mercoledì 7 ottobre 2020

ORME - ROBYN DAVIDSON

TITOLO: Orme
AUTORE: Robyn Davidson traduzione di Benedetta Bini
EDITORE: Feltrinelli
PAGINE: 262
PREZZO: € 9,50
GENERE: letteratura australiana, libri di viaggio, storia vera
LUOGHI VISITATI: Australia

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“Fu solo allora che comincia a capire in che razza di pasticcio mi ero andata a cacciare, solo allora mi resi conto di quanto ero stata stupida a non prevedere tutto quello che sarebbe successo. Sembra che la combinazione di una serie di elementi – donna, deserto, cammelli, solitudine – avesse colpito l’immaginazione di questa era senza passioni e senza cuore; e avesse acceso la fantasia delle persone che si vedono alienate, prive di potere, incapaci di fare qualcosa in un mondo ormai impazzito.”

Un’avventura alla ricerca di se stessi e del senso della vita.

Come dice il sottotitolo una donna, quattro cammelli e un cane attraversano il deserto australiano da Alice Spring a Hamelin Pool sull’oceano indiano. Un viaggio che è scoperta di se stessi e del proprio ruolo nel mondo; e per noi lettori anche di scoperta dell’Australia

È un memoir e leggiamo le parole, l’esperienza di Robyn Davidson che oggi scrive per il National Geographic rivista che in parte ha finanziato e accompagnato la sua impresa.

Ma la sua è stata fondamentalmente un’esperienza in solitaria. Robyn è una donna dal carattere forte, combattiva, quasi selvaggia, senz’altro molto coraggiosa.

“Ma ancora peggio, ero un essere mitico che aveva fatto qualcosa di coraggioso al di là delle possibilità che si offrivano alla gente comune. E questo era proprio agli antipodi di quello che pensavo – e cioè che chiunque può fare qualsiasi cosa. Se ero riuscita a farcela ad attraversare il deserto, beh allora chiunque poteva fare qualsiasi cosa.”

Ma chi è questa donna? Una ragazza qualsiasi, che un giorno ha quest’idea folle di attraversare il deserto con dei cammelli, senza nessuna particolare preparazione, non conosce i luoghi e in realtà nemmeno i cammelli. Infatti il reportage inizia dal sua arrivo ad Alice Springs dove rimarrà un paio d’anni lavorando sia per mettere da parte i soldi necessari al viaggio, per comprare gli animali e tutta l’attrezzatura necessaria, ma anche e soprattutto per imparare a gestire, domare e convivere con questi animali.

Fin da subito tra Robyn e i cammelli si instaura un legame unico e speciale:

“Una volta per tutte voglio sfatare qualcuna delle leggende che in genere si raccontano su questi animali. A eccezione dei cani, sono le bestie più intelligenti che io conosca: direi che hanno un quoziente di intelligenza corrispondente a quello di un bambino di otto anni. Sono affettuosi, insolenti, giocherelloni, spiritosi (sì, spiritosi), padroni di sé, pazienti, forti, e sono soprattutto fonte continua di curiosità e di fascino. Sono anche molto difficili da allevare, perché si tratta di animali dal temperamento essenzialmente poco domestico e al tempo stesso molto vivaci e furbi. È per questo che godono di una pessima reputazione. Se non vengono presi del verso giusto possono diventare recalcitranti e anche pericolosi, ma quelli di Kurt non rientravano in questa categoria: erano solo dei grossi cuccioloni curiosi. E non è nemmeno vero che puzzano, tranne quanto, per ripicca o per paura, ti sputano addosso un bolo verde e vischioso. Aggiungerei anche che sono animali molto sensibili, che si spaventano con grande facilità soprattutto per colpa di guardiani o allevatori inesperti, dai quali possono essere rovinati per sempre. Sono bestie altere, etnocentriche, convinte – lo si capisce benissimo – di essere la razza eletta: possono essere anche codardi, e quell’atteggiamento altero e aristocratico nasconde spesso un cuore sensibile e delicato. Insomma, ero stata conquistata.”

Di cosa parla? Certo parla della traversata del deserto, della vita quotidiana in un esperienza del genere, ci sono descrizioni stupende del paesaggio che la circonda, della solitudine, della pazzia ma anche della libertà che sperimenta. Ma parla molto anche di Australia, di società e cultura, di ambiente e di aborigeni.

Della società australiana analizza soprattutto la “periferia” la vita nel difficile entroterra di cui la piccola Alice Spring è un esempio, una società tendenzialmente rozza e predominata da violenza e razzismo e profondamente misogina; misoginia di cui ricostruisce la storia (ipotizzando una possibile origine) legandola a doppio filo a quella della colonizzazione europea:

“Ma per riuscire a comprendere davvero quanto siano profonde, in questo paese, le radici del culto della misoginia, bisogna andare a disseppellire per lo meno duecento anni di storia dell’Australia bianca, e sbarcare idealmente sulle spiagge di questa ‘immensa terra scura’ con un drappello di forzati pronti a tutto e molto bravi col pugnale. A dire il vero, il luogo dove approdarono era abbastanza verde e invitante: l’affare della ‘terra scura’ arrivò solo in un secondo momento. Non è difficile immaginare che la vita non fosse troppo facile nella colonia, ma i ragazzi impararono ad aiutarsi l’uno con l’altro e una volta scontata la pena, quelli che si reggevano ancora in piedi si avventurarono nella regione minacciosa e inaccessibile che stava al di là del confine per cercare un qualche modo di sopravvivere. Era gente brutale, che non aveva assolutamente nulla da perdere – e c’era l’alcol ad attutire i colpi. Fu intorno al 1840 che i nuovi abitanti dell’isola cominciarono ad accorgersi che mancava qualcosa: pecore, e donne. Le prime le importarono dalla Spagna: un colpo di genio, che permise all’Australia di fare ingresso nella mappa dell’economia mondiale. Le seconde, invece, furono fatte venire via nave dopo essere state prelevate dagli ospizi e dagli orfanatrofi d’Inghilterra. Visto che non ce n’erano abbastanza per tutti (donne, voglio dire), non è nemmeno troppo difficile immaginare gli assalti frenetici ai moli di Sidney quando entravano in porto, a vele spiegate, le navi cariche di ragazze. Ci vuole molto più di un secolo per cancellare gli effetti di una memoria così traumatica, e d’altronde il culto è tenuto in piedi e – per così dire- coltivato in ogni pub del paese, e specialmente all’interno, dove si è ancora molto legati sentimentalmente all’immagine stereotipa del maschio ‘aussie’ (abbreviazione colloquiale di australiano). L’incarnazione odierna di questo mito è del tutto priva di fascino: è un essere pieno di pregiudizi, bigotto, noioso, e soprattutto brutale. Le uniche cose che lo interessano nella vita sono fare a pugni, usare il fucile e bere.”

Ma la società australiana dell’esperienza di Robyn non è solo negativa, presenta anche una peculiarità: la solidità dell’amicizia tra australiani:

“Non ho mai più trovato, in nessun’altra parte del mondo, quel tipo di amicizia che esiste in certi settori della società australiana. Probabilmente c’entrano tante cose: un antico codice di cameratismo, il fatto che le persone hanno ancora il tempo di occuparsi l’una dell’altra, che i dissidenti, in passato, avevano sviluppato un forte senso della comunità, e che fattori come la competitività e il successo non sono ancora diventati aspetti fondamentali della cultura australiana, e ancora c’entra una generosità di spirito che può permettersi di crescere, di fiorire, in questo ambiente abbastanza unico al mondo, fatto di spazio senza tradizioni e di grandi potenzialità umane. Comunque sia, ha un valore infinito.”

Ed emerge anche la fratellanza, la vicinanza e l’aiuto che molte persone regalano a Robyn durante la traversata, si tratta principalmente delle persone che vivono nel “bush” dell’entroterra (cioè delle praterie e zone boscose che sono state occupate dai bianche e destinate agli allevamenti), persone che aiutano gli altri anche se hanno poco per se stessi.

Dicevo che si occupa anche di Aborigeni e ambiente e (soprattutto) sotto questi due aspetti il libro rappresenta quasi una denuncia.

Alla base della “spedizione” di Robyn c’è anche il desiderio di avvicinarsi al popolo autoctono e minacciato degli Aborigeni, sono varie le parti che dedica loro. Si ha modo di scoprire come vivono, in riserve come gli Indiani Pellerossa oppure ai margini delle città in cerca di un lavoro precario che non arriverà mai e che li vede sprofondare nella depressione e nell’alcol, e vengono anche spiegati i motivi, la vita di un aborigeno è fortemente legata alla terra – sia a livello di coltivazione e caccia come metodi di sostentamento sia, ancor di più, a livello culturale sulla base di una millenaria tradizione di riti e credenze; persa la terra perdono il senso stesso della vita – cosa fa il governo per loro? poco o nulla; cosa devono subire gli aborigeni? tanto a partire dalla violazione della propria terra e delle proprie credenze, dalla fastidiosa, pressante e umiliante presenza di turisti e antropologi che li studiano.  Infine sono oggetto di razzismo e discriminazioni e sono flagellati dalla disoccupazione e dall’alcolismo. Nel momento in cui Robyn Davidson ce ne parla siamo agli inizi degli anni ’70 e sono attivi una serie di movimenti che si battono il riconoscimento dei diritti civili degli aborigeni; per fortuna proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in avanti le cose sono andate migliorando, anche se ancora oggi non esiste una parità piena almeno per quel che riguarda mortalità, salute e aspettativa di vita.

Robyn condivide una piccola parte di viaggio con un compagno speciale: Eddie

“Era una compagnia piacevolissima, quella di Eddie, che aveva tutte le qualità tipiche degli aborigeni: forza, calore, allegria, padronanza di sé, e una consistenza, una solidità che immediatamente imponevano rispetto. E mentre proseguivamo nel cammino, continuavo a domandarmi come era possibile che la definizione ‘primitivo’, con tutte le sottili e malevole connotazioni della parola, potesse essere mai stata attribuita a persone come lui. Se, come qualcuno ha detto ‘essere davvero civilizzati significa contrarre un disagio’, allora Eddie e la sua gente non erano per niente civilizzati. Perché proprio questa qualità era in lui tanto evidente: era sano, tutto d’un pezzo, un essere completo, ed era qualcosa che irradiava da lui con tale forza che bisognava essere completamente stupidi per non rendersene conto. […] Ma pensai a questo vecchio uomo e alla sua gente. Pensai a come erano stati massacrati, quasi cancellati dalla faccia della terra, forzati a vivere in insediamenti che ricordavano molto da vicino i campi di concentramento, e poi incalzati, spinti, misurati, mentre voluminosi testi di antropologia pubblicavano foto a colori dei loro rituali, mentre i loro oggetti sacri venivano rubati e disseminati nei musei, mentre ogni occasione era buona per logorarli e privarli della loro forza e integrità. Non c’era un bianco che non li avesse fraintesi e insultati, per poi lasciarli a marcire, imbottiti di alcol di infima qualità, dopo aver loro passato tutte le nostre malattie. Volsi lo sguardo a questo meraviglioso vecchio, strambo e mezzo cieco, che si torceva dalla risate come se non avesse mai visto niente del genere, come se non fosse mai stato oggetto di un disprezzo ignorante, crudele e bigotto, come se non avesse mai avuto una preoccupazione in vita sua, e pensai ‘O.K., vecchio, se ce la fai tu, ce la faccio anch’io’.”

Non è un romanzo e probabilmente neppure un reportage o un resoconto di viaggio veri e propri. Piuttosto è un flusso di coscienza, dove Robyn Davidson racconta la sua esperienza e le sue sensazioni ed emozioni, ci sono parti dove non mancano le spiegazioni e approfondimenti e altre, soprattutto i legami di amicizia personali, che semplicemente vengono riportati.

È una lettura che sa essere esperienza di viaggio sia nel mondo che all’interno dell’io narrante e di riflesso anche nell’io lettore. Purtroppo questo è l’unico scritto della Davidson tradotto in italiano almeno da quello che sono riuscita a capire io. Ma Davidson ha vissuto tante altre avventure che ha poi documentato in altrettanti reportage, per esempio ho letto che ha viaggiato per un paio d’anni con una popolazione nomade in India; spero che un giorno vengano offerti anche ai lettori italiani.

Avete letto Orme?

Vi piacciono i libri di viaggio?

domenica 4 ottobre 2020

L'ASSASSINIO DI PITAGORA - MARCOS CHICOT

TITOLO: L'assassinio di Pitagora
AUTORE: Marcos Chicot - traduzione di Andrea Carlo Cappi
EDITORE: Salani
PAGINE: 719
PREZZO: € 18,60
GENERE: thriller storico - letteratura spagnola
LUOGHI VISITATI: Magna Grecia nel 510 a. C.

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Cosa sapete su Pitagora? Io conosco solo il famoso teorema sul triangolo rettangolo che si studia a scuola, e certo, immaginavo che Pitagora fosse stato un grande studioso e filosofo ma non sapevo fino a che punto, si vede che non ho fatto studi classici! Con la lettura ho scoperto che oltre agli studi di matematica e geometria è stato anche un grande pensatore e politico fondando a Crotone una scuola di pensiero che porta il suo nome, la “Scuola Pitagorica”.  L’aspetto della comunità filosofico/scientifica fondata da Pitagora emerge diffusamente nel romanzo e può rappresentare un buon punto di partenza per l’approfondimento. La scuola si presenta quasi come una setta dove solo le persone dotate di particolari capacità (intellettuali in primis, ma anche economiche perché passano la vita a dedicarsi allo studio della matematica) possono accedere, ma soprattutto il sapere e le scoperte che si raggiungono sono destinate a rimanere segrete all’interno della comunità.

La vita di Pitagora, per il periodo storico in cui è vissuto e (soprattutto) per l’importanza delle sue idee e scoperte, matematiche e filosofiche, è circondato quasi da un aurea di mistero, dove la realtà si unisce al mito, ci sono molte incertezze e lacune dal punto di vista biografico anche perché stato oggetto di una forte mitizzazione da parte degli autori successivi. Senza approfondire troppo la biografia del filosofo ho potuto però constatare che la ricostruzione di Chicot segue gli elementi fondamentali della sua vita, procedendo a riempire con la fantasia e quanto necessario alla svolgimento della trama quei vuoti e quelle incertezze biografiche di cui abbiamo parlato prima; una ricostruzione che risulta fedele a quella tradizionalmente accettata e al tempo stesso la declina ad uso del romanzo.

Attraverso i suoi seguaci Pitagora è arrivato ad esercitare una grandissima influenza politica e i nemici non mancano

“Pitagora scosse la testa, tormentato. Era molto tempo che si confrontava con lo stesso dilemma. Per tutti gli dei, la sua dottrina parlava di etica, di comprensione delle leggi della natura, della crescita spirituale degli individui e delle comunità. Non era suo desiderio accumulare potere. Il suo proposito era aiutare il progresso, far comprendere la verità, realizzare un mondo dominato dalla sapienza e dalla ricerca, dalla giustizia, dalla pace…

Ma è inutile che io cerchi di ingannarmi.

Era evidente che aveva accumulato un enorme potere materiale. Le sole Crotone e Sibari assommavano a mezzo milione di abitanti. E la cifra andava più che raddoppiata, se si consideravano tutte le città i cui governi gli obbedivano. E alcune di quelle città erano dotate di notevoli forze militari. Lui sapeva bene di non volere attaccare chicchessia, ma non era detto che ciò fosse altrettanto chiaro per le nazioni confinanti.”

“Il grande sogno politico di Pitagora era una comunità di nazioni e la fine di ogni guerra. Non lo avrebbe visto realizzato nella sua vita, ma forse il suo successore sì. Erano trent’anni che gettava i semi di quel progetto.”

 

La narrazione si svolge in un arco temporale circoscritto da marzo ad agosto del 510 a.C. tra Crotone e Sibari. Sulla scena narrativa convivono personaggi storici realmente esistiti come Pitagora e il suo nemico Cilone e personaggi di fantasia, su tutti i due protagonisti, Arianna e Akenon, che ben si inseriscono nel contesto e rappresentano quasi una cartina al tornasole per analizzare la società greca dell’epoca. Akenon è egizio e vive e lavora da anni a Cartagine quindi apporta il pensiero e le impressioni di un uomo estraneo alla cultura greca. Mentre Arianna ragionerà varie volte sulla condizione femminile, la sua assolutamente privilegiata all’interno della comunità, molto diversa da quella delle donne “comuni” in società e attraverso i suoi pensieri e i suoi paragoni possiamo farci un piccolo quadro della situazione.

 “Benché ci fossero cose che le piacevano, non avrebbe mai potuto né voluto adattarsi alle regole e ai costumi che stabilivano i diritti e il ruolo della donna nella società. I greci la consideravano inferiore all’uomo per intelletto, carattere e morale. Una donna non doveva intervenire nelle conversazioni degli uomini né era ben visto che vi assistesse. Sotto molti aspetti, la donna era equivalente a un bambino. Il marito esercitava la propria tutela su di lei. E, se restava vedova, passava automaticamente a dipendere dal padre, o dal figlio maggiore, o dal nuovo sposo che il defunto marito le avesse indicato.
Per sua fortuna, Arianna viveva nella comunità, dove suo padre aveva stabilito regole molto diverse. Continuava a esserci qualche disuguaglianza, ma uomini e donne avevano un ruolo molto simile. In città, le sarebbe toccato imparare a essere sollecita e sarebbe stata istruita solo nei lavori domestici per potersi sposare ancora adolescente e vergine con un uomo intorno alla trentina, se non con un vedovo anziano.
[…] Sapeva di condurre un’esistenza impropria per una donna greca. Aveva moltissimi privilegi…in realtà gli stessi di qualsiasi uomo. La sua indipendenza e la libertà erano una parte essenziale di lei. Ma viveva in un mondo di uomini. Akenon non era diverso dagli altri, per quanto fosse gentile, attraente, affascinante…
Maledizione!, si ripeté. Sapeva che la comunità era diversa dal resto del mondo e che nella maggior parte delle città greche le donne erano considerate poco più che schiave, esseri senza diritti, subordinati ai desideri degli uomini. E, a quanto ne sapeva, anche nella maggior parte degli altri popoli vigevano regole simili.”

 

Il romanzo è quello che promette la copertina: un thriller storico, enigmi, intrighi, amore e azione.

Akenon un investigatore egizio è stato chiamato a svolgere una delicata missione a Sibari per il potente e ricchissimo Glauco; terminata la missione riceve l’invito di Pitagora di andare a trovarlo, invito presentato da Arianna, la bellissima figlia del filosofo. Pitagora e Akenon si conoscono da molto tempo e l’investigatore accetta di buon grado di far visita al vecchio amico. Pitagora si trova alle prese con la delicata questione della sua successione alla guida della Scuola Pitagorica ma soprattutto con la misteriosa morte di uno dei candidati, per questo motivo richiede l’aiuto dell’egizio. Da qui la vicenda si infittisce di misteri perché altri candidati muoiono e Glauco lancia una sfida matematica la cui risoluzione appare impossibile almeno per le conoscenze della Scuola Pitagorica, all’epoca la più avanzata, ma forse non è così e qualcuno riuscirà a risolvere la sfida? Col passere del tempo diventa sempre più chiaro che dietro le morti ci sia un'unica mano, di qualcuno che vuole distruggere la comunità pitagorica e tutte le sue teorie, grazie all’abbondante uso di oro per corrompere e manipolare e alleandosi ai nemici di Pitagora. Ad occuparsi delle indagini sono Arianna e Akenon e tra i due nasce anche una tormentata storia d’amore. Alla fine del romanzo tutti i misteri vengono risolti e vengono gettate le basi anche per un altro romanzo con protagonisti sempre Arianna e Akenon “Il teorema delle menti”.

È stata una lettura piacevole, piuttosto scorrevole che permette di approcciarsi alla vita e alla cultura della Magna Grecia in modo particolare alla Scuola Pitagorica e alla figura di Pitagora, e permette anche di scoprire alcune curiosità sulla geometria e sui numeri, con dei brevi approfondimenti tratti da “Enciclopedia Matematica, Socram Ofisis, 1926”.

A fine libro c’è una lettera ai lettori da parte dello scrittore Chicot dove racconta l’origine del romanzo o meglio dell’idea di scrivere un romanzo che abbia per protagonista il “Pi greco”, perché nella trama de “L’assassinio di Pitagora” un ruolo molto importante è giocato proprio da questo elemento matematico.

 

Lo avete letto? Conoscete Chicot?