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martedì 14 luglio 2020

IL VECCHIO E IL MARE DI ERNEST HEMINGWAY

TITOLO: Il vecchio e il mare
AUTORE: Ernest Hemingway - traduzione di Fernanda Pivano
EDITORE: Mondadori - Collana Oscar Moderni
PAGINE: 124
PREZZO:  € 12,00
GENERE: letteratura americana (statunitense)
LUOGHI VISITATI: Golfo del Messico
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recensione il vecchio e il mare di ernest hemingway

“Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway libro imprescindibile dell’autore statunitense, con cui ha vinto il Premio Pulitzer nel 1953 ed è anche l’opera che gli è valsa il Nobel per la letteratura nel 1954, in una parola il suo capolavoro.

È un romanzo breve dove emerge lo stile di Hemingway ma anche le sue tematiche e le sue passioni, perché lo stesso scrittore è un appassionato di pesca e pratica regolarmente la pesca ai Marlin nel Golfo del Messico. Nella mia edizione (che è Mondadori) ci sono anche due lettere/ articoli scritti da Hemingway proprio sul tema della pesca al Marlin, con tanto di riflessioni/impressioni su questo pesce.

Torniamo al romanzo.

Viene narrata la vicenda di Santiago un vecchio pescatore cubano, solo al mondo, il cui unico affetto è Manolito, un ragazzo cui ha insegnato a pescare, e che in qualche modo si prende cura del vecchio.

Santiago è un pescatore, esce quotidianamente in mare con la sua piccola barca, gli ami, le lenze in cerca di pesci da vendere. Quando lo incontriamo sta affrontando un periodo molto sfortunato: sono ottantaquattro giorni che non prende un pesce. E anche all’alba dell’ottantacinquesimo giorno esce come al solito, ma è un giorno speciale, finalmente sembra che la fortuna gli arrida, prende all’amo un Marlin enorme (più grande della stessa barca) e inizia la prima fase di lotta con il pesce che dura dei giorni; giorni in cui il pesce trascina la barca sempre più al largo fino allo scontro finale che vedrà trionfare l’uomo, il pescatore. Santiago lega il pesce alla barca, issa la vela e fa rotta verso terra, ma il vecchio ha vinto contro il pesce non contro la natura e deve nuovamente lottare, ora per tenersi il pesce catturato con tanta fatica: lotta con gli squali finché può e finché ha armi; ma quando giunge al porto la sera del terzo giorno del gigantesco Marlin rimane solo la colonna vertebrale legata al fianco della barca. Il vecchio Santiago è tornato vincitore ma sconfitto.

 

Pur nella sua brevità l’opera è concentrata e lenta. Ho percepito moltissimo la lentezza: seguiamo un pescatore che esce in barca da solo, che praticamente ha fatto della solitudine la sua compagna di vita, così parla; parla con sé stesso o meglio dialoga con sé stesso, dandosi ordini e consigli, e si risponde; ma parla anche con i pesci e il Marlin che ha catturato (di cui riconosce il valore, la forza). E poi filosofeggia: c’è tanto tempo per pensare alla vita, la sua ma in generale al senso della vita.  

“«Mi piacerebbe comprarne un po’, se c’è qualche posto dove la vendono» disse.

Con cosa potrei comprarla? si chiese. Potrei comprarla con una fiocina perduta e un coltello rotto e due mani ferite?

«Forse» disse. «Hai cercato di comprarla con ottantaquattro giorni di mare. E quasi te l’avevano venduta.»

Bisogna che non pensi sciocchezze, pensò. La fortuna è una cosa che viene in molte forme e chi sa riconoscerla? Però ne comprerei un po’ in qualsiasi forma e pagherei quel che mi chiedono. Come vorrei vedere il riflesso delle luci, pensò. Vorrei troppe cose. Ma questa è la cosa che vorrei adesso.”

 

“Non pensare ai peccati, pensò. Ci sono abbastanza problemi adesso, senza i peccati. E poi non riesco a capirli.

Non riesco a capirli e non sono certo di credervi. Forse è stato un peccato uccidere il pesce. Credo proprio che sia così, anche se l’ho fatto per vivere e per nutrire molta gente. Ma allora tutto è un peccato. Non pensare ai peccati. È troppo tardi per pensarci e c’è chi è pagato apposta per farlo. Lascia che ci pensino loro. Tu sei nato per fare il pescatore e il pesce è nato per fare il pesce. San Pedro era un pescatore, e anche il padre del grande DiMaggio.

Ma gli piaceva pensare a tutte le cose che gli capitavano e poiché non c’era niente da leggere e non aveva la radio, pensò molto e continuò a pensare al peccato. Non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo, pensò. L’hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand’era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo. O lo è ancora di più?”

 

È stato il mio primo approccio a questo autore, positivo e senza troppe difficoltà (vedasi i “problemi” avuti con Faulkner il mese scorso). Questa volta sono arrivata preparata nel senso che ho letto il romanzo nell’ambito del progetto #scrittoinamerica che per il mese di luglio affronta il minimalismo, quindi avevo una vaga idea di cosa aspettarmi. Il minimalismo è una corrente letteraria che si caratterizza per stile asciutto, preferenza per la brevità e per temi e personaggi quotidiani; tipica soprattutto negli anni ’80 però queste caratteristiche si trovano anche (almeno in alcune sue opere) in Hemingway, tanto che si parla anche di minimalisti post hemingwayani.

Non solo minimalismo ma in quest’opera si trovano anche altri capisaldi della sua prosa, come la passione per pesca e la caccia (che praticava), la natura, la sconfitta dell’uomo e la morte, qui manca solo la guerra. Hemingway è stato un giornalista, ha vissuto una vita avventurosa e movimentata (tanto per citare una curiosità che conoscono tutti ha avuto quattro mogli), è stato corrispondente di guerra durante la Prima Guerra Mondiale e durante la Guerra Civile Spagnola; dalle sue esperienze ha tratto il materiale, o comunque ispirazione per i suoi romanzi (così ad esempio “Addio alle armi” si rifà all’esperienza della Prima Guerra Mondiale e alla disfatta di Caporetto, mentre “Per chi suona la campana” si rifà alla Guerra Civile Spagnola).

Hemingway è uno scrittore che voglio approfondire. Così come vorrei approfondire il minimalismo, tra gli scrittori di questa corrente più di tutti mi attirano/ chiamano Carver (magari con la raccolta di racconti “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”) e Breat Easton Ellis con “American Psycho”, se li conoscete aspetto i vostri pareri.

Avete letto “Il vecchio e il mare”? Vi aspetto nei commenti.

venerdì 15 maggio 2020

IL CARDELLINO - DONNA TARTT

TITOLO: Il cardellino
AUTORE: Donna Tartt - traduzione di Mirko Zilahi de' Gyurgyokai
EDITORE: Rizzoli
PAGINE: 893
PREZZO: € 17,00
GENERE: letteratura america contemporanea
LUOGHI VISITATI: New York
PREMI: vincitore del Pulitzer nel 2014

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il cardellino di donna tartt

Un libro magnifico.
Protagonista è un ragazzino di tredici anni Theo (Theodore Decker) che improvvisamente si trova orfano a seguito di un’esplosione in un museo della sua città, New York. Solo si troverà ad affrontare i sensi di colpa, le paure e il trauma, ma anche a fare nuove amicizie, una di queste proprio grazie ad un incontro fatto durante quell’esperienza drammatica; ma soprattutto si troverà ad avere un segreto che lo rende speciale.
“Come avevo potuto credermi una persona migliore, una persona più saggia, una persona più nobile e valida e degna di vivere, solo perché avevo quel segreto? Eppure lo avevo fatto. Il quadro mi aveva fatto sentire meno mortale, meno ordinario. Era stato un sostegno, una forma di rivalsa, di nutrimento e di resa dei conti. Era il pilastro che aveva tenuto in piedi la cattedrale. Ed era terribile scoprire […] che dentro di me, per tutta la mia vita adulta, ero stato sorretto da questa colossale, crudele, invisibile gioia: credere che la mia intera esistenza avesse trovato il suo equilibrio grazie a un segreto che poteva disintegrarla da un momento all’altro”.
“Ma se anche potevo guardarlo solo di rado mi piaceva pensare che fosse lì, per via della profondità e concretezza che infondeva alle cose. Era come se rinforzasse le fondamenta della mia vita, e mi rassicurava, così come si rassicurava sapere che, lontano da lì, le balene nuotavano indisturbate nelle acque del Mar Baltico e che, in remoti angoli delle Terra, schiere di monaci cantavano senza sosta per la salvezza del mondo.”
L’altro grande protagonista del libro è “Il cardellino” dipinto di Carel Fabritius (pittore fiammingo nel XVII secolo), opera reale che vive particolari avventure all’interno del romanzo.



Il romanzo è scritto in prima persona e la voce narrante (e quindi anche il punto di vista) è quella del protagonista Theo, un ragazzo dolce, curioso e molto interessato alla vita delle persone, passa il tempo a speculare su chi sono e cosa fanno. È una ricostruzione della sua vita a partire dal tragico giorno in cui tutto cambierà per sempre fino all’età adulta, una vita che non sarà semplice (fatta di solitudine, paure e la sindrome post-traumatica da stress) ma che vedrà alcune persone molto importanti restargli accanto e con amore, così come alcuni oggetti e alcune abitudini. È la trasposizione su carta della sua vita ma anche e soprattutto delle riflessioni e delle sensazioni vissute. Mi sono arrabbiata, con Theo per alcune scelte ma soprattutto con alcuni adulti e con il “sistema”, ci sono degli adulti privi di scrupoli, e davvero odiosi e altri invece davvero generosi e meritevoli. Ci sono alcuni legami di amicizia molto belli, e attraverso di questi il lettore ha modo di conoscere la storia di vita anche di altre persone grazie alle chiacchierate con Theo, che poi lui ci riporta. Ci sarebbero tantissime cose da dire ma ho visto che la quarta di copertina è molto generica (secondo me quasi riduttiva, non rende giustizia al romanzo) e io non voglio svelare nulla di più e togliere al lettore il piacere della scoperta. È un libro che va letto, è un libro parla di emozioni e che trasmette emozioni, tra queste un grande amore per l’arte, per il cinema e per la letteratura, che in fondo sono una forma d’arte; è ricco di citazioni soprattutto cinematografiche ma non mancano riferimenti e contestualizzazioni di opere letterarie e di antiquariato.

“Rise. «I grandi quadri – la gente accorre per vederli, attirano folle, sono riprodotti all’infinito sulle tazze e sui tappetini dei mouse e su qualunque cosa. E, questo riguarda anche me, puoi passare una vita intera a visitare musei con grande piacere, un bel giretto, e poi via, a pranzo da qualche parte. Ma…» tornò a sedersi al tavolo, «se un quadro ti affonda davvero nel cuore e cambia il tuo modo di vedere, e di pensare, e di provare emozioni, non pensi, ‘oh, amo questo quadro perché è universale’, ‘amo questo quadro perché parla a tutto il genere umano’. Non è questa la ragione per cui ci si innamora di un’opera d’arte. È un sospiro segreto in un vicolo. Pss, tu. Ehi ragazzino. Sì, proprio tu.» Le dita scorrevano sulla foto sbiadita – il tocco del conservatore, un tocco senza tocco, lo spazio di un’ostia tra la superficie e l’indice. «Un’intimo colpo al cuore. Il tuo sogno, il sogno di Welty, il sogno di Vermeer. Tu vedi un quadro, io ne vedo un altro, il libro d’arte lo colloca in un altro modo ancora, la signora che compra la cartolina al negozio di souvenir del museo vede qualcosa di completamente diverso, per non parlare della gente d’altri tempi – quattrocento fa, quattrocento nel futuro – non colpirà mai nessuno allo stesso modo, e la maggior parte delle persone non ne verrà affatto toccata in maniera profonda, ma – un quadro veramente grande è abbastanza fluido da farsi strada nella mente e nel cuore da ogni possibile angolazione, in modi unici e molto particolari. Sono tuo, tuo. Sono stato dipinto per te. E – oh, non so, fermami se sto farneticando…»”.

“… e alle moltissime cose a cui ho avuto modo di pensare (tipo per cosa vale la pena vivere? per cosa vale la pena morire? quali cose non sono altro che un’assurda perdita di tempo?), ho pensato molto a quello che mi ha detto Hobie: alle immagini che ti colpiscono al cuore e lo fanno sbocciare come un fiore, immagini che ti aprono a una bellezza talmente grande che puoi passare tutta la vita a cercarla senza più riuscire a trovarla”.

La narrazione è scorrevole, ricca di dialoghi. Non manca l’ironia e non manca la suspence, quasi la paura, l’incertezza per quello che può succedere anche se non si tratta di un thriller, e non mancano i colpi di scena. È ricchissimo di analisi psicologica del protagonista e dei personaggi; Theo si interroga molto, a lungo e in profondità sul senso della vita, sia la sua sia in generale. La scrittura è descrittiva, ricca, barocca ogni aspetto, ogni frase è piena, articolata e direi ridondante di aggettivi e qualificazioni per indicare e raccontare le cose, per trasmettere al lettore tutto il possibile. È questo aspetto della scrittura che mi ha conquistata. Tutta l’esperienza di Theo, come detto, viene narrata dallo stesso una volta adulto, emergono le differenze nel percepire gli avvenimenti tra ora e quand’era ragazzino, ci sono dei rimandi a cose che Theo – e il lettore con lui – scoprirà più avanti, quasi il famoso “senno di poi”.

Le città dove Theo vive e dove sono ambientate le vicende possono considerarsi delle protagoniste New York, Las Vegas e Amsterdam, ricche e dettagliate le loro descrizioni, ma tra loro la vera star è New York nel libro si sentono i rumori e gli odori di questa grande metropoli, e se ne scoprono tante facce, leggere è un po’ come passeggiare tra le sue vie.
“Presto, lo sapevo, il cielo nero della notte avrebbe virato al blu scuro e il primo tenue bagliore della fredda alba d’aprile sarebbe entrato di soppiatto nella stanza. Giù in strada i camion della spazzatura avrebbero cominciato a ruggire, gli uccellini nel parco avrebbero attaccato a cantare; e infine le sveglio nelle camere da letto di tutta New York si sarebbero messe a suonare. Ragazzi abbarbicati sul retro dei furgoni avrebbero lanciato pesanti pacchi di ‘New York Times’ e ‘Daily News’ sui marciapiedi vicino alle edicole. Mamme e papà di tutta la città avrebbero ciabattato per casa in pigiama e accappatoio, i capelli in disordine; messo su il caffè, inserito la spina nel tostapane e poi svegliato i ragazzi, avanti che è ora.”

“Scesi a Washington Square e vagai per trequarti d’ora in cerca dell’edificio. Perdersi nello schema inaffidabile del Village (isolati triangolari, strade senza uscita che svoltavano ad angolazioni assurde) non era difficile, e per tre volte fui costretto a fermarmi per chiedere indicazioni: da un giornalaio che vendeva pipe per l’erba e riviste gay, in una panetteria affollata con della musica lirica sparata a tutto volume, a una ragazza in canottiera e salopette bianche armata di vecchio secchio e lavavetri che si dava da fare sulla vetrina di una libreria”.

E proprio la città di New York è il motivo per cui ho letto ora questo libro: la challenge #scrittoinamerica che per il mese di maggio prevede di leggere un libro ambientato nella “Grande Mela”.
Ho scoperto una scrittrice esplosiva, catalizzante, anche misteriosa, come dico sempre voglio leggere altro di suo e questa volta non sarà difficile (se mi impegno) leggere tutta la sua bibliografia poiché la Tartt è una scrittrice poco prolifica, ad oggi ha pubblicato solo tre romanzi (di cui uno l’ho già letto). 
Questo libro soggiornava da un paio di annetti nella mia libreria, comprato d’impulso senza saperne assolutamente nulla: dovevo concludere un ordine su Libraccio, e su Instagram sentii qualcuno dire che era molto meritevole, l’ho trovato tra i remainders (i libri nuovi scontati a metà prezzo) e l’ho preso, come detto non ne sapevo nulla e pensavo che fosse “vecchio” (dato che era superscontato) invece è stato pubblicato nel 2013 con un’ambientazione recente indicativamente dopo il 2000. Inoltre nel 2014 ha vinto il premio Pulitzer (che mi sta dando grandi soddisfazioni, finora i libri vincitori che ho letto mi sono piaciuti moltissimo).

Non posso far altro che consigliarlo a tutti. 

Lo avete letto? Aspetto di sapere quali personaggi avete preferito e quali odiato? (Almeno uno per categoria) O siete intimoriti dalla mole?















venerdì 10 aprile 2020

FURORE - JOHN STEINBECK

TITOLO: Furore
AUTORE: John Steinbeck - traduzione di Sergio Claudio Perroni
EDITORE: Bompiani
PAGINE: 633
PREZZO: € 14
GENERE: letteratura americana
LUOGHI VISITATI:Stati Uniti

acquistabile su amazon: qui (link in bio)




Viaggio epico, milioni di persone che si spostano verso ovest, una nuova corsa verso il west questa volta alla ricerca di un lavoro. Cosa vogliono questi emigranti? Un lavoro onesto, come raccoglitori di frutta e altre colture, metter da parte qualche soldo e poi, magari, comprarsi un piccolo appezzamento proprio, dove spaccarsi la schiena tutto l’anno per coltivare ciò che serve per vivere e far mangiare la famiglia.
Queste persone scappano da molti stati centrali, dove a causa della depressione e di alcune pessime annate si trovano ad essere prima mezzadri e poi buttati fuori dalle loro terre ormai in mano a banche e altre società interessate al profitto e che fanno agricoltura coi trattori e le macchine perché costano meno e rendono molto di più.

“…Gli uomini accoccolati alzavano gli occhi, allarmati. Ma cosa sarà di noi? Come faremo a mangiare? Dovrete lasciare la terra. Gli aratri verranno a spianare la vostra aia.
A quel punto gli uomini accoccolati si alzavano in piedi, furibondi. Mio nonno ha preso questa terra e ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli via. E mio padre è nato qui, e ha liberato questa terra dalla gramigna e dai serpenti. Poi c’è stata una brutta annata e ha dovuto farsi prestare un po’ di soldi. E noi siamo nati qui. Lì, sulla soglia: quelli sono i nostri figli, nati qui. E mio padre ha dovuto farsi prestare altri soldi. Già allora la terra era della banca, ma ci hanno permesso di restare qui e di tenere un po’ di quello che coltivavamo.
Lo sappiamo… sappiamo tutto. Non siamo noi, è la banca. Una banca non è come un uomo. E manco uno che possiede cinquantamila acri è come un uomo. È questo il mostro.
Già gridavano i mezzadri, ma questa terra è nostra. L’abbiamo misurata e l’abbiamo dissodata. Su questa terra siamo nati, su questa terra ci siamo fatti uccidere, su questa terra siamo morti. Anche se non serve più a niente è ancora nostra. Ecco cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci. È questo a darcene il possesso non un pezzo di carta con sopra dei numeri.
Ci dispiace. Non siamo noi. È il mostro. Una banca non è come un uomo.
Sì, ma la banca è fatta di uomini.
No, qui vi sbagliate… vi sbagliate di grosso. La banca è qualcosa di diverso dagli uomini. Tant’è vero che ogni uomo che lavora per una banca odia profondamente quello che la banca fa, e tuttavia la banca lo fa ugualmente. Credetemi, la banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla.
I mezzadri urlavano: mio nonno ha ucciso gli indiani, mio padre ha ucciso i serpenti per questa terra. Forse potremmo uccidere le banche: sono peggio degli indiani e dei serpenti. Forse dobbiamo combattere per tenerci la terra, come hanno fatto mio padre e mio nonno.
E a quel punto erano i delegati a infuriarsi. Dovete andarvene.
Ma è nostra, urlavano i mezzadri. Abbiamo…
No. La terra è della banca, del mostro. Dovete andarvene.
Piglieremo i fucili, come Nonno quando arrivarono gli indiani. E allora?
Allora… prima lo sceriffo, poi l’esercito. Sarete ladri se tenterete di restare, e sarete assassini se ucciderete per restare. Il mostro non è fatto di uomini ma fa fare gli uomini quello che vuole.”


Vanno tutti a ovest in California perché consigliato loro da chi li butta fuori, e perché girano dei volantini in cui si dice che si cercano lavoratori e le paghe sono ottime. Allora si vende a prezzo stracciati quel poco che si ha, si carica l’indispensabile e la famiglia su mezzi di fortuna (auto e camion) e si parte sulla Route 66 alla volta della California.
Il sistema agricolo californiano è molto avanzato, chimici e studiosi e macchine hanno reso ancor più feconda la terra, ma è anche monopolizzato da pochi grandi, interessati esclusivamente ai profitti, sono senza scrupoli e disposti a giocare sporco falsando il mercato e lasciando marcire la frutta.
E poi c’è il problema dei “rossi”, dei “semina zizzania”, ma chi sono i rossi? Be’ chi vuole per sé (e magari anche per gli altri, perché se sei da solo non vali niente ma se si è in tanti a chiedere la stessa cosa e a coalizzarti magari qualcosina si ottiene) una paga equa, sufficiente a sfamare la propria famiglia, che sta morendo di fame. Non ci sono diritti per i lavoratori. Ma quel che è peggio è che la gente del luogo ha paura e si arma - fomentata dai grandi proprietari terrieri e industriali – e se la prende con i nuovi venuti i cosiddetti “Okie” brucia gli accampamenti e non esita ad uccidere, e la polizia fa lo stesso. Emerge tutta l’incapacità statale di fronteggiare la crisi economica ed emerge lo spettro della paura che il comunismo pota diffondersi anche in America (comunismo identificato nella richiesta di tutela per i lavoratori come una paga minima sufficiente a vivere).

La struttura della narrazione è particolare si alternano dei brevi capitoli che spiegano la situazione generale con i capitoli di narrazione della storia della famiglia Joad.
I capitoli generali sono senza un protagonista particolare o ricorrente: in questi Steinbeck descrive e racconta i vari aspetti della vicenda ad esempio c’è quello sull’area di servizio sulla statale 66, c’è quello sul venditore d’auto usate (con tutti i trucchi e gli stratagemmi per fregare i disperati alla ricerca di un mezzo per andare a ovest) quello sugli acquirenti dei disperati, sulla coltivazione in California, su come gli americani si sono impossessati di questo stato.
Poi ci sono i capitoli di narrazione: in cui seguiamo le vicende della famiglia Joad, che è il prototipo, qui viene ricostruita la realtà del tempo e di questa classe sociale scoprendone vita e pensieri, ricostruiti soprattutto attraverso i dialoghi dove il linguaggio è sgrammaticato anche per renderlo realistico. Devo ammettere che inizialmente ho avuto difficoltà ad entrare in empatia coi Joad (Pa’, Ma’, i figli Noah, Tom, Rose of Sharon e suo marito Connie, Al, Ruthie e Windfield e poi ci sono Nonno e Nonna e zio John), ma poi mi ha conquistato e ho apprezzato la saggezza e la risolutezza di Ma’.

“«Macché finita,» disse Ma’ con un sorriso. «Non è finita per niente, Pa’. E c’è un’altra cosa che sanno le donne. Me ne sono accorta. Per l’uomo la vita è fatta di salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, per l’uomo è un salto; se ti compri la terra e ti perdi la terra, per l’uomo è un salto. Per la donna invece è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, ogni tanto c’è una secca, ma l’acqua continua a scorrere, va sempre dritta per la sua strada. Per la donna è così ch’è fatta la vita. La gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume: magari cambia un po’, ma non finisce mai»”.

Amo Steinbeck e il suo coraggio, un libro che vuole dare voce a chi non ce l’ha, narra fatti nel momento stesso in cui stavano accadendo, ha avuto grande coraggio. Il libro è stato un grandissimo successo, che ha portato molti apprezzamenti e anche molte critiche, anche se Steinbeck non ha mai voluto esprimere un pensiero politico. Furore è considerato il capolavoro dello scrittore americano - che ha vinto il Nobel nel ’62 - e questo romanzo è stato vincitore di numerosi premi. Penso di avvicinarmi al vero se dico che l’elemento centrale della narrazione di Steinbeck è l’uomo con particolare attenzione alle classi più “disagiate” e sfortunate, una narrativa diretta a dare voce ai più deboli, almeno per quanto ho letto finora: Uomini e topi, Furore e La Perla; proprio quest’ultimo voglio rileggerlo perché forse finalmente riuscirò ad apprezzarlo (lo lessi la prima volta alle medie e l’ho odiato; l’ho riletto dopo aver aperto di il blog quando scoprii che era di Steinbeck lo stesso scrittore di cui volevo ardentemente leggere “Uomini e topi”, ma penso sia giunto il momento di darli una chance ulteriore, non perché debba piacermi a tutti i costi ma semplicemente perché ora ho capito cosa vuole raccontare).
Il titolo originale in lingua originale è “The Grapes of Wrath” letteralmente i grappoli d’ira, tratto da un passo dell’apocalisse. Titolo che in italiano è stato “tradotto” in Furore concetto espresso anche all’interno della narrazione dallo scrittore stesso:

“Un delitto così abietto che trascende la comprensione. Una piaga che nessun pianto potrebbe descrivere. Un fallimento che annienta ogni nostro successo. La terra è feconda, i filari sono ordinati, i tronchi sono robusti, la frutta è matura. E i bambini affetti da pellagra devono morire di fame perché da un’arancia non si riesce a cavare profitto. E i coroner devono scrivere sui certificati “morto per denutrizione” perché il cibo deve marcire, va costretto a marcire.
Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di kerosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli dei maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.”


Mi sono finalmente decisa a leggere questo libro grazie al progetto #scrittoinamerica che per il mese di aprile prevede il tema del viaggio.

Aspetto vostri pareri su Steinbeck.