lunedì 2 novembre 2020

INÉS DELL'ANIMA MIA DI ISABEL ALLENDE

TITOLO: Inés dell'anima mia
AUTORE: Isabel Allende - traduzione di Elena Liverani
EDITORE: Feltrinelli (Universale Economica)
PAGINE: 326
PREZZO: € 10,00
GENERE: romanzo storico, letteratura cilena
LUOGHI VISITATI:Spagna, Nuovo Mondo, Cile negli anni dal 1500 al 1553

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Un bellissimo romanzo storico incentrato su una figura cardine per la conquista del Cile: Inés Suàrez.

Inés Suàrez è una donna forte, combattiva, passionale, un bel personaggio. Ma non è solo un personaggio letterario è una donna realmente esistita e Isabel Allende si è limitata a romanzare la storia della sua vita colmando alcune lacune ma rimanendo il più possibile fedele alla realtà storica.

Inés nasce in Spagna e si reca nelle Americhe alla ricerca del marito, Juan de Malaga, che era partito per il Nuovo Mondo in cerca di fortuna abbadandola, ma Inés non parte alla ricerca di un uomo ma di una vita diversa e migliore, è alla ricerca della libertà.

“A differenza di Juan, non credevo all’esistenza di una città d’oro, dalle acque incantate che donavano l’eterna giovinezza, o di amazzoni che se la spassavano con gli uomini per poi congedarli carichi di gioielli, ma sospettavo che là ci fosse qualcosa di ancor più prezioso: la libertà. Nel Nuovo Mondo ognuno era padrone di se stesso, non ci si doveva chinare davanti a nessuno, si poteva commettere errori e cominciare di nuovo, essere una persona diversa, vivere un’altra vita.”

La nostra Inés ha manifestato da sempre il desiderio di una vita diversa da quella che la Spagna e il suo ruolo di donna potevano offrirle in patria; è un abile ricamatrice, sa cucinare ma soprattutto è una bravissima infermiera, sa prendersi cura di feriti e malati; e tutte queste doti saranno essenziali nella vita nel Nuovo Mondo e nel viaggio verso il Cile e nella nuova colonia.

“Ho vissuto più di quarant’anni nel Nuovo Mondo e ancora non mi sono abituata al disordine, benché io stessa ne abbia beneficiato, dato che, se fossi rimasta nel mio paesino d’origine, oggi sarei un’anziana qualsiasi, povera e cieca per il tanto cucire pizzi alla luce di una lanterna. Là sarei Inés, la sarta della strada dell’acquedotto. Qui sono doña Inés Suàrez, signora tra le più influenti, vedova dell’eccellentissimo governatore don Rodrigo de Quiroga, conquistatrice e fondatrice del Regno del Cile.”

Nel Nuovo Mondo scopre di essere diventata vedova, partecipa alla conquista del Cile al fianco del suo nuovo amore Pedro de Valdivia, l’hidalgo (già luogotenente di Pizarro in Perù) e condottiero che riuscirà a conquistare il Cile e ne diventerà il primo governatore. Con la spedizione di Valdivia e Inés Suàrez viene fondata la città di Santiago, ma le avventure sono solo all’inizio perché sarà necessario difendere questa città e le altre che pian piano vengono fondate.

“Durante i mesi successivi, la città germogliò come per miracolo. Verso la fine dell’estate erano sorte già parecchie case di bell’aspetto, avevano piantato filari d’alberi per avere ombra e uccelli nelle strade, la gente stava raccogliendo le prime verdure dagli orti, gli animali sembravano sani e avevamo immagazzinato provviste per l’inverno. Tale prosperità irritava gli indios della valle, che si rendevano perfettamente conto che non eravamo lì di passaggio. Supponevano, e a ragione, che sarebbero arrivati altri huincas a sottrarre loro la terra e a trasformarli in schiavi. Mentre noi ci adoperavamo per stabilirci, loro si preparavano a cacciarci. Si mantenevano invisibili, ma iniziammo a sentire il lugubre richiamo della trutruca e dei pilloi, flauti ricavati dalle ossa delle gambe dei nemici uccisi.”

Doña Inés Suàrez è conosciuta soprattutto per il ruolo cruciale ricoperto nella difesa della città di Santiago da un attacco dei Mapuche.

Come dicevo si tratta di romanzo storico ed è ricco di personaggi storici, avvenimenti e soprattutto di Storia del Nuovo Mondo, che io conosco poco. Si parla dell’arrivo di Pizarro, della scelta di Valdivia di intraprendere l’esplorazione e la conquista del Cile, la difesa dello stesso dagli attacchi della popolazione Mapuche; non mancano le descrizioni della vita quotidiana nel Nuovo Mondo e nemmeno la parte più personale/intima della vita di Inés e dei suoi amori (in fondo è lei la protagonista del romanzo).

 Molto interessanti sono i brevi approfondimenti sulla cultura indios e sulla città di Cuzco come deve averla vista Inés Suàrez al suo arrivo in Perù.

“Non ho mai visto niente di simile alla magnifica città di Cuzco, ombelico dell’impero inca, città sacra dove gli uomini possono parlare con la divinità. Forse Madrid, Roma, o qualche città araba, che hanno fama di essere splendide, possono essere paragonate a Cuzco, ma io non le ho mai viste. Nonostante i danneggiamenti e in vandalismi subiti durante la guerra, era un gioiello bianco e rispendente sotto il cielo color porpora. Mi si bloccò il respiro e per diversi giorni mi sentii soffocare, non per l’altitudine o l’aria rarefatta, di cui mi avevano avvertito, ma per l’imponente bellezza dei suoi templi, delle fortezze e degli edifici. Si dice che all’arrivo dei primi spagnoli ci fossero palazzi rivestiti d’oro, anche se ora le mura erano nude. A nord della città si erge una costruzione spettacolare, Sacsayhuamán, la fortezza sacra con i suoi tre ordini di cinta murarie a zigzag, il Tempio del Sole, il suo labirinto di strade, torrioni, marciapiedi, scale, terrazzi, cantine e stanze dove vivevano nell’agio cinquanta o sessantamila persone. Il nome significa ‘falco soddisfatto’ e, come un falco, vigila su Cuzco. Venne costruita con monumentali blocchi di pietra tagliati e assemblati senza malta e con una tale precisione che tra le giunture non entrerebbe neanche una daga sottile. Come fecero a fendere quelle enormi pietre senza strumenti di metallo? Come le trasportarono, da molte leghe di distanza, senza ruote né cavalli? E mi domandavo inoltre come una manciata di soldati spagnoli fosse riuscita a conquistare in così poco tempo un impero in grado di essere una tale meraviglia. Per quanto avessero fomentato le dispute tra gli inca e potessero contare su migliaia di yanaconas, pronti a servirli e a battersi per loro, quell’impresa eroica, ancora oggi, mi sembra inspiegabile. ‘Abbiamo Dio dalla nostra parte, oltre che la polvere da sparo e il ferro’ dicevano gli spagnoli, grati ai nativi di difendersi con armi di pietra. ‘Quando ci videro arrivare dal mare in grandi case provviste di ali, credettero che fossimo divinità’ aggiungevano, ma penso che fossero stati loro a diffondere tale versione alla quale gli indios, e persino loro stessi, finirono col credere.”

“Da dove venivano questi Mapuche? Si dice che assomiglino a certi popoli asiatici. Se davvero provengono da lì, non riesco a spiegarmi come abbiano potuto attraversare mari così tempestosi e terre tanto estese per giungere fino a qui. Sono selvaggi, non conoscono né l’arte né la scrittura, non costruiscono né città né templi, non hanno caste, classi né sacerdoti, ma solo capitani di guerra, i loro toquis. Si muovano da un luogo all’altro, liberi e nudi, con le numerose mogli e i figli, che combattono insieme a loro nelle battaglie. Non compiono sacrifici umani e non adorano idoli. Credono in un unico dio, che non è il nostro Dio, che loro chiamano Ngenechén.”

 

Sempre parlando di personaggi una menzione la merita, secondo me, il cronista Daniel Belalcázar incontrato durante la traversata dell’Oceano - non sono riuscita a capire se è realmente esistito o meno – ma il ruolo che svolge nel romanzo è interessante: la voce fuori dal coro che mostra la realtà per quello che è, senza essere soggiogato da pensiero dominante. 

“Questo Belalcázar era un uomo di poca fede, ma molto divertente. Di pomeriggio ci dilettava con i racconti dei suoi viaggi e di ciò che avremmo visto nel Nuovo Mondo. «Di certo non ciclopi, giganti e nemmeno uomini con quattro braccia e teste di cani, ma sicuramente incontrerete esseri primitivi e malvagi, soprattutto fra gli spagnoli’ asseriva scherzando. Ci assicurò che gli abitanti del Nuovo Mondo non erano tutti selvaggi: aztechi, maya e inca erano più raffinati di noi, quanto meno si facevano il bagno e non andavano in giro coperti di pidocchi».
«Avidità, solo avidità»
 aggiunge. «Il giorno in cui noi spagnoli abbiamo messo piede sul suolo del Nuovo Mondo abbiamo segnato la fine di quelle culture. All’inizio ci accolsero bene. La loro curiosità superò la prudenza. Non appena si resero conto che agli strani barbuti spuntati dal mare piaceva l’oro, quel metallo morbido e inutile che loro possedevano in abbondanza, glielo regalarono a piene mani. Tuttavia, ben presto, il nostro insaziabile appetito e brutale orgoglio risultarono offensivi. E ci mancherebbe altro! I nostri soldati abusano delle loro donne, entrano nelle loro case e sottraggono senza chiedere permesso quel che gli pare e il primo che osi frapporsi lo mandano all’altro mondo con una sciabolata. Proclamano che la terra in cui sono appena arrivati appartiene a un sovrano che vive dall’altra parte del mare e pretendono che i nativi adorino due bastoni a forma di croce».
«Speriamo che non la sentano parlare così, signor Belalcázar! La accuseranno presso l’imperatore di essere un traditore e un eretico» lo ammonii.
«Non faccio altro che dire la verità. Lo constaterà anche lei, signora, che i conquistadores sono senza ritegno: arrivano come mendicanti, si comportano da ladri e si credono dei signori. »”

 

Il romanzo è strutturato sotto forma di memorie che la stessa Inés Suàrez scrive per lasciare traccia e testimonianza della sua esistenza. Spesso durante la scrittura si rivolge direttamente alla figlia (cui le memorie sono destinate) oppure ad un ipotetico lettore. Anticipa spesso gli avvenimenti per poi proseguire cronologicamente e riprenderli.

La narrazione è lenta, ricca quasi ridondante - caratteristica che ho sentito essere propria dei libri della Allende, scrittrice prolissa e divagatrice – accompagnata però da una scrittura spesso ironica e pungente; così se ci sono alcune parti un pochino più lente e stagnati (soprattutto all’inizio) si compensano bene e nel complesso l’ho trovato coinvolgente, è una storia ricca di avventure dove c’è il desiderio di vedere come prosegue.

Se proprio vogliamo trovare una pecca, ne ho due. La prima è una considerazione circa l’eccessiva sessualità nel senso che talvolta Inés descrive anche minuziosamente scene di sesso con i suoi amanti il che non è un problema in se e per se ma mi sembra stonare con la finzione letteraria per cui si tratta delle memorie che scrive per la figlia anche se la stessa Inés a un certo punto spiega la scelta come diretta a insegnare/istruire la figlia nell’ottica di migliorarle la vita ed eventualmente il matrimonio come una sorta di sapienza e di esperienza che si possono diffondere positivamente tra le donne per il loro maggior benessere e appagamento e migliorare la loro vita sessuale ma anche generale.

Ciò che mi ha un pochino deluso è la conclusione che è un po’ “veloce” e frettolosa, sbrigativa soprattutto se paragonata all’inizio molto più lento e pieno di digressioni sul giovane Valdivia e sul suo amico Aguirre durante le campagne al servizio dell’imperatore Carlo V in giro per l’Europa. Il romanzo si chiude fondamentalmente con la ricostruzione della morte del primo governatore del Cile Valdivia; anche se della vita successiva di Inés Suàrez viene dato conto durante tutto il romanzo attraverso quei meccanismi di anticipazione della narrazione di cui ho detto prima.

C’è anche una nota positiva: il libro è corredato da splendide illustrazioni nonostante si tratti di un libro in edizione economica (perché stiamo fa parte dalla collana Universale Economica Feltrinelli) con un prezzo basso. Le illustrazioni sono tratte dall’edizione de “La Araucana” di Alonso de Ercilla del 1852.

Ho letto questo romanzo per il progetto #unannoconlastoria e sono molto contenta sia per le possibilità di approfondire il Nuovo Mondo sia per aver conosciuto una scrittrice molto famosa di cui io ancora non avevo letto nulla, ma rimedierò. Avete consigli in proposito?

sabato 31 ottobre 2020

GLI INCUBI DI BALTIMORA di EDGAR ALLAN POE

TITOLO: Gli incubi di Baltimora
AUTORE: Edgar Allan Poe (traduzione adattata da quelle di Rodolfo Arbib e Baccio Emanule Maineri)
EDITORE: Alter Ego Edizioni collana Gli Eletti
PAGINE: 107
PREZZO: € 3,90
GENERE: letteratura gotica e dell'orrore - letteratura americana
LUOGHI VISITATI:indefiniti

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Quest’anno ho deciso di fare una lettura “a tema” per prepararmi alla notte più spaventosa dell’anno. La mia scelta è ricaduta su “Gli incubi di Baltimora” un libricino edito AlterEgo Edizioni che raccoglie cinque racconti di Edgar Allan Poe - colui che ha inventato tutto dato che è considerato il padre della letteratura dell’orrore, del giallo psicologico e del racconto poliziesco. 

È stato il mio primo approccio a Poe ma anche al genere horror.

Come dicevo in questo libretto sono contenuti cinque racconti: Il crollo della casa degli Usher, Il cuore rivelatore, Il pozzo e il pendolo, Hop-Frog, Berenice.

Di ambientazione incerta, per alcuni è possibile la vecchia Europa per la presenza di corti, di re e di castelli. Ad eccezione di Hop-frog i racconti sono tutti narrati in prima persona.

Assolutamente gotici, inquietanti e horror, pieni di mistero, apparizioni, visioni, spettri. Non è ben chiaro se siano eventi “reali” oppure frutto delle fantasie del protagonista, una sorta di scherzo della mente (e delle sue ansie e disturbi) che gli fa credere di vedere o sentire, quasi sognare ad occhi aperti senza essere in grado di discernere tra realtà e fantasia. C’è un’approfondita analisi psicologica dell’io voce narrante. Le informazioni che Poe fornisce al lettore sono minime se non scarse, solo quanto strettamente indispensabile ai fini della narrazione, narrazione che è incentrata sull’analisi psicologica e sul creare tensione e orrore.

Il linguaggio è aulico, ricercato e forbito, va ricordato che sono stati scritti nella prima metà dell’800 e anche la traduzione è “d’epoca” perché in quest’edizione si tratta di un adattamento di quella fatta a fine Ottocento.

La selezione di racconti presente in questa raccolta è piuttosto varia perché i racconti raccolti sono espressione delle varie tematiche o meglio delle diverse impostazioni con cui Poe ricostruisce e genera smarrimento/ansia/terrore ed orrore nel lettore.

Il mio preferito è Hop-Frog un racconto brevissimo, prevedibile anche, sadico più che horror. Mi sono piaciuti molto anche Il pozzo e il pendolo (ambientato ai tempi dell’Inquisizione a Toledo, un protagonista ingegnoso e fortunato) e Il cuore rivelatore (che narra dell’assassinio di un vecchio da parte dello stesso omicida). Invece La caduta della casa degli Usher e Berenice mi sono piaciuti meno forse anche perché più lunghi e più ricchi di elementi sovrannaturali e di contesto nel senso di approfondimento della psiche del protagonista pur rimanendo tutto molto indefinito.

Poe è stato un autore prolifico ma soprattutto direi un personaggio eclettico e variegato e questo suo modo d’essere si è manifestato anche nelle sue opere, era appassionato di crittografia, occulto ed esoterismo. Vorrei approfondire la sua conoscenza con la lettura di un romanzo, in particolare uno di quelli che hanno per protagonista l’investigatore Dupin, poiché è considerato il padre del romanzo poliziesco, genere che rientra sicuramente nelle mie corde. Anche se mi affascina molto e non escludo di approcciarmi a qualche altra raccolta di racconti.

Aspetto vostri consigli su Poe ma anche sulle letture a tema Halloween.

 

martedì 27 ottobre 2020

UN POSTO PICCOLO di JAMAICA KINCAID

TITOLO: Un posto piccolo
AUTORE: Jamaica Kincaid traduzione di Franca Cavagnoli
EDITORE: Adelphi (collna Piccola Biblioteca)
PAGINE: 83
PREZZO: € 9,00
GENERE: saggio, letteratura caraibica
LUOGHI VISITATI:Antigua

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“Se vai ad Antigua da turista, ecco ciò che vedrai. Se arrivi in aereo, atterri all’aeroporto internazionale V.C. Bird. Vere Cornwall (V.C.) Bird è il Primo Ministro di Antigua. Magari sei il tipo di turista che si chiede come mai un Primo Ministro ha voluto che un aeroporto portasse il suo nome: perché non una scuola, perché non un ospedale, perché non un grande monumento pubblico? Sei un turista e dunque non hai ancora una scuola di Antigua, non hai ancora visto l’ospedale di Antigua, non hai ancora visto un monumento pubblico di Antigua. Mentre l’areo atterra, magari ti dici, Che bella isola, Antigua – più bella delle altre isole, e dire che erano belle, a modo loro, ma fin troppo verdi, avevano una vegetazione fin troppo rigogliosa, il che per un turista significa che deve piovere molto, e la pioggia è proprio la cosa che tu, in questo momento, non vuoi, perché pensi alle giornate faticose, fredde, lunghe e buie che hai trascorso lavorando sodo nel Nord America (o, peggio ancora, in Europa), per guadagnare il denaro che ti ha permesso di venire in questo posto (Antigua), dove splende sempre il sole e dove il clima sarà deliziosamente caldo e secco per il periodo dai quattro ai dieci giorni che trascorrerai qui; e siccome sei in vacanza, siccome sei un turista, non ti chiedi nemmeno cosa possa significare essere costretti a vivere dal mattino alla sera in un posto che soffre costantemente di siccità, e quindi stare attendi a ogni goccia d’acqua che si usa (pur essendo al tempo stesso circondati da un mare e da un oceano: il Mar dei Caraibi da una parte, e l’Oceano Atlantico dall’altra).”

Pungente!

Un lungo monologo dove Jamaica Kincaid si rivolge al turista (e lettore) e gli mostra la vera Antigua, gli racconta la sua Antigua, quella delle persone reali che ci vivono ogni giorno.

Non è il paradiso che può sembrare.

Se la prende con i turisti, con i colonizzatori inglesi, con il governo e con gli antiguani; le sue critiche non risparmiano nessuno.

Pur nella sua brevità tocca molti aspetti dal turismo, alla corruzione imperante, dalle condizioni sociosanitarie agli spechi al periodo coloniale e i suoi effetti. Inoltre non manca di approfondire alcuni aspetti sotto un punto di vista filosofico e sociologico (non riesco a definire diversamente queste parti) ad esempio:

“Non c’è da stupirsi se l’indigeno non ami il turista. Giacché ogni indigeno, ovunque viva, è un potenziale turista, e ogni turista è un indigeno di qualche luogo del mondo. Ogni indigeno, ovunque viva, conduce una vita di sconvolgente e schiacciante banalità, noia, disperazione e depressione, e ogni azione, buona o cattiva che sia, è un tentativo di dimenticarla. Ogni indigeno vorrebbe trovare una scappatoia, ogni indigeno vorrebbe un periodo di riposo, ogni indigeno vorrebbe potersi concedere un viaggio. Ma alcuni indigeni – la maggior parte degli indigeni – non possono andare da nessuna parte. Sono troppo poveri. Sono troppo poveri per poter andare da qualche parte. Sono troppo poveri per sfuggire alla realtà della loro vita; e sono troppo poveri per vivere come si deve nel posto in cui vivono, che è lo stesso posto in cui tu, il turista, vuoi andare; sicché quando gli indigeni vedono te, il turista, ti invidiano, ti invidiano la possibilità di lasciare la tua banalità e la tua noia, ti invidiano il fatto di trasformare la loro banalità e la loro noia in una fonte di piacere per te.”

Un libro per chi vuole sentire una voce diversa, una voce forte, senza peli sulla lingua che non ha paura di ricordare colpe e misfatti.

Un libro per riflettere. Riflettere e porsi domande soprattutto sugli effetti e le conseguenze della colonizzazione europea in giro per il mondo: il distruggere/annientare le altre società e tradizioni per imporre la propria cultura, la propria religione e le proprie leggi; il tentativo fallito e disastroso di omologare popoli tanto diversi e lontani al proprio modello perché reputato migliore.

La scrittura è coinvolgente, molto ripetitiva e semplice, sembra di assistere a un discorso, a una conferenza; l’autrice si rivolge direttamente al turista/lettore. I toni sono molto forti, è pieno di rabbia e risentimento, è pungente e sarcastico e come ho detto prima non risparmia nessuno. La particolarità è che non fa nomi ma ci sono solo riferimenti, anche se le persone cui si riferisce sono senz’altro facilmente riconoscibili (almeno per chi è avvezzo ai luoghi e alla geopolitica antiguana).

È un libro particolare classificabile come saggio e si può inserire nel genere della letteratura postcoloniale (io non sapevo nemmeno della sua esistenza).
È stato pubblicato per la prima volta nel 1988 quindi può essere che le cose da allora siano cambiate (e lo spero) ma non perde la sua capacità di far riflettere. Doveva essere un articolo, un reportage da pubblicare sulla rivista “The New Yorker” ma è stato rifiutato in quanto troppo “rabbioso”.
Informandomi un pochino sulla Kincaid ho scoperto che molti dei suoi testi sono (in tutto o in parte) autobiografici e che tendono a denunciare gli effetti del colonialismo che è quindi uno dei suoi temi principali. Per quel poco che ho letto Jamaica Kincaid mi sembra una donna forte, senza peli sulla lingua, mi viene da dire ‘una donna con le palle’ che dice quello che pensa e che reputo giusto, una donna che non si fa mettere i piedi in testa. Una curiosità: Jamaica Kincaid è un nome d’arte o meglio il nome di battaglia che ha assunto nel 1973 perché la sua famiglia disapprovava il suo mestiere di scrittrice.

Mi piacerebbe approfondire la sua conoscenza.

“Guardo questo posto (Antigua), guardo questa gente (gli antiguani), e non so se sono stata allevata, e pertanto provengo, da bambini, eterni innocenti, oppure da artisti che non hanno ancora trovato il modo di affermarsi in un mondo troppo stupido per comprenderli, o da pazzi furiosi che hanno creato il proprio manicomio, o da una squisita combinazione di queste tre cose.”

Voi conoscete Jamaica Kincaid? Avete letto qualche sua opera? Cosa mi consigliate?