sabato 13 febbraio 2021

SIDDAHARTA DI HERMANN HESSE

TITOLO: Siddharta
AUTORE: Hermann Hesse traduzione di Massimo Mila
EDITORE: Adelphi - collana Piccola Biblioteca Adelphi
PAGINE: 197
PREZZO: € 12,00
GENERE: letteratura tedesca, romanzo di formazione, romanzo filosofico
LUOGHI VISITATI:India VI secolo a.C.

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Un testo davvero particolare, difficile da inquadrare è romanzo di formazione, saggio, testo filosofico e divulgativo, mistico e religioso.

La storia narrata è quella di Siddharta un giovane della casta dei bramini (e destinato teoricamente ad essere tale a sua volta) estremamente saggio e devoto, bravissimo in tutte le attività che compie, ottimo studente e ben voluto da tutti. Ma è portare di una sete particolare, una sete di conoscenza che lo condurrà a vivere molte e diverse esperienze nel tentativo di soddisfarla.

“A chi altri si doveva sacrificare, a chi altri si doveva rendere onore, se non a Lui, all’Unico, all’Atman? E dove si poteva trovare l’Atman, dove abitava Lui, dove batteva il Suo eterno cuore, dove altro mai se non nel più profondo Io, in quel che di indistruttibile ognuno porta in sé? Ma dove, dov’era, questo Io, questa interiorità, questo assoluto? Non era carne e ossa, non era pensiero né coscienza: così insegnavano i più saggi. Dove, dove dunque era? Penetrare laggiù, fino all’Io, a me, all’Atman: c’era forse un’altra via che mettesse conto di esplorare? Ahimè! questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva, non il padre, non i maestri e i saggi.”

Così lascia la famiglia e la comunità in cui vive per unirsi a un gruppo di Samana, degli asceti vagabondi che trascorrono il tempo in meditazione lontano dalla civiltà; con loro Siddharta impara molto, impara il digiuno, la resistenza, impara ad uscire dal proprio Io, ma non riesce a soddisfare la sua ricerca della vera saggezza. Dopo l’esperienza con gli asceti si butta a capofitto in una nuova esperienza di vita assolutamente diversa dalle precedenti fatta di vizio, lussuria e denaro.

“… così la nuova vita di Siddharta, ch’egli aveva cominciato dopo la separazione da Govinda, invecchiava e perdeva col passare degli anni la tinta e lo splendore, la coprivano macchie e pieghe, e nascosti in fondo, qua e là facendo odiosamente capolino, aspettavano la delusione e il disgusto. Siddharta non se n’accorgeva. S’accorgeva soltanto che quella voce limpida e sicura dell’animo suo, che un tempo era desta in lui e nei suoi tempi d’oro l’aveva sempre guidato, era ammutolita.
Il mondo l’aveva assorbito, il piacere, l’avidità, la pigrizia, e infine anche quel peccato ch’egli aveva sempre disprezzato e deriso come il più stolto di tutti: l’avarizia."

Ma anche questa nuova vita non l’ha aiutato a trovare ciò che desidera e l’abbandona per trovare infine, dopo lo sconforto, la sua dimensione in riva al fiume dove imparerà molto e passerà così il resto dei suoi giorni.

In realtà tutte le esperienze sono state importanti per Siddharta e tutte lo hanno aiutato a risalire la strada della ricerca della chiave della felicità e della saggezza. Almeno questo è quello che penso io anche confrontato con il pensiero finale di Siddharta.

L’opera è ambientata nell’India del VI secolo avanti Cristo, a parte questo però non conosciamo praticamente nulla né dell’India (usi, costumi e tradizioni) né dello stesso Siddharta.

La scrittura è aulica, poetica, quasi un opera epica però a tema filosofico; a mio parere la lettura richiede molta attenzione e concentrazione, non è sicuramente un romanzo di trama; però il tempo scorre velocissimo tant’è che ripercorriamo tutta la lunga vita di Siddharta e la sua attività di ricerca in meno di 200 pagine.

Il romanzo è ricchissimo di concetti filosofici/religiosi. Sono concetti che non so spiegare, penso di aver vagamente capito ma non ho la certezza, in fondo cosa cerca Siddharta? una via per trovare la pace interiore, la felicità. Quando mi imbatto in termini e genericamente concetti che non conosco ricorro a google (mio inseparabile amico e compagno di vita) ma con questo libro il problema è che i concetti presenti sono molto complessi, inoltre fanno parte e sono stati sviluppati da diverse correnti di pensiero sia orientali che europee, sono concetti che richiedono studi approfonditi per essere anche solo vagamente compresi, io in materia di filosofia sono assolutamente ignorante e non ho mai studiato materie afferenti a questa sfera (filosofia del diritto studiata all’università al primo anno di giurisprudenza secondo me non vale). Senz’altro la mia mancanza assoluta di preparazione in campo filosofico non è stata d’aiuto.

Il personaggio di Siddharta è intriso di filosofia, la sua stessa vita è votata alla ricerca dell’Io, della strada per la felicità, tutte le volte che parla Siddharta si esprime filosofeggiando. Il mio passaggio preferito è quello in cui spiega l’utilità delle sue scarse doti: pensare, aspettare e digiunare (che sinceramente sono capacità notevoli e non comuni ma che agli occhi di un possibile datore di lavoro sembrano assolutamente inutili)

 “«Tu hai voluto. Vedi, Kamala, se tu getti una pietra nell’acqua, essa si affretta per la via più breve fino al fondo. E così è di Siddharta, quando ha una meta, un proposito. Siddharta non fa nulla. Siddharta pensa, aspetta, digiuna, ma passa attraverso le cose del mondo come la pietra attraverso l’acqua, senza far nulla, senza agitarsi: viene scagliato, ed egli si lascia cadere. La sua meta lo tira a sé, poiché egli non conserva nulla nell’anima propria, che potrebbe contrastare questa meta. Questo è ciò che gli stolti chiamano magia, credendo che sia opera dei demoni. Ognuno può compiere opera di magia, ognuno può raggiungere i propri fini, se sa pensare, se sa aspettare, se sa digiunare».” 

Siddharta è un personaggio di fantasia, vagamente ispirato alla figura del Buddha, un personaggio che sviluppa una propria corrente filosofica, o meglio un proprio pensiero che però non va insegnandolo agli altri ma lo tiene e lo usa per se. Viene esposto dallo stesso Siddharta alla fine del romanzo quando incontra il suo vecchio amico Govinda e risponde alle sue domande.

“No, nel peccatore è, già ora, oggi stesso, il futuro Buddha, il suo avvenire è già tutto presente, tu devi venerare in lui, in te, in ognuno il Buddha potenziale, il Buddha in divenire, il Buddha nascosto. Il mondo, caro Govinda, non è imperfetto, o impegnato in una lunga via verso la perfezione: no, è perfetto in ogni istante, ogni peccato porta già in sé la grazia, tutti i bambini portano già in sé la vecchiaia, tutti i lattanti la morte, tutti i morenti la vita eterna. Non è concesso all’uomo di scorgere a che punto sia il suo simile della propria strada: in briganti e in giocatori d’azzardo si cela il Buddha, nel Brahmino può celarsi il brigante. La meditazione profonda consente la possibilità di abolire il tempo, di vedere in contemporaneità tutto ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, e allora tutto è bene, tutto è perfetto, tutto è Brahma. Per questo a me par buono tutto ciò che esiste, la vita come la morte, il peccato come la santità, l’intelligenza come la stoltezza, tutto dev’essere così, tutto richiede solamente il mio accordo, la mia buona volontà, la mia amorosa comprensione, e così per me tutto è bene, nulla mi può far male. Ho appreso, nell’anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo bisogno della voluttà, dell’ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com’è, e amarlo e appartenergli con gioia”

Penso di non sbagliare nell’affermare che le teorie sviluppate da Siddharta siano una summa di vari pensieri e filosofie (in particolare ho letto che il pensiero finale è molto simile a quello della dottrina buddhista insegnata di Nāgārjuna), realizzata dallo stesso Hesse in relazione anche alle proprie convinzioni personali e influenzate non solo dalle filosofie orientali ma anche da quelle di pensatori europei.

Il libro offre tantissimi spunti di riflessione, è perfetto per chi è interessato alla filosofia soprattutto di matrice orientale. Non è un brutto libro ma non mi ha soddisfatto, bisogna probabilmente leggerlo con la giusta predisposizione d’animo e la voglia di compiere approfondimenti filosofici e possibilmente con una base pregressa in materia, senz’altro gli insegnamenti che fornisce sono interessanti e forniscono una possibile chiave di lettura della vita.

Ho letto anche che questo romanzo ha riscosso moltissimo “successo” ed è uno tra i più noti dello scrittore tedesco, inizialmente non riuscivo a capirne la ragione ma penso di averla individuata nel fatto che il libro - che rispecchia pienamente le tematiche care allo scrittore come esistenzialismo, spiritualismo e filosofia orientale, assieme  alla figura dello stesso Hesse (che era anche poeta e filosofo)  e le sue esperienze di vita – è stato oggetto di una sorta di riscoperta a partire dagli anni ’60 negli Stati Uniti tra i giovani in protesta contro la guerra e nella comunità hippie, quindi il romanzo si è poi legato a questo tipo di pensiero di insofferenza verso lo stato e la società diventando un ottimo testo dove trovare spunti di riflessione per la ricerca di se stessi e di nuovi valori. 

Lo conoscete? Vi aspetto nei commenti.

mercoledì 10 febbraio 2021

L'ISOLA DI ARTURO DI ELSA MORANTE

TITOLO: L'isola di Arturo
AUTORE: Elsa Morante
EDITORE: Einaudi (collana ET Scrittori)
PAGINE: 392
PREZZO: € 13,00
GENERE: romanzo di formazione, letteratura italiana
LUOGHI VISITATI: isola di Procida fine anni '30
Vincitore del Premio Strega nel 1957

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Una storia bella, toccante e tragica.

Protagonista e voce narrante è Arturo Gerace, che adulto ricorda e racconta la sua infanzia e fanciullezza sull’isola di Procida.

Arturo vive e cresce praticamente da solo e abbandonato a sé stesso sull’isola di Procida, è orfano di madre e il padre, va e viene, torna, sta qualche giorno e riparte per il continente, fa quello che vuole e del figlio praticamente non si interessa. Nei primissimi anni di vita Arturo ha un balio, un ragazzo napoletano di nome Silvestro – che è anche praticamente il suo unico amico – che però lascia Procida quanto è chiamato al servizio di leva; da quel momento l’unico aiuto arriva da Costante, il colono che fa da cuoco ai Gerace, andando alla casa una volta al giorno a cucinare i pasti che lascia in cucina.

“La mia casa non dista molto da una piazzetta quasi cittadina (ricca, fra l’altro, di un monumento di marmo), e dalle fitte abitazioni del paese. Ma, nella mia memoria, è divenuta un luogo isolato, intorno a cui la solitudine fa uno spazio enorme. Essa è là, malefica e meravigliosa, come un ragno d’oro che ha tessuto la sua tela iridescente sopra tutta l’isola.”

Arturo vive in una decadente abitazione signorile detta “la casa dei Guaglioni” perché il vecchio proprietario Romeo l’Amalfitano (grande amico del padre di Arturo, Wilhelm a cui rimarrà in eredità) era solito fare molte feste ma invitando esclusivamente uomini e ragazzi perché odiava le donne, tutte le donne nel loro genere.

La vita di Arturo scorre tra giornate in esplorazione dell’isola e in giro per il mare con la sua barca e la lettura dei libri e romanzi che si trova in casa, su cui si forma e che rappresentano anche la sua unica fonte di istruzione e termine di paragone con la vita e il mondo. La vita che conduce Arturo è selvaggia e libera e senza regole, una vita che condivide con la sua fedelissima cagnetta Immacolatella.

“… Mio padre non si curò mai di farmi frequentare le scuole: io vivevo sempre in vacanza, e le mie giornate di vagabondo, soprattutto durante le lunghe assenze di mio padre, ignoravo qualsiasi norma e orario. Soltanto la fame e il sonno segnavano per me l’ora di rientrare a casa.”

“Le serate invernali, e i giorni di pioggia, io li occupavo con la lettura. Dopo il mare, e i vagabondaggi per l’isola, la lettura mi piaceva più di tutto. Per lo più leggevo in camera mia, sdraiato sul letto, o sul canapè, con Immacolatella ai miei piedi”

Arturo è profondamente stregato dal padre, che vede quasi come un dio, e lo imita in tutto e per tutto a partire dal comportamento arrogante verso gli abitanti dell’isola con cui praticamente non stringe amicizia ne intrattiene rapporti.

“La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza; ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa coppia, per chi ci incontrava! Lui che avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra gonfie e gli occhi duri, senza guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: ‘Procidani, passa mio padre!’ La mia statura, a quell’epoca, non oltrepassava i molto il metro, e i miei capelli neri, ricciuti come quelli di uno zingaro, non avevano mai conosciuto il barbiere (quando si facevano troppo lunghi, io, per non esser creduto una ragazzina, me li accorciavo energicamente con le forbici; soltanto in rare occasioni mi ricordavo di pettinarli; e nella stagione estiva erano sempre incrostati di sale marino).”

Una prima svolta arriva il giorno in cui il padre comunica che si sposa e tornerà sull’isola con la nuova moglie, Nunziata.

“Non tentavo per nulla di raffigurarmi quale aspetto e quale carattere potesse avere la nuova sposa di mio padre. Respingevo ogni curiosità. Che quella donna fosse fatta in un modo, o in un altro, per me, era uguale. Essa, per me, significava soltanto: il Dovere. Mio padre l’aveva scelta, e io non dovevo giudicarla.
Secondo i libri che avevo letto, una matrigna non poteva essere che una creatura perversa, ostile e degna di odio. Ma, come sposa di mio padre, costei, per me, era una persona sacra!”

Il rapporto tra Arturo e la matrigna non è semplice, Arturo è duro, scontroso, odia Nunziata forse perché lei rappresenta un ostacolo, un intruso nel suo rapporto col padre, che fino a quel momento (almeno sull’isola) era esclusivo, ora non può più avere tutte le (già scarsissime) attenzioni del padre per sé, probabilmente Arturo è geloso, geloso di tutto e tutti, del resto il padre è l’unico parente che ha al mondo. In realtà lo stesso Arturo a distanza di tanti anni non sa spiegare il suo sentimento verso la matrigna; è molto crudele con lei, non le parla, la lascia perennemente sola anche durante i pasti e soprattutto fa di tutto per instillare in Nunziata paura e terrore e si rammarica che nonostante il suo comportamento burbero e scontroso non riesce a causarle paura e alla base di questa sua ossessione c’è il desiderio di imitare e assomigliare al padre. Potrebbero invece farsi forza e compagnia a vicenda, in fondo sono entrambi due ragazzini.

“Soprattutto, una cosa mi esasperava sempre più, col passare dei giorni: e cioè che lei, tato timorosa di mio padre, di me, invece, non mostrava, mai, alcun timore! Quand’io la offendevo e la ingiuriavo, sebbene non mi replicasse mai nulla, tuttavia mi stava di fronte impavida come una leonessa. Simile suo contegno era un’altra riprova evidente che costei mi trattava alla stregua di un ragazzino, il quale non può farsi temere da una matrona pari a lei. Eppure, dall’epoca del sua arrivo, già la differenza fra le nostre due stature appariva abbastanza diminuita; e la sua audacia era uno schiaffo per me. Io avrei voluto, per soddisfazione del mio orgoglio, ispirarle paura quanto mio padre, in cospetto del quale essa tremava solo a un’ombra che gli passasse sulla fronte! e spesso, dimenticando tutte le altre mie ambizioni, mi perdevo nel progetto di diventare, da uomo, un brigante, un capobanda terribile, tale ch’essa dovrebbe cadere svenuta solo alla mia vista. Perfino la notte, certe volte, mi svegliavo con questo pensiero: Voglio farle paura, e m’immaginavo di usarle cattiverie inaudite, ogni sorta di barbarie, nella smania di essere odiato da lei com’io la odiavo.
Quando le impartivo ordini, e mi facevo servire da lei, mi atteggiavo alla maniera di un torvo imperatore che si volga a un soldato semplice. E lei era sempre docile e pronta a servirmi, ma questa sua ubbidienza mi non sembrava, per nessun segno, dettata dalla paura. Anzi, nell’affaccendarsi per me, ella si animava e assumeva perfino delle maniere pompose. E la sua faccia, da brutta e smorta, ridiventava fresca come un gelsomino. Forse, elle sperava che da parte mia il comandarlo, e il farmi servire da lei, significasse già un principio di riconciliazione? Non c’era modo di farle capire quanto fosse spietato il mio animo.”

Ma invece nonostante tutto Nunziata tiene un atteggiamento e un comportamento amorevole e pieno di cure e attenzioni verso Arturo, mandandolo ulteriormente in bestia:

“Il fatto era che io non volevo né cure né attenzioni da lei. La comandavo, per avere la soddisfazione di umiliarla, trattandola come un automa, un oggetto; ma le sue attenzioni gentili (quasi che davvero si presumesse una mia parente, mia madre!), mi erano insopportabili. In più di una occasione tornai a ripeterle: -Fra noi non c’è nessuna parentela. Tu non mi sei niente.”

Nunziata proviene da una famiglia molto povera, anche lei è orfana però di padre morto in un incidente sul lavoro, e la sua vita è immensamente triste, anche se forse la sua ignoranza e la sua semplicità non le consentono di comprendere appieno la sua situazione.

“Le sue noti, volgari, stridenti, si trascinavano piene di malinconia, come se tutte le canzoni che lei cantava avessero un argomento triste. Ma essa, credo, non aveva pensieri, e nemmeno era consapevole di non esser felice. Una pianta di garofano o di rosa, anche se, invece che in giardino, le tocca di stare sull’angolo di una finestruola, dentro un coccio, non si mette a pensare: Potrei avere un’altra sorte. E così era fatta lei, altrettanto semplice.”

Non capisco davvero il perché del matrimonio tra Wilhelm e Nunziata, capisco bene la famiglia di lei che la spinge tra le braccia di un uomo più vecchio, palesemente burbero e scontroso ma un “miliardario” o meglio un possidente, quindi un uomo benestante almeno secondo i suoi racconti. Ma non capisco le ragioni che hanno spinto Wilhelm a sposarsi e a insistere per avere Nunziata, pur di averla si converte al cattolicesimo ma l’ha sempre trattata male anche ai tempi del fidanzamento

“Così, divennero fidanzati. Ormai, gli si era promessa, ella non pensava più a sfuggirlo, sebbene, solo al vederlo da lontano, si sentisse gelare di spavento. Ciò che soprattutto la impauriva, era di trovarsi sola con lui; né avrebbe saputo dire la ragione di questo fatto, giacché in realtà, quando non v’erano altre persone, egli la trattava alla maniera solita, senza farle molta attenzione né darle confidenza, al punto che, andando a spasso con lei, non la teneva neppure sottobraccio. In ciò, essi differivano da tutti gli altri innamorati, che si vedevano andare in giro abbracciati e stretti; forse, ella pensava, lui era diverso perché era nato in un paese forestiero, e là al suo paese i fidanzati andavano in questo modo. Se talvolta egli la toccava, era solo per farle del male, come per esempio tirarle i ricci, o scuoterla per un braccio, o altri dispetti simili. Non erano dispetti terribili, ma pure bastavano a farla tremare. Ed egli allora la lasciava stare, e rideva fieramente dicendole: -Se hai tanta paura adesso, che siamo appena fidanzati, che sarà, quando ci sposeremo?

E infatti il trattamento che Wilhelm riserva alla neo sposa è davvero crudele e cattivo, non fa nulla per metterla a proprio agio, la tratta fondamentalmente come un serva e continuerà a fare la sua solita vita di giramondo.

“-Ricordati, - egli riprese, accendendosi di maggior violenza ad ogni parola, - che, sposati o no, io rimango sempre libero di andare e venire quando voglio, e non devo rispondere a nessuno di me stesso! Per me non esiste nessun obbligo né dovere, IO SONO UNO SCANDALO! Eh, non sarò a te, nennella, che dovrò render conto delle mie fantasie! Deve ancora nascere quel grande imperatore che potrà tenere in gabbia Wilhelm Gerace! E se tu, povera bambola pidocchiosa, credi che in conseguenza dello sposalizio, io deva rimanere attaccato ai tuoi stracci, farai meglio a disingannarti subito!”

“Mio padre girò il capo verso di lei: -Taci, tu- le rispose, -che sei appena nata, e, inoltre, sei nata stupida! Se dici ancora un’altra parola, ti ammazzo! Di certi sentimenti, ne faccio a meno io: li lascio ai disgraziati, che sono liberi soltanto la domenica. Non mi vanno, a me, i romanzi d’amore, di nessun genere. Ma l’amore delle femmine, poi, è il CONTRARIO dell'amor’!”

Ad un certo punto la storia prende una piega particolare, non voglio dire scontata ma io un po’ me l’aspettavo, ciò di cui Arturo ha bisogno è amore e amore materno, la sua nuova ossessione diventano i baci che non ricorda di aver mai dato o ricevuto. Inoltre Arturo sta crescendo e scoprirà l’amore e la delusione, inizia a vedere il padre sotto una luce diversa, si sente tradito fino alla rottura finale e l’abbandono dell’isola di Procida, momento che segna la sua definitiva crescita e l’ingresso nel mondo degli adulti. Fino a quel giorno Arturo è vissuto isolato dentro un universo tutto suo, non sapeva nulla della realtà del mondo esterno a Procida.

“In sostanza, io conoscevo la storia fino dai tempi degli antichi egiziani, e le vite degli eccellenti condottieri, e le battaglie di tutti i passati secoli. Ma dell’epoca presente contemporanea, non sapevo nulla. Anche quei pochi segnali dell’epoca presente che arrivavano all’isola, io li avevo appena intravisti senza nessuna attenzione. Non m’aveva incuriosito mai, l’attualità. Come fosse tutto cronaca ordinaria da giornali, fuori dalla Storia fantastica, e delle Certezze Assolute.”

La scrittura è ricca ed immersiva con tante parole del dialetto locale che rendono ancora più vivido e reale il personaggio di Arturo. Come detto la narrazione è in prima persona, è lo stesso Arturo a raccontare e ovviamente l’unico punto di vista e le uniche sensazioni e pensieri che possiamo conoscere sono i suoi; così noi lettori non possiamo entrare nella mente degli altri personaggi che rimangono indefiniti e quasi incompiuti e i loro segreti nascosti.

La storia di Arturo, ma anche quella di Nunziata, mi ha suscitato tanta tenerezza, sono storie tristi e dolorose mentre Wilhelm mi ha riempito di rabbia.

I personaggi sono ben delineati e anche molto realistici, ma come detto conosciamo davvero bene solo Arturo.

Arturo è un ragazzino taciturno, abituato alla libertà e alla solitudine del resto – come detto – ha praticamente sempre vissuto solo, cerca di imitare il padre e di fare colpo su di lui (senza riuscirci), vede nel padre un Dio infallibile e un esempio da seguire, è appassionato di lettura, con una grande sete di avventure in giro per il mondo come quelle che legge nei suoi romanzi e come quelle che crede il padre viva tutte le volte che è lontano dall’isola. Probabilmente Arturo soffre “di gelosia” verso tutto e tutti, in particolare verso ciò che può essere di intralcio tra lui e l’oggetto dei suoi desideri, in primis il padre, e questo sentimento lo spinge a comportamenti odiosi e strafottenti, non è abituato a mostrare e tanto meno a parlare delle proprie emozioni; tutto sommato lo si può anche capire, non è altro che un ragazzino che è dovuto crescere per forza, che non sa cos’è una famiglia e cos’è l’amore.

Nunziata arriva a Procida giovanissima, ha sedici anni (Arturo ne ha quattordici!) fa quel che può per badare alla casa e al figliastro, nonostante tutto cerca di essere amorevole e paziente con Arturo, è molto religiosa e riuscirà a fare amicizia con altre donne.

Wilhelm è prepotente, beffardo, tirannico, violento e feroce, scostante; è una figura sfuggente e misteriosa, ma anche invincibile e un vero eroe questo è quello che pensa Arturo, che come ogni bambino adora il padre. Forse anche perché il narratore è Arturo che Wilhelm rimane sfocato, fino alla fine non si capiscono le ragioni di molte sue scelte, non fa nulla né per il figlio né per Nunziata, non fa nulla nemmeno per facilitare la loro convivenza. Semplicemente vive la sua vita fregandosene degli altri. È un personaggio antipatico che ho odiato profondamente per il suo comportamento arrogante e menefreghista verso il figlio. Perché se ne va in giro e lascio Arturo da solo a Procida? Cosa fa in giro? Che lavoro fa? Certo va contestualizzato al periodo storico in cui è ambientato ma io non posso e non voglio credere che tutti gli uomini e mariti fossero come Wilhelm e nello stesso romanzo viene data prova che questa non è l’unica realtà possibile.  Wilhelm forse solo una volta o massimo due fa il padre, rimane torbido e pieno di misteri che non vengono svelati anche se alla fine del libro il lettore può intuire alcune cose e azzardare ipotesi che però non possono trovare conferma; per me rimane un uomo assolutamente mediocre e insulso e lo trovo uno dei personaggi più antipatici che finora ho trovato nei libri.

Un bellissimo romanzo di formazione con un protagonista indimenticabile, libero, selvaggio con un proprio codice d’onore e una terribile storia di solitudine.

Una lettura magnifica che rimarrà a lungo nei miei pensieri.

Conoscete Elsa Morante? Avete letto L’isola di Arturo? Vi aspetto nei commenti