domenica 25 ottobre 2020

HO PAURA TORERO DI PEDRO LEMEBEL

TITOLO: Ho paura torero
AUTORE: Pedro Lemebel - traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
EDITORE: Marcos y Marcos
PAGINE: 202
PREZZO: € 16,00
GENERE: letteratura cilena
LUOGHI VISITATI: Santiago del Cile anno 1986 

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Irriverente, politicamente scorretto, sarcastico e divertente.

La narrazione alterna le vicende dalle Fata e Carlos con quelle del dittatore Augusto Pinochet.

Da un lato abbiamo la storia d’amore tra la Fata dell’Angolo e Carlos, lei una “checca” che passa la vita sognando, un animo nobile e dolce che si guadagna da vivere ricamando per le ricche signore, lui un giovane del Fronte Patriottico Manuel Rodrìguez, giovane, bellissimo e politicamente impegnato nella lotta contro il dittatore Pinochet.

“… e tornava a pensare che lui era così giovane, e lei così vecchia, lui così bello e le così spelacchiata dagli anni. Lui un ragazzino così sottilmente virile, e lei frocia persa, tanto checca che perfino l’aria intorno a lei sapeva di finocchio fermentato. E che poteva farci se lui la riduceva in fin di vita, come carta velina impregnata dell’umidità del suo alito? E che poteva farci, se nella sua vita aveva sempre brillato il proibito, nella passione imbavagliata dell’impossibile?”

Dall’altro scorci di vita privata del dittatore Augusto Pinochet con ricostruzioni della sua infanzia e dell’incontro con la moglie. Non so dire quanto la ricostruzione della vita privata del dittatore sia veritiera e plausibile ma è molto divertente: troviamo un Pinochet intransigente e amante delle marcie musicali alle prese con la moglie Lady Lucy assolutamente logorroica, che passa il tempo a parlare e parlare di moda, stile e dei preziosi consigli del suo consulente d’immagine Gonzalo, e con tutto questo stressa ed esaspera il marito. 

Lemebel unisce sapientemente la tenerezza e la dolcezza infinita della storia d’amore con erotismo e ‘volgarità’ da un lato e la crudezza ed efferatezza del regime con la logorroica First Lady che rende tutto più frivolo.

 

Lo sfondo è la città di Santiago, deturpata e imbruttita dagli scontri continui.

“La primavera era arrivata a Santiago come tutti gli anni, però questa si portava dietro i colori vibranti che imbrattavano i muri con graffiti brutali, slogan di libertà, mobilitazioni sindacali e marce studentesche disperse con i cannoni ad acqua. I ragazzi dell’università resistevano a pietrate agli schizzi fangosi degli sbirri. E caricavano senza sosta conquistando la strada con le fiamme rabbiose delle molotov. Con un’improvvisa esplosione tagliavano la luce e tutti correvano a comprar candele, a raccogliere candele e ancora candele per incendiare le strade e i marciapiedi, per disseminare di braci la memoria, per frantumare l’oblio con le scintille. Come se la coda di una cometa si abbassasse fino a sfiorare la terra in omaggio a tanti desaparecidos.” 

“Di nuovo nell’Alameda con i suoi edifici grigi affumicati dallo smog, di nuovo in centro con il suo brulichio di gente, e di nuovo il Mapocho, con l’odore di pesce fritto e i fruttivendoli in maniche di camicia, che se ne stavano in panciolle, assaporando quella vivace solarità. Nonostante tutto era la sua Santiago, la sua città, la sua gente, che si dibatteva tra gli abusi di una dittatura dura a morire e gli striscioni tricolori che fluttuavano nell’aria settembrina.”

Due le tematiche principali il mondo omosessuale della capitale cilena e il regime dittatoriale con la lotta armata e le manifestazioni dei familiari dei desaparecidos.

“Gli sbirri di qui e i terroristi di là, quel Fronte patriottico non so cosa, e tutte le pene di quella povera gente a cui avevano ammazzato un familiare. Immancabilmente, quell’argomento riusciva a commuoverla, quando ascoltava le testimonianze radiofoniche ricamando lenzuola per la gente ricca, con rose senza spine.
Le spezzavano il cuore i singhiozzi di quelle signore che frugavano tra le pietre, bagnate fradice sotto i getti del cannone ad acqua, che chiedevano dei loro cari, che bussavano a porte di metallo che non si aprivano, respinte da un fiotto d’acqua davanti al Ministero della giustizia, aggrappate ai pali, con le calze rotte, tutte spettinate, con le mani strette al petto per non farsi strappare da quell’acqua scura la foto attaccata vicino al cuore.” 

Tutta la vicenda si svolge a tra la primavera e l’autunno del 1986 devo ammettere la mia ignoranza, pensavo che il regime di Pinochet fosse finito prima invece ho appreso che da fine anni ’80 il Cile ha iniziato un lento processo di democratizzazione ma il dittatore è rimasto senatore a vita fino alla sua morte avvenuta nel 2006 e rimanendo praticamente imputino per i crimini commessi. Quella dei regimi dittatoriali del sud America è una pagina di Storia molto interessante che però ignoro.

La narrazione è scorrevole e avvincente, con un ritmo incalzante e serrato che tiene il lettore incollato alle pagine creando una sorta di suspance; la particolarità è che i dialoghi non sono segnalati da segni di punteggiatura.

Il linguaggio è lirico, a tratti poetico, caratteristica questa resa anche grazie alla Fata che spesso si esprime quasi in rima, la narrazione è molto descrittiva.

La Fata è un personaggio davvero fantastico, dolce, innamorata, cita vecchie canzoni d’amore e le canticchia in continuazione, disposta a tutto (a rischiare tutto, anche la vita) per amore, fingendo di essere ‘stupida’ di non capire, facendo anche la civetta dove possibile per uscire da situazioni di pericolo.

“Sono una vecchia pazza, si disse, sentendosi effimera come una goccia d’acqua nel palmo della sua mano. E Carlos lo sa, anzi, gli piace che sia così. In questa casa si sente cullato, si lascia amare. Niente di più, non c’è altro. Il resto erano solo film inventati da lei, follie da frocio innamorato. E cosa ci poteva fare, se quel ragazzo la tirava scema, con i suoi modi gentili e la sua cultura universitaria. Così ripaga il favore che gli faccio con quelle casse. Con il suo tono affettuoso mi paga l’affitto della mansarda dove si riuniscono i suoi compari. E come se avesse bisogno di conferme, quando gli aprì la porta, Carlos entrò troppo entusiasta, lodando la sua camicia, dicendo come ti trovo bene oggi. Cosa hai fatto? il complimento lo accolse come un mazzo di orchidee, che si seccò tra le mani quando Carlos aggiunse: Sai, questa notte vogliamo riunirci in soffitta. Se per te non è un problema. Perché era così compìto con lei se sapeva che avrebbe detto di sì? Perché insisteva con quella cortesia da gentiluomo all’antica? Come se la considerasse tanto anziana, da trattare con rispetto e rispetto e ancora rispetto. Quando l’unica cosa che lei voleva era che lui le mancasse di quel famoso rispetto. Che le saltasse addosso soffocandola con il suo tanfo da maschio in calore. Che le strappasse i vestiti, spogliandola, lasciandola nuda come una vergine abusata.”

Pedro Lemebel è un riferimento per la letteratura omosessuale e trae ispirazione per le sue opere anche dalla sua vita privata. Oltre che scrittore è stato anche performer e attivista, a partire dagli anni ’80 fa parte di un laboratorio letterario e scrive molte ‘cronache’, tutta la sua opera è incentrata su temi fondamentali come desaparecidos, diritti umani, libertà sessuale e opposizione alla dittatura. Tutti temi che si trovano anche in questo romanzo, penso l’unico che abbia scritto; le altre opere che troviamo come “Parlami d’amore” “Baciami ancora, forestiero” (editi Marcos y Marcos) e “Di perle e cicatrici” (edito Edicola Ediciones) sono raccolte delle sue ‘cronache’ dei suoi racconti e aneddoti scritti per progetti radiofonici o artistici e per le sue performance.

Emerge tutto il suo amore per il Cile, per Santiago e per la vita. Leggendo le quarte di copertina degli altri suoi volumi pubblicati mi sono convinta che nella Fata ci sia molto di Pedro Lemebel, che la Fata sia un riflesso dello scrittore e di tante sue esperienze di vita ma magari è solo una mia sensazione.

Conoscete Lemebel?

Io lo consiglio assolutamente.

 

martedì 20 ottobre 2020

LA MEMORIA DI OLD JACK - WENDELL BERRY

TITOLO: La memoria di Old Jack
AUTORE: Wendell Berry traduzione di Vincenzo Perna
EDITORE: Lindau - collana Senza Frontiere
PAGINE: 237
PREZZO: € 19,50
GENERE: letteratura americana
LUOGHI VISITATI: Port William - Kentucky

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Un libro meraviglioso, poetico e lirico ma anche molto malinconico.

Protagonista è Jack Beechum un uomo, un contadino forte e fiero di esserlo, capace di superare molte difficoltà grazie alla sua determinazione, alla sua caparbietà, alla forza fisica che unita a quella di volontà gli permette di affrontare giornate massacranti di lavoro nei campi e nella stalla. Tutti sforzi che la terra, tanto amata, riuscirà a ripagare.

Tema centrale del romanzo è il rapporto con la Terra, rapporto che non è uguale per tutti: in Jack e nella sua cerchia di amici è un amore puro, dedizione e sacrificio; ma il altre persone è solo un mezzo per tirare avanti oppure un trampolino di lancio o addirittura una palla al piede.

Tutto il romanzo è intriso di malinconia e tristezza, ma non poteva essere diversamente in fondo stiamo vivendo con Jack la sua ultima giornata e attraverso i ricordi anche tutta la sua vita. Vita che non è stata clemente con Jack: fatta di lavoro duro, difficoltà economiche e una grande sconfitta sul piano sentimentale e Jack meritava qualcosa di diverso. Sono entrata molto in empatia con il personaggio di Jack e se da un lato probabilmente non sarebbe stato il personaggio meraviglioso che è, dall’altro avrei desiderato per lui la vita perfetta di una fiaba.

La vicenda è ambientata nella cittadina (immaginaria) di Port William in Kentucky, un piccolo centro che si basa sull’agricoltura e dove tutti si conoscono e conoscono e rispettano Old Jack per il grand’uomo che è stato. Tutti vogliono bene a Jack ma un menzione d’onore spetta al nipote Mat Feltner (figlio della sorella Nancy e di Ben Feltner, che è stato un sostegno per Jack come lui lo è poi stato per Mat) che condivide l’amore e la dedizione per la terra con Jack.

Buona parte del romanzo è incentrata sull’ultima giornata di Old Jack e dall’alba fino al tramonto partecipiamo ad una tipica giornata di fine settembre nel 1952 ma attraverso “gli smarrimenti” di Jack viviamo anche tutta la sua vita; perché Old Jack si perde, si estrania dalla realtà e rivive episodi del passato, ogni cosa che vede o sente è l’occasione, il pretesto per ritornare con la mente a tanti anni prima.

“Jack li guarda finché scompaiono alla vista. Anche se in questo momento è curvo sul suo bastone sotto il portico dell’hotel di Port William, lo sguardo fisso nella prima mattinata fresca di settembre del 1952, Jack non è lì. È a quattro miglia e sessantaquattro anni di distanza, all’epoca in cui aveva una musica dentro di sé e si sentiva leggero.”

Fin da bambino la vita di Jack è stata difficile, perde i fratelli nella guerra di secessione, poi la madre e il suo rapporto con il padre è fatto di silenzio (di tanto affetto ma senza parole); quando sarà abbastanza grande prende in mano le redini della fattoria di famiglia e l’amata sorella Nancy si sposa con Ben Feltner che sarà per il giovane praticamente un padre. La svolta arriva con l’innamoramento e il matrimonio con Ruth che non è la donna adatta lui o meglio non sono compatibili e hanno basato il loro rapporto su degli errori.

“Hanno continuato a litigare per ragioni futili di cui in un secondo momento, come sempre, si sarebbero vergognati tutti e due. Eppure il litigio ruotava intorno all’unico vero argomento di ogni litigio: l’incapacità di ognuno di loro di essere ciò che l’altro desiderava. Il tema era la solitudine e il dolore. Tra loro, ormai, qualsiasi minimo rancore finiva per toccare direttamente l’angoscia che costava a entrambi la loro speranza.”

Ho odiato Ruth perché non si rendeva conto dell’uomo meraviglioso che aveva sposato e voleva renderlo diverso, lo spinge verso ambizioni che non gli appartengono e sono destinate al fallimento; solo la forza di volontà e l’amore per la terra natale consentiranno a Jack di risollevarsi.

“Ha trascorso gli ultimi cinque anni al limite della propria resistenza fisica, senza mai alzare gli occhi dal terreno, spegnendosi ogni notte in un sonno solitario, come se il letto fosse una tomba, da cui si alzava di nuovo al buio con le ossa rotte per riprendere la fatica di risarcire il passato. E adesso, la carne scossa dal brivido della coscienza, si rende conto di avercela fatta. È rimasto fedele alla terra in tutte le sue trasformazioni annuali da fanciulla a madre, fidanzata, moglie e vedova di uomini come lui fin dall’inizio del mondo.
Aveva sprecato la vita – quindici anni che pensava sarebbero stati, e avrebbero dovuto essere, i migliori e più abbondanti della sua esistenza: svaniti dalla Terra, buttati via in delusioni e dolori, in oscurità e fatiche senza speranza, per ritrovarsi adesso al punto in cui aveva iniziato. Ma per lui è sufficiente, più che sufficiente. Sta tornando a casa – non soltanto come luogo, ma alla possibilità e promessa che un tempo vi scorgeva, e ora, se non prima, alla comprensione che ciò è sufficiente. Dopo quell’atroce fatica, resta abbastanza, più che abbastanza. Più di quanto credeva. Aveva perso la vita e ora l’aveva ritrovata.”

Il racconto è un continuo susseguirsi di presente e passato; presente fatto della voce e dei pensieri delle persone che vogliono bene a Old Jack ma anche di vita quotidiana nella campagna americana, è il periodo della raccolta del tabacco e in generale c’è una meravigliosa ricostruzione della società e dei rapporti sociali. Il passato invece è dato principalmente da Old Jack che rivive i momenti più importanti della sua vita, si interroga sulle scelte fatte. In questo intreccio continuo si alternano le vite di Old Jack (che è protagonista principale) di Mat Feltner, dei Coulter e del pro-nipote Andy Catlett e in ognuno di loro, come in Jack, si mischia presente e passato. 

Old Jack si abbandona a riflessioni filosofiche, tipiche, se vogliamo, di una persona anziana, di un nonno, di un uomo che ha vissuto una vita difficile ma è contento di averlo fatto, che non cambierebbe nulla:

“Old Jack non ha avuto rimpianti né ha desiderato una vita più facile. Una volta imboccato quel solco non è voltato indietro, anche se ha capito che alla fine sarebbe diventato profondo come una tomba.”

“L’ignoranza moderna sta nella convinzione della gente di essere più furba della propria natura. Nell’arroganza di non credere a nulla che non possa provare, di non rispettare nulla che non riesca a comprendere, e di non dar valore a nulla che non si possa vedere. La vista può osservare soltanto in una direzione, e Old Jack crede nell’esistenza di ciò che non guarda e non vede. I prossimi tempi difficili per lui sono reali quando gli ultimi, e lo stesso vale per le fortune future. La nuova ignoranza è uguale alla vecchia, ma meno consapevole. È meno umile, più sciocca e frivola, più pericolosa. Un individuo, pensa Old Jack, non può fare a meno di essere ignorante, ma non per questo deve essere uno stupido. Lui può sapere qual è il posto della sua vita, rimanervi vicino ed essergli fedele.
Che un’intera stanza piena di persone debba restare seduta a bocca aperta come gli uccellini di un nido, gli occhi fissi su una scatola il cui invariabile messaggio è la desiderabilità di Qualcos’Altro o Qualche Altro Posto; che un governo tassi la sua popolazione per costruire una bomba capace di far saltare in aria il mondo; che un intero Paese attenti a una civiltà con l’unico obiettivo di smettere di lavorare, sono tutte cose irreali, totalmente estranee a lui: come se avesse dormito troppo e si fosse risvegliato in un paese di scimmie parlanti. Dentro di sé è preoccupato e infuriato all’idea che le persone possano aspirare a fare il meno possibile, anziché ciò che si chiede loro di fare, per più denaro di quanto valgono, come se il mondo di una volta fosse andato in briciole e quello nuovo fosse stato creato da Gladston Pettit.”

Non voglio dire molto di più perché la vita di Jack Beechum merita di essere letta e scoperta.

C’è una particolarità nei romanzi di Wendell Berry: sono tutti ambientati a Port William e nei vari romanzi compaiono anche i personaggi degli altri, in particolare Hannah Coulter e Andy Catlett. Non vedo l’ora di leggere i romanzi loro dedicati e immergermi nuovamente nel mondo ovattato (anche se molto crudo) di Port William. Berry mi ricorda Kent Haruf anche se hanno una penna diversa entrambi ambientano i propri romanzi in cittadine sperdute dove tutti si conoscono e la vita che raccontano è tutt’altro che semplice e felice. Se li avete letti fatemi sapere se anche voi avete notato delle similitudini.

Conoscete Wendell Berry?

 

mercoledì 7 ottobre 2020

ORME - ROBYN DAVIDSON

TITOLO: Orme
AUTORE: Robyn Davidson traduzione di Benedetta Bini
EDITORE: Feltrinelli
PAGINE: 262
PREZZO: € 9,50
GENERE: letteratura australiana, libri di viaggio, storia vera
LUOGHI VISITATI: Australia

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“Fu solo allora che comincia a capire in che razza di pasticcio mi ero andata a cacciare, solo allora mi resi conto di quanto ero stata stupida a non prevedere tutto quello che sarebbe successo. Sembra che la combinazione di una serie di elementi – donna, deserto, cammelli, solitudine – avesse colpito l’immaginazione di questa era senza passioni e senza cuore; e avesse acceso la fantasia delle persone che si vedono alienate, prive di potere, incapaci di fare qualcosa in un mondo ormai impazzito.”

Un’avventura alla ricerca di se stessi e del senso della vita.

Come dice il sottotitolo una donna, quattro cammelli e un cane attraversano il deserto australiano da Alice Spring a Hamelin Pool sull’oceano indiano. Un viaggio che è scoperta di se stessi e del proprio ruolo nel mondo; e per noi lettori anche di scoperta dell’Australia

È un memoir e leggiamo le parole, l’esperienza di Robyn Davidson che oggi scrive per il National Geographic rivista che in parte ha finanziato e accompagnato la sua impresa.

Ma la sua è stata fondamentalmente un’esperienza in solitaria. Robyn è una donna dal carattere forte, combattiva, quasi selvaggia, senz’altro molto coraggiosa.

“Ma ancora peggio, ero un essere mitico che aveva fatto qualcosa di coraggioso al di là delle possibilità che si offrivano alla gente comune. E questo era proprio agli antipodi di quello che pensavo – e cioè che chiunque può fare qualsiasi cosa. Se ero riuscita a farcela ad attraversare il deserto, beh allora chiunque poteva fare qualsiasi cosa.”

Ma chi è questa donna? Una ragazza qualsiasi, che un giorno ha quest’idea folle di attraversare il deserto con dei cammelli, senza nessuna particolare preparazione, non conosce i luoghi e in realtà nemmeno i cammelli. Infatti il reportage inizia dal sua arrivo ad Alice Springs dove rimarrà un paio d’anni lavorando sia per mettere da parte i soldi necessari al viaggio, per comprare gli animali e tutta l’attrezzatura necessaria, ma anche e soprattutto per imparare a gestire, domare e convivere con questi animali.

Fin da subito tra Robyn e i cammelli si instaura un legame unico e speciale:

“Una volta per tutte voglio sfatare qualcuna delle leggende che in genere si raccontano su questi animali. A eccezione dei cani, sono le bestie più intelligenti che io conosca: direi che hanno un quoziente di intelligenza corrispondente a quello di un bambino di otto anni. Sono affettuosi, insolenti, giocherelloni, spiritosi (sì, spiritosi), padroni di sé, pazienti, forti, e sono soprattutto fonte continua di curiosità e di fascino. Sono anche molto difficili da allevare, perché si tratta di animali dal temperamento essenzialmente poco domestico e al tempo stesso molto vivaci e furbi. È per questo che godono di una pessima reputazione. Se non vengono presi del verso giusto possono diventare recalcitranti e anche pericolosi, ma quelli di Kurt non rientravano in questa categoria: erano solo dei grossi cuccioloni curiosi. E non è nemmeno vero che puzzano, tranne quanto, per ripicca o per paura, ti sputano addosso un bolo verde e vischioso. Aggiungerei anche che sono animali molto sensibili, che si spaventano con grande facilità soprattutto per colpa di guardiani o allevatori inesperti, dai quali possono essere rovinati per sempre. Sono bestie altere, etnocentriche, convinte – lo si capisce benissimo – di essere la razza eletta: possono essere anche codardi, e quell’atteggiamento altero e aristocratico nasconde spesso un cuore sensibile e delicato. Insomma, ero stata conquistata.”

Di cosa parla? Certo parla della traversata del deserto, della vita quotidiana in un esperienza del genere, ci sono descrizioni stupende del paesaggio che la circonda, della solitudine, della pazzia ma anche della libertà che sperimenta. Ma parla molto anche di Australia, di società e cultura, di ambiente e di aborigeni.

Della società australiana analizza soprattutto la “periferia” la vita nel difficile entroterra di cui la piccola Alice Spring è un esempio, una società tendenzialmente rozza e predominata da violenza e razzismo e profondamente misogina; misoginia di cui ricostruisce la storia (ipotizzando una possibile origine) legandola a doppio filo a quella della colonizzazione europea:

“Ma per riuscire a comprendere davvero quanto siano profonde, in questo paese, le radici del culto della misoginia, bisogna andare a disseppellire per lo meno duecento anni di storia dell’Australia bianca, e sbarcare idealmente sulle spiagge di questa ‘immensa terra scura’ con un drappello di forzati pronti a tutto e molto bravi col pugnale. A dire il vero, il luogo dove approdarono era abbastanza verde e invitante: l’affare della ‘terra scura’ arrivò solo in un secondo momento. Non è difficile immaginare che la vita non fosse troppo facile nella colonia, ma i ragazzi impararono ad aiutarsi l’uno con l’altro e una volta scontata la pena, quelli che si reggevano ancora in piedi si avventurarono nella regione minacciosa e inaccessibile che stava al di là del confine per cercare un qualche modo di sopravvivere. Era gente brutale, che non aveva assolutamente nulla da perdere – e c’era l’alcol ad attutire i colpi. Fu intorno al 1840 che i nuovi abitanti dell’isola cominciarono ad accorgersi che mancava qualcosa: pecore, e donne. Le prime le importarono dalla Spagna: un colpo di genio, che permise all’Australia di fare ingresso nella mappa dell’economia mondiale. Le seconde, invece, furono fatte venire via nave dopo essere state prelevate dagli ospizi e dagli orfanatrofi d’Inghilterra. Visto che non ce n’erano abbastanza per tutti (donne, voglio dire), non è nemmeno troppo difficile immaginare gli assalti frenetici ai moli di Sidney quando entravano in porto, a vele spiegate, le navi cariche di ragazze. Ci vuole molto più di un secolo per cancellare gli effetti di una memoria così traumatica, e d’altronde il culto è tenuto in piedi e – per così dire- coltivato in ogni pub del paese, e specialmente all’interno, dove si è ancora molto legati sentimentalmente all’immagine stereotipa del maschio ‘aussie’ (abbreviazione colloquiale di australiano). L’incarnazione odierna di questo mito è del tutto priva di fascino: è un essere pieno di pregiudizi, bigotto, noioso, e soprattutto brutale. Le uniche cose che lo interessano nella vita sono fare a pugni, usare il fucile e bere.”

Ma la società australiana dell’esperienza di Robyn non è solo negativa, presenta anche una peculiarità: la solidità dell’amicizia tra australiani:

“Non ho mai più trovato, in nessun’altra parte del mondo, quel tipo di amicizia che esiste in certi settori della società australiana. Probabilmente c’entrano tante cose: un antico codice di cameratismo, il fatto che le persone hanno ancora il tempo di occuparsi l’una dell’altra, che i dissidenti, in passato, avevano sviluppato un forte senso della comunità, e che fattori come la competitività e il successo non sono ancora diventati aspetti fondamentali della cultura australiana, e ancora c’entra una generosità di spirito che può permettersi di crescere, di fiorire, in questo ambiente abbastanza unico al mondo, fatto di spazio senza tradizioni e di grandi potenzialità umane. Comunque sia, ha un valore infinito.”

Ed emerge anche la fratellanza, la vicinanza e l’aiuto che molte persone regalano a Robyn durante la traversata, si tratta principalmente delle persone che vivono nel “bush” dell’entroterra (cioè delle praterie e zone boscose che sono state occupate dai bianche e destinate agli allevamenti), persone che aiutano gli altri anche se hanno poco per se stessi.

Dicevo che si occupa anche di Aborigeni e ambiente e (soprattutto) sotto questi due aspetti il libro rappresenta quasi una denuncia.

Alla base della “spedizione” di Robyn c’è anche il desiderio di avvicinarsi al popolo autoctono e minacciato degli Aborigeni, sono varie le parti che dedica loro. Si ha modo di scoprire come vivono, in riserve come gli Indiani Pellerossa oppure ai margini delle città in cerca di un lavoro precario che non arriverà mai e che li vede sprofondare nella depressione e nell’alcol, e vengono anche spiegati i motivi, la vita di un aborigeno è fortemente legata alla terra – sia a livello di coltivazione e caccia come metodi di sostentamento sia, ancor di più, a livello culturale sulla base di una millenaria tradizione di riti e credenze; persa la terra perdono il senso stesso della vita – cosa fa il governo per loro? poco o nulla; cosa devono subire gli aborigeni? tanto a partire dalla violazione della propria terra e delle proprie credenze, dalla fastidiosa, pressante e umiliante presenza di turisti e antropologi che li studiano.  Infine sono oggetto di razzismo e discriminazioni e sono flagellati dalla disoccupazione e dall’alcolismo. Nel momento in cui Robyn Davidson ce ne parla siamo agli inizi degli anni ’70 e sono attivi una serie di movimenti che si battono il riconoscimento dei diritti civili degli aborigeni; per fortuna proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in avanti le cose sono andate migliorando, anche se ancora oggi non esiste una parità piena almeno per quel che riguarda mortalità, salute e aspettativa di vita.

Robyn condivide una piccola parte di viaggio con un compagno speciale: Eddie

“Era una compagnia piacevolissima, quella di Eddie, che aveva tutte le qualità tipiche degli aborigeni: forza, calore, allegria, padronanza di sé, e una consistenza, una solidità che immediatamente imponevano rispetto. E mentre proseguivamo nel cammino, continuavo a domandarmi come era possibile che la definizione ‘primitivo’, con tutte le sottili e malevole connotazioni della parola, potesse essere mai stata attribuita a persone come lui. Se, come qualcuno ha detto ‘essere davvero civilizzati significa contrarre un disagio’, allora Eddie e la sua gente non erano per niente civilizzati. Perché proprio questa qualità era in lui tanto evidente: era sano, tutto d’un pezzo, un essere completo, ed era qualcosa che irradiava da lui con tale forza che bisognava essere completamente stupidi per non rendersene conto. […] Ma pensai a questo vecchio uomo e alla sua gente. Pensai a come erano stati massacrati, quasi cancellati dalla faccia della terra, forzati a vivere in insediamenti che ricordavano molto da vicino i campi di concentramento, e poi incalzati, spinti, misurati, mentre voluminosi testi di antropologia pubblicavano foto a colori dei loro rituali, mentre i loro oggetti sacri venivano rubati e disseminati nei musei, mentre ogni occasione era buona per logorarli e privarli della loro forza e integrità. Non c’era un bianco che non li avesse fraintesi e insultati, per poi lasciarli a marcire, imbottiti di alcol di infima qualità, dopo aver loro passato tutte le nostre malattie. Volsi lo sguardo a questo meraviglioso vecchio, strambo e mezzo cieco, che si torceva dalla risate come se non avesse mai visto niente del genere, come se non fosse mai stato oggetto di un disprezzo ignorante, crudele e bigotto, come se non avesse mai avuto una preoccupazione in vita sua, e pensai ‘O.K., vecchio, se ce la fai tu, ce la faccio anch’io’.”

Non è un romanzo e probabilmente neppure un reportage o un resoconto di viaggio veri e propri. Piuttosto è un flusso di coscienza, dove Robyn Davidson racconta la sua esperienza e le sue sensazioni ed emozioni, ci sono parti dove non mancano le spiegazioni e approfondimenti e altre, soprattutto i legami di amicizia personali, che semplicemente vengono riportati.

È una lettura che sa essere esperienza di viaggio sia nel mondo che all’interno dell’io narrante e di riflesso anche nell’io lettore. Purtroppo questo è l’unico scritto della Davidson tradotto in italiano almeno da quello che sono riuscita a capire io. Ma Davidson ha vissuto tante altre avventure che ha poi documentato in altrettanti reportage, per esempio ho letto che ha viaggiato per un paio d’anni con una popolazione nomade in India; spero che un giorno vengano offerti anche ai lettori italiani.

Avete letto Orme?

Vi piacciono i libri di viaggio?