fuori dal coro che mostra la realtà per quello che è, senza essere soggiogato da pensiero dominante. 

“Questo Belalcázar era un uomo di poca fede, ma molto divertente. Di pomeriggio ci dilettava con i racconti dei suoi viaggi e di ciò che avremmo visto nel Nuovo Mondo. «Di certo non ciclopi, giganti e nemmeno uomini con quattro braccia e teste di cani, ma sicuramente incontrerete esseri primitivi e malvagi, soprattutto fra gli spagnoli’ asseriva scherzando. Ci assicurò che gli abitanti del Nuovo Mondo non erano tutti selvaggi: aztechi, maya e inca erano più raffinati di noi, quanto meno si facevano il bagno e non andavano in giro coperti di pidocchi».
«Avidità, solo avidità»
 aggiunge. «Il giorno in cui noi spagnoli abbiamo messo piede sul suolo del Nuovo Mondo abbiamo segnato la fine di quelle culture. All’inizio ci accolsero bene. La loro curiosità superò la prudenza. Non appena si resero conto che agli strani barbuti spuntati dal mare piaceva l’oro, quel metallo morbido e inutile che loro possedevano in abbondanza, glielo regalarono a piene mani. Tuttavia, ben presto, il nostro insaziabile appetito e brutale orgoglio risultarono offensivi. E ci mancherebbe altro! I nostri soldati abusano delle loro donne, entrano nelle loro case e sottraggono senza chiedere permesso quel che gli pare e il primo che osi frapporsi lo mandano all’altro mondo con una sciabolata. Proclamano che la terra in cui sono appena arrivati appartiene a un sovrano che vive dall’altra parte del mare e pretendono che i nativi adorino due bastoni a forma di croce».
«Speriamo che non la sentano parlare così, signor Belalcázar! La accuseranno presso l’imperatore di essere un traditore e un eretico» lo ammonii.
«Non faccio altro che dire la verità. Lo constaterà anche lei, signora, che i conquistadores sono senza ritegno: arrivano come mendicanti, si comportano da ladri e si credono dei signori. »”

 

Il romanzo è strutturato sotto forma di memorie che la stessa Inés Suàrez scrive per lasciare traccia e testimonianza della sua esistenza. Spesso durante la scrittura si rivolge direttamente alla figlia (cui le memorie sono destinate) oppure ad un ipotetico lettore. Anticipa spesso gli avvenimenti per poi proseguire cronologicamente e riprenderli.

La narrazione è lenta, ricca quasi ridondante - caratteristica che ho sentito essere propria dei libri della Allende, scrittrice prolissa e divagatrice – accompagnata però da una scrittura spesso ironica e pungente; così se ci sono alcune parti un pochino più lente e stagnati (soprattutto all’inizio) si compensano bene e nel complesso l’ho trovato coinvolgente, è una storia ricca di avventure dove c’è il desiderio di vedere come prosegue.

Se proprio vogliamo trovare una pecca, ne ho due. La prima è una considerazione circa l’eccessiva sessualità nel senso che talvolta Inés descrive anche minuziosamente scene di sesso con i suoi amanti il che non è un problema in se e per se ma mi sembra stonare con la finzione letteraria per cui si tratta delle memorie che scrive per la figlia anche se la stessa Inés a un certo punto spiega la scelta come diretta a insegnare/istruire la figlia nell’ottica di migliorarle la vita ed eventualmente il matrimonio come una sorta di sapienza e di esperienza che si possono diffondere positivamente tra le donne per il loro maggior benessere e appagamento e migliorare la loro vita sessuale ma anche generale.

Ciò che mi ha un pochino deluso è la conclusione che è un po’ “veloce” e frettolosa, sbrigativa soprattutto se paragonata all’inizio molto più lento e pieno di digressioni sul giovane Valdivia e sul suo amico Aguirre durante le campagne al servizio dell’imperatore Carlo V in giro per l’Europa. Il romanzo si chiude fondamentalmente con la ricostruzione della morte del primo governatore del Cile Valdivia; anche se della vita successiva di Inés Suàrez viene dato conto durante tutto il romanzo attraverso quei meccanismi di anticipazione della narrazione di cui ho detto prima.

C’è anche una nota positiva: il libro è corredato da splendide illustrazioni nonostante si tratti di un libro in edizione economica (perché stiamo fa parte dalla collana Universale Economica Feltrinelli) con un prezzo basso. Le illustrazioni sono tratte dall’edizione de “La Araucana” di Alonso de Ercilla del 1852.

Ho letto questo romanzo per il progetto #unannoconlastoria e sono molto contenta sia per le possibilità di approfondire il Nuovo Mondo sia per aver conosciuto una scrittrice molto famosa di cui io ancora non avevo letto nulla, ma rimedierò. Avete consigli in proposito?

mercoledì 7 ottobre 2020

ORME - ROBYN DAVIDSON

TITOLO: Orme
AUTORE: Robyn Davidson traduzione di Benedetta Bini
EDITORE: Feltrinelli
PAGINE: 262
PREZZO: € 9,50
GENERE: letteratura australiana, libri di viaggio, storia vera
LUOGHI VISITATI: Australia

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“Fu solo allora che comincia a capire in che razza di pasticcio mi ero andata a cacciare, solo allora mi resi conto di quanto ero stata stupida a non prevedere tutto quello che sarebbe successo. Sembra che la combinazione di una serie di elementi – donna, deserto, cammelli, solitudine – avesse colpito l’immaginazione di questa era senza passioni e senza cuore; e avesse acceso la fantasia delle persone che si vedono alienate, prive di potere, incapaci di fare qualcosa in un mondo ormai impazzito.”

Un’avventura alla ricerca di se stessi e del senso della vita.

Come dice il sottotitolo una donna, quattro cammelli e un cane attraversano il deserto australiano da Alice Spring a Hamelin Pool sull’oceano indiano. Un viaggio che è scoperta di se stessi e del proprio ruolo nel mondo; e per noi lettori anche di scoperta dell’Australia

È un memoir e leggiamo le parole, l’esperienza di Robyn Davidson che oggi scrive per il National Geographic rivista che in parte ha finanziato e accompagnato la sua impresa.

Ma la sua è stata fondamentalmente un’esperienza in solitaria. Robyn è una donna dal carattere forte, combattiva, quasi selvaggia, senz’altro molto coraggiosa.

“Ma ancora peggio, ero un essere mitico che aveva fatto qualcosa di coraggioso al di là delle possibilità che si offrivano alla gente comune. E questo era proprio agli antipodi di quello che pensavo – e cioè che chiunque può fare qualsiasi cosa. Se ero riuscita a farcela ad attraversare il deserto, beh allora chiunque poteva fare qualsiasi cosa.”

Ma chi è questa donna? Una ragazza qualsiasi, che un giorno ha quest’idea folle di attraversare il deserto con dei cammelli, senza nessuna particolare preparazione, non conosce i luoghi e in realtà nemmeno i cammelli. Infatti il reportage inizia dal sua arrivo ad Alice Springs dove rimarrà un paio d’anni lavorando sia per mettere da parte i soldi necessari al viaggio, per comprare gli animali e tutta l’attrezzatura necessaria, ma anche e soprattutto per imparare a gestire, domare e convivere con questi animali.

Fin da subito tra Robyn e i cammelli si instaura un legame unico e speciale:

“Una volta per tutte voglio sfatare qualcuna delle leggende che in genere si raccontano su questi animali. A eccezione dei cani, sono le bestie più intelligenti che io conosca: direi che hanno un quoziente di intelligenza corrispondente a quello di un bambino di otto anni. Sono affettuosi, insolenti, giocherelloni, spiritosi (sì, spiritosi), padroni di sé, pazienti, forti, e sono soprattutto fonte continua di curiosità e di fascino. Sono anche molto difficili da allevare, perché si tratta di animali dal temperamento essenzialmente poco domestico e al tempo stesso molto vivaci e furbi. È per questo che godono di una pessima reputazione. Se non vengono presi del verso giusto possono diventare recalcitranti e anche pericolosi, ma quelli di Kurt non rientravano in questa categoria: erano solo dei grossi cuccioloni curiosi. E non è nemmeno vero che puzzano, tranne quanto, per ripicca o per paura, ti sputano addosso un bolo verde e vischioso. Aggiungerei anche che sono animali molto sensibili, che si spaventano con grande facilità soprattutto per colpa di guardiani o allevatori inesperti, dai quali possono essere rovinati per sempre. Sono bestie altere, etnocentriche, convinte – lo si capisce benissimo – di essere la razza eletta: possono essere anche codardi, e quell’atteggiamento altero e aristocratico nasconde spesso un cuore sensibile e delicato. Insomma, ero stata conquistata.”

Di cosa parla? Certo parla della traversata del deserto, della vita quotidiana in un esperienza del genere, ci sono descrizioni stupende del paesaggio che la circonda, della solitudine, della pazzia ma anche della libertà che sperimenta. Ma parla molto anche di Australia, di società e cultura, di ambiente e di aborigeni.

Della società australiana analizza soprattutto la “periferia” la vita nel difficile entroterra di cui la piccola Alice Spring è un esempio, una società tendenzialmente rozza e predominata da violenza e razzismo e profondamente misogina; misoginia di cui ricostruisce la storia (ipotizzando una possibile origine) legandola a doppio filo a quella della colonizzazione europea:

“Ma per riuscire a comprendere davvero quanto siano profonde, in questo paese, le radici del culto della misoginia, bisogna andare a disseppellire per lo meno duecento anni di storia dell’Australia bianca, e sbarcare idealmente sulle spiagge di questa ‘immensa terra scura’ con un drappello di forzati pronti a tutto e molto bravi col pugnale. A dire il vero, il luogo dove approdarono era abbastanza verde e invitante: l’affare della ‘terra scura’ arrivò solo in un secondo momento. Non è difficile immaginare che la vita non fosse troppo facile nella colonia, ma i ragazzi impararono ad aiutarsi l’uno con l’altro e una volta scontata la pena, quelli che si reggevano ancora in piedi si avventurarono nella regione minacciosa e inaccessibile che stava al di là del confine per cercare un qualche modo di sopravvivere. Era gente brutale, che non aveva assolutamente nulla da perdere – e c’era l’alcol ad attutire i colpi. Fu intorno al 1840 che i nuovi abitanti dell’isola cominciarono ad accorgersi che mancava qualcosa: pecore, e donne. Le prime le importarono dalla Spagna: un colpo di genio, che permise all’Australia di fare ingresso nella mappa dell’economia mondiale. Le seconde, invece, furono fatte venire via nave dopo essere state prelevate dagli ospizi e dagli orfanatrofi d’Inghilterra. Visto che non ce n’erano abbastanza per tutti (donne, voglio dire), non è nemmeno troppo difficile immaginare gli assalti frenetici ai moli di Sidney quando entravano in porto, a vele spiegate, le navi cariche di ragazze. Ci vuole molto più di un secolo per cancellare gli effetti di una memoria così traumatica, e d’altronde il culto è tenuto in piedi e – per così dire- coltivato in ogni pub del paese, e specialmente all’interno, dove si è ancora molto legati sentimentalmente all’immagine stereotipa del maschio ‘aussie’ (abbreviazione colloquiale di australiano). L’incarnazione odierna di questo mito è del tutto priva di fascino: è un essere pieno di pregiudizi, bigotto, noioso, e soprattutto brutale. Le uniche cose che lo interessano nella vita sono fare a pugni, usare il fucile e bere.”

Ma la società australiana dell’esperienza di Robyn non è solo negativa, presenta anche una peculiarità: la solidità dell’amicizia tra australiani:

“Non ho mai più trovato, in nessun’altra parte del mondo, quel tipo di amicizia che esiste in certi settori della società australiana. Probabilmente c’entrano tante cose: un antico codice di cameratismo, il fatto che le persone hanno ancora il tempo di occuparsi l’una dell’altra, che i dissidenti, in passato, avevano sviluppato un forte senso della comunità, e che fattori come la competitività e il successo non sono ancora diventati aspetti fondamentali della cultura australiana, e ancora c’entra una generosità di spirito che può permettersi di crescere, di fiorire, in questo ambiente abbastanza unico al mondo, fatto di spazio senza tradizioni e di grandi potenzialità umane. Comunque sia, ha un valore infinito.”

Ed emerge anche la fratellanza, la vicinanza e l’aiuto che molte persone regalano a Robyn durante la traversata, si tratta principalmente delle persone che vivono nel “bush” dell’entroterra (cioè delle praterie e zone boscose che sono state occupate dai bianche e destinate agli allevamenti), persone che aiutano gli altri anche se hanno poco per se stessi.

Dicevo che si occupa anche di Aborigeni e ambiente e (soprattutto) sotto questi due aspetti il libro rappresenta quasi una denuncia.

Alla base della “spedizione” di Robyn c’è anche il desiderio di avvicinarsi al popolo autoctono e minacciato degli Aborigeni, sono varie le parti che dedica loro. Si ha modo di scoprire come vivono, in riserve come gli Indiani Pellerossa oppure ai margini delle città in cerca di un lavoro precario che non arriverà mai e che li vede sprofondare nella depressione e nell’alcol, e vengono anche spiegati i motivi, la vita di un aborigeno è fortemente legata alla terra – sia a livello di coltivazione e caccia come metodi di sostentamento sia, ancor di più, a livello culturale sulla base di una millenaria tradizione di riti e credenze; persa la terra perdono il senso stesso della vita – cosa fa il governo per loro? poco o nulla; cosa devono subire gli aborigeni? tanto a partire dalla violazione della propria terra e delle proprie credenze, dalla fastidiosa, pressante e umiliante presenza di turisti e antropologi che li studiano.  Infine sono oggetto di razzismo e discriminazioni e sono flagellati dalla disoccupazione e dall’alcolismo. Nel momento in cui Robyn Davidson ce ne parla siamo agli inizi degli anni ’70 e sono attivi una serie di movimenti che si battono il riconoscimento dei diritti civili degli aborigeni; per fortuna proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in avanti le cose sono andate migliorando, anche se ancora oggi non esiste una parità piena almeno per quel che riguarda mortalità, salute e aspettativa di vita.

Robyn condivide una piccola parte di viaggio con un compagno speciale: Eddie

“Era una compagnia piacevolissima, quella di Eddie, che aveva tutte le qualità tipiche degli aborigeni: forza, calore, allegria, padronanza di sé, e una consistenza, una solidità che immediatamente imponevano rispetto. E mentre proseguivamo nel cammino, continuavo a domandarmi come era possibile che la definizione ‘primitivo’, con tutte le sottili e malevole connotazioni della parola, potesse essere mai stata attribuita a persone come lui. Se, come qualcuno ha detto ‘essere davvero civilizzati significa contrarre un disagio’, allora Eddie e la sua gente non erano per niente civilizzati. Perché proprio questa qualità era in lui tanto evidente: era sano, tutto d’un pezzo, un essere completo, ed era qualcosa che irradiava da lui con tale forza che bisognava essere completamente stupidi per non rendersene conto. […] Ma pensai a questo vecchio uomo e alla sua gente. Pensai a come erano stati massacrati, quasi cancellati dalla faccia della terra, forzati a vivere in insediamenti che ricordavano molto da vicino i campi di concentramento, e poi incalzati, spinti, misurati, mentre voluminosi testi di antropologia pubblicavano foto a colori dei loro rituali, mentre i loro oggetti sacri venivano rubati e disseminati nei musei, mentre ogni occasione era buona per logorarli e privarli della loro forza e integrità. Non c’era un bianco che non li avesse fraintesi e insultati, per poi lasciarli a marcire, imbottiti di alcol di infima qualità, dopo aver loro passato tutte le nostre malattie. Volsi lo sguardo a questo meraviglioso vecchio, strambo e mezzo cieco, che si torceva dalla risate come se non avesse mai visto niente del genere, come se non fosse mai stato oggetto di un disprezzo ignorante, crudele e bigotto, come se non avesse mai avuto una preoccupazione in vita sua, e pensai ‘O.K., vecchio, se ce la fai tu, ce la faccio anch’io’.”

Non è un romanzo e probabilmente neppure un reportage o un resoconto di viaggio veri e propri. Piuttosto è un flusso di coscienza, dove Robyn Davidson racconta la sua esperienza e le sue sensazioni ed emozioni, ci sono parti dove non mancano le spiegazioni e approfondimenti e altre, soprattutto i legami di amicizia personali, che semplicemente vengono riportati.

È una lettura che sa essere esperienza di viaggio sia nel mondo che all’interno dell’io narrante e di riflesso anche nell’io lettore. Purtroppo questo è l’unico scritto della Davidson tradotto in italiano almeno da quello che sono riuscita a capire io. Ma Davidson ha vissuto tante altre avventure che ha poi documentato in altrettanti reportage, per esempio ho letto che ha viaggiato per un paio d’anni con una popolazione nomade in India; spero che un giorno vengano offerti anche ai lettori italiani.

Avete letto Orme?

Vi piacciono i libri di viaggio?