TITOLO: Pastorale Americana
AUTORE:
Philip Roth - traduzione di Vincenzo Mantovani
EDITORE:
Einaudi (collana Super ET)
PAGINE:
462
PREZZO:
€ 14,00
GENERE:
letteratura americana
LUOGHI VISITATI: Stati Uniti d'America principalmente anni '60 e '70
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Un libro magnifico, un vero capolavoro. L’ho amato profondamente nonostante alcune incomprensioni con Roth e nonostante non chiuda completamente il cerchio narrativo o meglio non lo chiude come piace a me.
Ma andiamo con ordine.
Protagonista del romanzo è Seymour Irving Levov, detto lo Svedese, nato e cresciuto a Newark, in New Jersey. Da ragazzo è il campione delle squadre scolastiche di baseball, basket e football, idolo di tutto il quartiere; appena diplomato si arruola nei marines per andare a combattere i giapponesi durante la seconda guerra mondiale, ma il conflitto finisce prima; si sposa ed entra nell’azienda paterna che produce guanti e poi la manderà avanti da solo, una volta che il genitore andrà in pensione.
Una vita da favola, in apparenza. L’idillio è rotto da Merry la figlia dello Svedese che per protestare contro la guerra del Vietnam entra a far parte di gruppi sovversivi e porta la “guerra in casa”, sarà responsabile di un atto terroristico e si dà poi alla macchia.
La penna di Roth è fantastica, pungente, vera, didascalica e descrittiva, talvolta anche ripetitiva, ricca anche di frasi cortissime; coinvolge il lettore e lo trasporta in un altro mondo, lo rende spettatore. È un’opera estremamente introspettiva, con un’analisi psicologica molto approfondita; resa anche grazie a dialoghi interni o meglio monologhi e riflessioni personali dello stesso protagonista.
La struttura narrativa è particolare perché non segue un ordine cronologico ma alterna la narrazione “presente” con il ricordo e la rievocazione di eventi e avvenimenti passati, inframmezzandoli. Così ad esempio il fatto che lo Svedese va in un luogo diventa l’occasione per raccontare delle sue esperienze di bambino; oppure la visita annuale dei vecchi Levov diventa l’occasione per parlare delle discussioni politiche tra nonno Lou Levov e la nipote Merry. È tutto un susseguirsi di avvenimenti passati che il narratore racconta allacciandosi a qualcosa che succede nel presente.
Seymour I. Levov detto lo Svedese è un personaggio che entra nel cuore. È un uomo grande e grosso ma gentile, ha sempre una buona parola, rispettoso, ossequioso e accondiscendente, anche troppo. Avrebbe potuto essere un campione del baseball ma, per accontentare il padre, va a lavorare nell’azienda paterna. Un uomo che mette sempre gli altri al primo posto, che cede alle richieste altrui senza tener conto delle proprie esigenze e dei propri desideri, non cerca o rifugge lo scontro e il disaccordo anche se ciò significa mettere da parte sé stesso.
Il romanzo ha vinto il premio Pulitzer nel 1998 e ne capisco assolutamente la ragione così come capisco perché ne ho sempre sentito parlare di capolavoro.
Con questo romanzo si toccano vari passaggi della Storia americana, dalle campagne militari d’indipendenza di Washington allo scandalo del Watergate, in minima parte anche le rivendicazioni per i diritti civili delle persone di colore, il diffondersi di movimenti ed ideologie di tipo comunista, ma soprattutto - elemento centrale del romanzo - è la protesta interna degli americani contro la guerra del Vietnam in modo particolare quella forma di protesta violenta e terroristica che seguiva la logica del “portare la guerra in casa”. Senza dimenticare i forti cambiamenti sociali che si attuano (e non sempre positivi) nelle città industriali come Newark; in sostanza tocca gli aspetti storico sociali degli anni ’60 e ’70.
È un romanzo sull’America, sul profondo amore che si può provare e anche sul profondo odio, due posizioni all’antitesi che vengono interpretate dallo Svedese e da sua figlia Merry.
“Arrivai a essere un marine degli Stati Uniti. Arriva a portare l’emblema con l’ancora e il globo. -Quelli sono senza lanciatore, Iii-oh, sparala lontanto, Iii-oh... – Ero diventato Iii-oh per tutti, ragazzi del Maine, del New Hampshire, della Louisiana, della Virginia, del Mississippi, dell’Ohio: ragazzi senza istruzione che venivano da ogni angolo dell’America e che mi chiamavano Iii-oh e basta. Solo Iii-oh e basta, per loro. Come mi piaceva! Congedato il 2 giugno 1947. Arrivai a sposare una bella ragazza che si chiamava Dwyer. Arrivai a dirigere un’azienda fondata da mio padre, un uomo il cui padre non parlava inglese. Arrivai ad abitare nel posto più bello del mondo. Odiare l’America? Ma se in America ci stava come dentro la propria pelle! Tutte le gioie dei suoi anni più giovani erano gioie americane, tutti quei successi e tutta quella felicità erano americani, e non doveva più tenere la bocca chiusa solo per disinnescare l’odio ignorante di sua figlia. Avrebbe sofferto di solitudine, da uomo, senza i suoi sentimenti americani. Avrebbe sofferto di nostalgia, se avesse dovuto vivere in un altro paese. Sì, tutto ciò che conferiva un significato alle sue imprese era americano. Tutto quello che amava era lì.”
“Tre generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato. Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate dell’America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione del loro mondo.”
Infine il titolo, estremamente evocativo, trova significato nel testo stesso è un passaggio che mi piace molto, viene individuato un momento di serenità per tutti gli americani così diversi tra loro in quanto espressione delle diverse tradizioni che vi sono confluite dalla vecchia Europa:
“Ed era solo una volta all’anno che si trovavano tutti insieme, e per giunta sul terreno neutrale e sconsacrato della festa del Ringraziamento, quando tutti mangiano le stesse cose […] solo un tacchino colossale per ducentocinquanta milioni di persone; un tacchino colossale che le sazia tutte. Una moratoria sui cibi stravaganti e sulle curiose abitudini e sulle esclusività religiose, una moratoria sulla nostalgia trimillenaria degli ebrei, una moratoria su Cristo e la croce e la crocifissione per i cristiani, quando tutti, nel New Jersey come altrove, possono essere, quanto alla propria irrazionalità, più passivi che nel resto dell’anno. Una moratoria su ogni doglianza e su ogni risentimento, e non soltanto per i Dwyer e i Levov, ma per tutti coloro che, in America, diffidano l’uno dell’altro. È la pastorale americana per eccellenza e dura ventiquattr’ore”
Tutta la vicenda è narrata - apparentemente perché qui si pongono i miei problemi di comprensione con Roth - da Nathan Zuckerman che ha conosciuto e ammirato lo Svedese da ragazzo e avrà modo di incontrarlo anche da adulto quasi per caso, inoltre è stato compagno di scuola e amico di Jerry Levov, fratello minore dello Svedese.
Ho accennato più volte a dei problemi di comprensione con Roth: c’è questo narratore Nathan Zuckerman che fa lo scrittore e che ricorda tutta l’ammirazione provata per Levov lo Svedese; ammirazione e ricordi che diventano praticamente un’ossessione dopo aver incontrato Jerry Levov al raduno dei compagni di classe per i quarantacinque anni dal diploma; l’io narrante Zuckerman ci dice di aver scritto un libro e da questo momento Zuckerman sparisce e leggiamo solo dello Svedese, ma quindi quello che leggiamo è una parte del libro scritto da Nathan? E, se sì, lui come fa a sapere alcune cose? Le inventa? Come faceva a conoscere le litigate tra Merry e il padre sulla questione del Vietnam? Oppure ci sono diversi piani narrativi? Anche ora che ho finito il libro i miei dubbi rimangono, sicuramente è un mio difetto e limite ma non riesco a far collimare le due parti, il non riuscire a rispondere alla mia domanda mi disturba.
Un aiuto mi è arrivato dalle spiegazioni che mi ha dato Sam (la trovate su instagram come @samlibrary), infatti Nathan Zuckerman è l’alterego narrativo di Roth e compare anche in altri suoi libri. Anche se continuo a non capire la scelta fatta da Roth proprio scrivendo la recensione mi sono accorta della sua genialità(!) perché l’espediente di Zuckerman permette a noi lettori di conoscere lo Svedese e le sue vicissitudini ben oltre la narrazione degli anni che segnano il punto di svolta.
L’altra perplessità, cui accennavo sempre all’inizio, è il finale che si presenta come indefinito e vago o meglio ancora il romanzo si chiude in un particolare momento della vita dello Svedese antecedente all’incontro con Nathan Zuckerman e proprio grazie alla presenza di Zuckerman e ai salti cronologici noi lettori conosciamo una serie di sviluppi nella vita di Levov lo Svedese anche se ignoriamo i passaggi attraverso cui arriva a quei risultati. (Io avrei letto altre trecento pagine perché sono fissata sul voler sapere vita morte e miracoli dei personaggi e poi la scrittura è magnifica, ma so anche che per molti altri lettori (probabilmente la maggior parte delle persone normali) non è così e i libri a un certo punto devono finire).
Quindi alla fin fine le mie “critiche” in realtà dopo aver letto il libro e soprattutto dopo averci pensato su sono quasi punti di forza, un espediente narrativo che rende il romanzo diverso e bellissimo comunque.
Sono molto contenta di aver letto questo romanzo che aspettava da anni nella mia libreria, avevo alte aspettative che non sono state deluse, ho incontrato un autore che penso possa piacermi molto e quindi voglio assolutamente leggere altro di suo (sia con Zuckerman che senza).
Fatemi sapere se lo avete letto.