TITOLO: Furore
AUTORE: John Steinbeck - traduzione di Sergio Claudio Perroni
EDITORE: Bompiani
PAGINE: 633
PREZZO: € 14
GENERE: letteratura americana
LUOGHI VISITATI:Stati Uniti
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Viaggio epico, milioni di persone che si spostano verso
ovest, una nuova corsa verso il west questa volta alla ricerca di un lavoro.
Cosa vogliono questi emigranti? Un lavoro onesto, come raccoglitori di frutta e
altre colture, metter da parte qualche soldo e poi, magari, comprarsi un
piccolo appezzamento proprio, dove spaccarsi la schiena tutto l’anno per
coltivare ciò che serve per vivere e far mangiare la famiglia.
Queste persone scappano da molti stati centrali, dove a
causa della depressione e di alcune pessime annate si trovano ad essere prima
mezzadri e poi buttati fuori dalle loro terre ormai in mano a banche e altre
società interessate al profitto e che fanno agricoltura coi trattori e le
macchine perché costano meno e rendono molto di più.
“…Gli uomini accoccolati alzavano gli occhi, allarmati. Ma cosa sarà di
noi? Come faremo a mangiare? Dovrete lasciare la terra. Gli aratri verranno a
spianare la vostra aia.
A quel punto gli uomini accoccolati si alzavano in piedi, furibondi.
Mio nonno ha preso questa terra e ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli
via. E mio padre è nato qui, e ha liberato questa terra dalla gramigna e dai
serpenti. Poi c’è stata una brutta annata e ha dovuto farsi prestare un po’ di
soldi. E noi siamo nati qui. Lì, sulla soglia: quelli sono i nostri figli, nati
qui. E mio padre ha dovuto farsi prestare altri soldi. Già allora la terra era
della banca, ma ci hanno permesso di restare qui e di tenere un po’ di quello
che coltivavamo.
Lo sappiamo… sappiamo tutto. Non siamo noi, è la banca. Una banca non è
come un uomo. E manco uno che possiede cinquantamila acri è come un uomo. È
questo il mostro.
Già gridavano i mezzadri, ma questa terra è nostra. L’abbiamo misurata
e l’abbiamo dissodata. Su questa terra siamo nati, su questa terra ci siamo
fatti uccidere, su questa terra siamo morti. Anche se non serve più a niente è
ancora nostra. Ecco cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci. È
questo a darcene il possesso non un pezzo di carta con sopra dei numeri.
Ci dispiace. Non siamo noi. È il mostro. Una banca non è come un uomo.
Sì, ma la banca è fatta di uomini.
No, qui vi sbagliate… vi sbagliate di grosso. La banca è qualcosa di
diverso dagli uomini. Tant’è vero che ogni uomo che lavora per una banca odia
profondamente quello che la banca fa, e tuttavia la banca lo fa ugualmente.
Credetemi, la banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma
non possono controllarla.
I mezzadri urlavano: mio nonno ha ucciso gli indiani, mio padre ha
ucciso i serpenti per questa terra. Forse potremmo uccidere le banche: sono
peggio degli indiani e dei serpenti. Forse dobbiamo combattere per tenerci la
terra, come hanno fatto mio padre e mio nonno.
E a quel punto erano i delegati a infuriarsi. Dovete andarvene.
Ma è nostra, urlavano i mezzadri. Abbiamo…
No. La terra è della banca, del mostro. Dovete andarvene.
Piglieremo i fucili, come Nonno quando arrivarono gli indiani. E
allora?
Allora… prima lo sceriffo, poi l’esercito. Sarete ladri se tenterete di
restare, e sarete assassini se ucciderete per restare. Il mostro non è fatto di
uomini ma fa fare gli uomini quello che vuole.”
Vanno tutti a ovest in California perché consigliato loro da
chi li butta fuori, e perché girano dei volantini in cui si dice che si cercano
lavoratori e le paghe sono ottime. Allora si vende a prezzo stracciati quel
poco che si ha, si carica l’indispensabile e la famiglia su mezzi di fortuna
(auto e camion) e si parte sulla Route 66 alla volta della California.
Il sistema agricolo californiano è molto avanzato, chimici e
studiosi e macchine hanno reso ancor più feconda la terra, ma è anche
monopolizzato da pochi grandi, interessati esclusivamente ai profitti, sono
senza scrupoli e disposti a giocare sporco falsando il mercato e lasciando
marcire la frutta.
E poi c’è il problema dei “rossi”, dei “semina zizzania”, ma
chi sono i rossi? Be’ chi vuole per sé (e magari anche per gli altri, perché se
sei da solo non vali niente ma se si è in tanti a chiedere la stessa cosa e a
coalizzarti magari qualcosina si ottiene) una paga equa, sufficiente a sfamare
la propria famiglia, che sta morendo di fame. Non ci sono diritti per i
lavoratori. Ma quel che è peggio è che la gente del luogo ha paura e si arma -
fomentata dai grandi proprietari terrieri e industriali – e se la prende con i
nuovi venuti i cosiddetti “Okie” brucia gli accampamenti e non esita ad uccidere,
e la polizia fa lo stesso. Emerge tutta l’incapacità statale di fronteggiare la
crisi economica ed emerge lo spettro della paura che il comunismo pota
diffondersi anche in America (comunismo identificato nella richiesta di tutela
per i lavoratori come una paga minima sufficiente a vivere).
La struttura della narrazione è particolare si alternano dei
brevi capitoli che spiegano la situazione generale con i capitoli di narrazione
della storia della famiglia Joad.
I capitoli generali sono senza un protagonista particolare o
ricorrente: in questi Steinbeck descrive e racconta i vari aspetti della
vicenda ad esempio c’è quello sull’area di servizio sulla statale 66, c’è
quello sul venditore d’auto usate (con tutti i trucchi e gli stratagemmi per
fregare i disperati alla ricerca di un mezzo per andare a ovest) quello sugli
acquirenti dei disperati, sulla coltivazione in California, su come gli
americani si sono impossessati di questo stato.
Poi ci sono i capitoli di narrazione: in cui seguiamo le
vicende della famiglia Joad, che è il prototipo, qui viene ricostruita la
realtà del tempo e di questa classe sociale scoprendone vita e pensieri,
ricostruiti soprattutto attraverso i dialoghi dove il linguaggio è
sgrammaticato anche per renderlo realistico. Devo ammettere che inizialmente ho
avuto difficoltà ad entrare in empatia coi Joad (Pa’, Ma’, i figli Noah, Tom,
Rose of Sharon e suo marito Connie, Al, Ruthie e Windfield e poi ci sono Nonno
e Nonna e zio John), ma poi mi ha conquistato e ho apprezzato la saggezza e la
risolutezza di Ma’.
“«Macché finita,» disse Ma’ con un sorriso. «Non è finita
per niente, Pa’. E c’è un’altra cosa che sanno le donne. Me ne sono accorta.
Per l’uomo la vita è fatta di salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, per
l’uomo è un salto; se ti compri la terra e ti perdi la terra, per l’uomo è un
salto. Per la donna invece è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un
mulinello, ogni tanto c’è una secca, ma l’acqua continua a scorrere, va sempre
dritta per la sua strada. Per la donna è così ch’è fatta la vita. La gente non
muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume: magari cambia un po’,
ma non finisce mai»”.
Amo Steinbeck e il suo coraggio, un libro che vuole dare
voce a chi non ce l’ha, narra fatti nel momento stesso in cui stavano
accadendo, ha avuto grande coraggio. Il libro è stato un grandissimo successo,
che ha portato molti apprezzamenti e anche molte critiche, anche se Steinbeck
non ha mai voluto esprimere un pensiero politico. Furore è considerato il
capolavoro dello scrittore americano - che ha vinto il Nobel nel ’62 - e questo
romanzo è stato vincitore di numerosi premi. Penso di avvicinarmi al vero se
dico che l’elemento centrale della narrazione di Steinbeck è l’uomo con
particolare attenzione alle classi più “disagiate” e sfortunate, una narrativa
diretta a dare voce ai più deboli, almeno per quanto ho letto finora: Uomini e
topi, Furore e La Perla; proprio quest’ultimo voglio rileggerlo perché forse
finalmente riuscirò ad apprezzarlo (lo lessi la prima volta alle medie e l’ho
odiato; l’ho riletto dopo aver aperto di il blog quando scoprii che era di
Steinbeck lo stesso scrittore di cui volevo ardentemente leggere “Uomini e topi”,
ma penso sia giunto il momento di darli una chance ulteriore, non perché debba
piacermi a tutti i costi ma semplicemente perché ora ho capito cosa vuole raccontare).
Il titolo originale in lingua originale è “The Grapes of
Wrath” letteralmente i grappoli d’ira, tratto da un passo dell’apocalisse.
Titolo che in italiano è stato “tradotto” in Furore concetto espresso anche all’interno
della narrazione dallo scrittore stesso:
“Un delitto così abietto che trascende la comprensione. Una piaga che
nessun pianto potrebbe descrivere. Un fallimento che annienta ogni nostro
successo. La terra è feconda, i filari sono ordinati, i tronchi sono robusti,
la frutta è matura. E i bambini affetti da pellagra devono morire di fame perché
da un’arancia non si riesce a cavare profitto. E i coroner devono scrivere sui
certificati “morto per denutrizione” perché il cibo deve marcire, va costretto
a marcire.
Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate
nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci
sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di kerosene.
Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad
ascoltare gli strilli dei maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva,
a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e
nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore
sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.”
Mi sono finalmente decisa a leggere questo libro grazie al progetto
#scrittoinamerica che per il mese di aprile prevede il tema del viaggio.
Aspetto vostri pareri su Steinbeck.