domenica 24 gennaio 2021

LA FAMIGLIA KARNOWSKI - I.J. SINGER

TITOLO: La famiglia Karnowski
AUTORE: Israel Joshua Singer - traduzione di Anna Linda Callow
EDITORE: Adelphi
PAGINE: 498
PREZZO: € 10,00
GENERE: romanzo familiare, letteratura polacca
LUOGHI VISITATI: Berlino, New York 

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Un romanzo familiare che vede protagoniste tre generazioni di Karnowski, tutti maschi, David, Georg e Jegorg, molto diversi tra loro.

Il capostipite è David, un ebreo polacco che dopo il matrimonio lascia il piccolo paesino di Melnitz per trasferirsi a Berlino, patria della conoscenza e dei lumi. David è un erudito, uno studioso fattosi da se, ottimo commerciante, si fa promotore di una filosofia di vita diretta all’integrazione senza dimenticare o perdere le proprie tradizioni religiose, la politica di essere ‘ebreo in casa, berlinese fuori’. La moglie Lea invece non si trova molto bene nella capitale tedesca, non si integrerà mai, rimane, come la definisce il marito, “una paesana” legata alle tradizioni del popolino da cui proviene e piena di superstizioni, ai salotti della Berlino bene preferisce di gran lunga quello dei coniugi Burak, amici e suo compaesani, dove si sente a casa.

“Quando ricevette l’ordine di presentarsi alla polizia, dove gli annunciarono che presto sarebbe stato internato in un campo con tutti gli altri russi, David Karnowski fu profondamente amareggiato.
Non riusciva a concepire che potesse accadere una cosa del genere. A lui? Lui che era fuggito dall’ignoranza e dall’oscurantismo dell’Est per la cultura e i lumi dell’Ovest? Lui che parlava un tedesco impeccabile ed era membro del consiglio di amministrazione della più grande sinagoga di Berlino? Un erudito che sapeva tutto su Moses Mendelssohn, Lessing e Schiller? Un onesto commerciante proprietario di uno stabile in città, padre di figli nati nel paese, arrestato insieme alla volgare plebaglia?”
 

Poi c’è il figlio Georg, ‘ribelle’ curioso e facile ad entusiasmarsi come a stancarsi delle varie cose. Georg si scontra col padre fin da ragazzo perché vuole fare quello che vuole; è ebreo, va bene ma che significa? Non gli interessano le regole e le morali che gli derivano dalla religione, penso di non sbagliare a definirlo ateo. Dopo vari tentativi trova finalmente la sua strada, quella del medico e si sposerà con un tedesca, seguendo il suo cuore e non le tradizioni.

Infine Jegorg (figlio di Georg) che odia il padre perché è ebreo e gli ha passato alcuni tratti caratteristici della razza ebraica come i folti capelli neri e la pelle olivastra in vistoso contrasto con gli occhi azzurro ghiaccio ereditati dalla madre. Jegorg è un ragazzino difficile, cagionevole di salute, vive l’avvento del nazismo e in quanto ebreo dovrà subire delle umiliazioni molto pesanti e reagisce semplicemente odiando il padre e tutti gli ebrei.

“Lo specchio gli rimandò un’immagine che gli ricordava le caricature dei giornali.
«Mio Dio, quanto sono brutto, e che faccia da ebreo!» esclamò gettandolo via.”

C’è un continuo scontro generazionale tra padri e figli; il figlio abbraccia ideali e stili di vita diversi da quelli del padre e per questo incomprensibili. David estremamente interessato alla cultura e all’integrazione senza dimenticare la propria religione e le sue tradizioni. Georg è invece assolutamente indifferente alla religione e alla passioni da studioso del padre, arriverà a seguire l’amore a discapito delle tradizioni. Infine Jegorg un mezzo ebreo che odia gli ebrei, nonostante subisca umiliazioni pesanti per le sue origini raziali, è filo nazista, patteggia per gli uomini con gli stivali, si sente tedesco o meglio ariano e odia il padre, non capisce e non apprezza l’amore della famiglia. Odioso ma forse si riscatterà.

I Karnowski non sono però gli unici personaggi del romanzo, accanto a loro Singer ci racconta anche le vicende di alcuni loro amici in particolare i Burak e il dottor Landau. I coniugi Burak - amici di Lea Karnowski -sono proprietari di un grande negozio su una delle vie più importanti di Berlino, una specie di bazar che vende di tutto a prezzi stracciati e che ha moltissimi clienti tedeschi. Spicca la personalità frizzante e amichevole del capofamiglia Salomon, un eterno giocherellone con la battuta sempre pronta; si differenzia da molti altri ebrei perché non nasconde, anzi ostenta la sua religione e le sue origini polacche.

Poi c’è il dottor Landau, un anziano medico ebreo, che vive e lavora in un quartiere popolare e di operai; è un tipo particolare, vegetariano, grande camminatore, senza peli sulla lingua aiuta il prossimo esercitando la professione praticamente gratuitamente. È colui che guida Georg nelle proprie scelte professionali.

E infine una menzione spetta al vecchio Reb Efraim, uomo che ha dedicato la vita all’analisi e allo studio dei testi sacri, un pozzo di sapienza che viene consultato da rabbini, professori e studiosi di ogni confessione religiosa. Colpisce per il pragmatismo e la saggezza e la calma, invita anche chi gli sta intorno a fare altrettanto, in particolare a non disperarsi per “gli uomini con gli stivali” perché gli ebrei hanno sempre avuto nemici e sempre ne avranno, ma i figli di Israele non soccomberanno mai.

“Reb Efraim si interessa solo dei suoi libri sacri, pezzi da collezione, manoscritti rari, stipati su scaffali di legno grezzo dal pavimento tarlato fino al soffitto a volta della stanza.
Alto, sottile, con il viso allungato, un’imponente barba grigia e lunghi capelli dello stesso colore, uno zucchetto di cotone liso sulla testa e una grande pipa in bocca, siede immerso nei testi esoterici, in mezzo a polverosi manoscritti e pergamene che sfoglia ed esamina con l’aiuto di una lente di ingrandimento. Sul tavolone di legno ingombro di carte, sono posati un vaso di terracotta pieno di penne d’oca appuntite e un piattino contenente colla e pennelli induriti. La colla serve a Reb Efraim per restaurare le pagine lacere, riparare i bordi, rimettere insieme i fascicoli staccati; le penne d’oca ad annotare correzioni a margine e integrare le parti mancanti, strappate o bruciate, in caratteri ebraici minuscoli e ornati. Non utilizza mai pennini d’acciaio, soltanto penne d’oca che si procura dal venditore di pollame della casa accanto e a cui fa accuratamente la punta con un apposito coltellino. La sua scrittura somiglia più all’arabo che all’ebraico. Ogni lettera è adorna di corone e svolazzi, come quelli che usano gli scribi nel ricopiare i rotoli della Torah.
Il professor Breslauer del seminario rabbinico è un visitatore assiduo. Benché non ami troppo addentrarsi nel ghetto, non ha molta scelta, perché, nonostante i tanti rabbini e studiosi, in tutta la città non si trova un solo erudito paragonabile a reb Efraim Walder. Come il professor Breslauer, anche altri dotti frequentano la sua stanzetta, insigni rabbini, storici, studiosi del giudaismo. La Dragonerstrasse guarda ogni volta con stupore quei personaggi importanti del ricco quartiere occidentale arrivare in visita. E figurarsi quando vedono comparire non soltanto gli ebrei di Berlino Ovest, ma professori cristiani e preti in cerca di chiarimenti di teologia ebraica. Per questo motiva perfino il gendarme mostra un grande rispetto nei confronti del vecchio signore e gli indirizza un saluto militare ogni volta che lo incontra per strada.”
 

Nel romanzo Singer compie un’analisi della comunità ebraica berlinese, da un lato c’è il ghetto della Dragonstrasse che si contrappone agli ebrei tedeschi della Berlino Ovest, tra cui il nostro David Karnowski, parla delle distinzioni e delle discriminazioni che ci sono al suo interno. Quindi da un lato, appunto, c’è il quartiere ebraico chiassoso e povero dall’altro gli ebrei che si sono integrati alla perfezione, tedeschi a tutti gli effetti (chiamati yeke) e che con gli altri condividono ben poco e che per questo guardano con spregio, ma anche all’interno della comunità della Berlino ovest esiste una scala sociale ben precisa e nel momento del bisogno gli yeke non si fanno scrupolo a ignorare gli amici anche se ben integrati perché non tedeschi.

La narrazione è scorrevole e gli anni passano velocemente, Singer si sofferma su alcuni momenti ed episodi particolari e poi veniamo proiettati avanti nel tempo, dove ci racconta un altro momento significativo, il tempo trascorso nel mezzo è liquidato in poche parole, riassunto in una frase.

La collocazione temporale della vicenda è indefinita, non ci sono riferimenti diretti al periodo storico di ambientazione ma è ricostruibile a posteriori dal lettore e si va dagli inizi del ‘900 fino all’avvento del periodo nazista.

“Quando i giovani in stivali cantavano per le strade che il sangue ebraico avrebbe zampillato sotto i colpi del coltello, lo pensavano davvero. Non erano parole al vento, come avevano creduto gli abitanti dei quartieri ovest di Berlino.”

Il periodo nazista che vivono i protagonisti è quello delle prime avversità, le scritte sulle vetrine, l’impossibilità di esercitare determinate professioni, limitazioni alla libertà personale, discriminazioni e umiliazioni molto marcate ma non la deportazione; e poi c’è la migrazione e la nuova vita negli Stati Uniti.

“Georg sapeva che cosa impediva al ragazzo di uscire. Neppure lui era mai tranquillo quando era per strada, mai sicuro di non essere insultato. Ma proprio per questo si costringeva a vincere l’inquietudine. Giusto perché quelle canaglie non desideravano altro, si rifiutava di procurare loro quella soddisfazione. Dopo i primi mesi trascorsi chiuso in casa, lontano dalla strada, dalle parate e dai teppisti, aveva ripreso ad uscire anche senza alcuna necessità, solo per sfida. Con un passo ostentatamente sicuro camminava per miglia ogni mattina per scacciare la pigrizia, lo scoraggiamento e i pensieri cupi. Alcuni vicini si voltavano dall’altra parte quando lo incontravano per non essere costretti a salutarlo, altri correvano il rischio e gli facevano un cenno col capo. Alcune donne intrepide gli sorridevano e lo salutavano addirittura per prime. Georg teneva la testa ancora più alta per mostrare che non si lasciava impressionare da nessuno, che neanche per idea si sentiva avvilito, non lui, il dottor Georg Karnowski!” 

Il finale è travolgente, assolutamente wow, anche se è dannatamente aperto, lascia la possibilità a tante strade e interpretazioni e io voglio interpretarlo positivamente.

Il personaggio di Jegorg è odioso e antipatico ma forse si riscatta.

Conoscete La famiglia Karnowski? Avete letto altro di Israel Joshua Singer?

giovedì 21 gennaio 2021

SE QUESTO É UN UOMO - PRIMO LEVI

TITOLO: Se questo è un uomo
AUTORE: Primo Levi
EDITORE: Einaudi
PAGINE: 219
PREZZO: € 11,00
GENERE: letteratura italina, memoir, shoa
LUOGHI VISITATI: campo di Auschwitz

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“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine ‘Campo di annientamento’, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.”

Se questo è un uomo di Primo Levi è il primo libro che tratta direttamente del tema dell’Olocausto che io ho letto. La prima volta l’ho lessi diversi anni fa e l’ho voluto rileggere ora per parlarne qui sul blog approfittando anche di un nuovo progetto che seguo su Instagram.

È un libro necessario per quanto doloroso, anzi direi imprescindibile. Primo Levi racconta la sua esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz: dal campo di internamento in Italia dopo la cattura, il lungo viaggio in treno, la vita nel campo fino all’arrivo dei russi.

La narrazione non è meticolosa e dettagliata per quel che riguarda la cronologia degli eventi e nemmeno per i legami che si sono creati con altre persone. Non è un diario. È piuttosto un insieme coerente (anche se non legato e spiegato dettagliatamente) di molti eventi che ha vissuto in prima persona, della sua esperienza in campo e di alcuni avvenimenti particolari e generali come ad esempio “la cerimonia” della selezione, il Ka-Be (l’infermeria) e l’orchestra che accompagna uscita e ingresso dal campo dei lavoratori.

“Alla distribuzione del pane si sente lontano, fuori dalla finestre, nell’aria buia, la banda che comincia a suonare: sono i compagni sani che escono inquadrati al lavoro. […] I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. […] Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? Quale prova più concreta della loro vittoria?”

La cerimonia della selezione è uno dei passaggi più drammatici della vita interna, si tratta di un “controllo”, della scelta sommaria e, in realtà anche molto arbitraria e casuale, tra i prigionieri all’interno del campo per decidere chi continua a “vivere” e chi invece è destinato alle camere a gas, tra chi continua la lotta in attesa della prossima selezione e chi invece deve abbandonare il mondo.

Nell’esperienza personale di Levi c’è il lavoro fuori dal campo, nella Buna, una gigantesca fabbrica costruita grazie alla manodopera del vicino complesso di Auschwitz, è un enorme cantiere dove i prigionieri vengono sfruttati per i lavori più massacranti, si tratta di una fabbrica chimica e Primo Levi – che è proprio un chimico - parteciperà all’esame per fare parte della squadra di chimici che lavorerà in laboratorio.

Questo cantiere infinito è anche il luogo dove i prigionieri vengono in contatto con i civili, ma cosa pensano i civili?

“Quello che noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile»”

“Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci di animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondono l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo «Kazett», neutro singolare.”

Queste sono le parole più drammatiche, angoscianti e spaventose. Perché mostrano come può reagire l’uomo libero, come può un uomo libero ragionare di fronte a tanto scempio, e la cosa che mi spaventa (e mi fa anche arrabbiare) maggiormente è che purtroppo ragionamenti simili si sentono tutt’oggi.

Ho accennato al commercio, al mercato interno del lager perché leggendo questo libro si scoprono dei dettagli assolutamente agghiaccianti: un esempio i prigionieri devono dare il grasso alle scarpe/zoccoli, chi non lo fa o comunque non ha le calzature in ordine viene punito fisicamente, io mi aspetto che il campo fornisca il grasso, e invece no sono gli stessi prigionieri che lo devono procurare.

“Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.”

Levi si interroga sulla giustezza di narrare quanto accaduto nei lager e si risponde affermativamente e propone anche una particolare chiave di lettura di questa esperienza:

“Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione rimanga una qualche memoria.
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui narriamo. Vorremo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.”

Quindi Levi avanza l’ipotesi di considerare il lager come un laboratorio per un gigantesco esperimento scientifico e sociologico sul comportamento umano, da un lato questa interpretazione è strettamente legata alla ricostruzione ed analisi della psicologia umana che Levi fa delle persone che lo circondano (sia durante la prigionia cosa che gli permette di rimanere “vivo”) sia a posteriori durante la scrittura della sua testimonianza. Dall’altro ho inizialmente trovato raccapricciante l’idea di vedere il lager come un esperimento scientifico ma forse è un’interpretazione meno spaventosa di quello che in realtà è stato, perché alla fine lo scopo del lager era semplicemente e brutalmente annientare una parte di popolazione (in primis gli ebrei, ma non solo) senza colpa alcuna se non quella di appartenere ad un'altra cultura e religione?! Non so cosa sia peggio!

“Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.”

 

Come si sopravvive dentro a un lager? Anzitutto è questione di fortuna e caso! Questi sono i due elementi che determinano la sorte degli individui. Ma si può lottare contro il sistema lager anzitutto mantenendo la propria dignità, come un compagno più anziano spiega al neo internato Levi

“Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire. Questo cose mi disse Steinlauf.”

E poi ci sono le astuzie che si imparano col tempo, quando l’unica preoccupazione è il domani immediato, il tempo e il freddo che rendono ancor più duro il lavoro senza sosta.

Un tema trattato molto importante e singolare è il sogno: cosa sognano i rinchiusi? Cibo senz’altro, ma secondo Levi un sogno molto comune e diffuso è quello di essere nuovamente a casa, tra i propri cari e raccontare l’accaduto, raccontare il lager e trovare incredulità o meglio non essere creduti, è probabilmente anche questa una delle ragioni dell’impellente bisogno di Levi di raccontare.

Infatti l’opera rappresenta la sua testimonianza, scritta di getto subito dopo il ritorno a casa, senza pianificazione tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947, qui racconta le cose più importanti, grosse e urgenti.

Il libro finisce all’improvviso, la narrazione si interrompe con l’arrivo ad Auschwitz dei russi. L’uscita dal campo e il travagliato viaggio di ritorno sono narrati in un altro libro: La tregua.

L’aspetto che mi ha maggiormente colpita nello stile è la lucidità nel descrivere quasi asetticamente la vita e le regole del campo; senza odio, senza influenzare il lettore ma porgendo al lettore domande e riflessioni e tanto materiale su cui riflettere.

Nella mia edizione Einaudi c’è anche un’interessantissima appendice dove lo stesso Levi risponde alle domande che maggiormente si è sentito rivolgere.

Conoscete questo libro? Avete letto altro di Primo Levi? Fatemi sapere nei commenti.