venerdì 14 agosto 2020

CIGNI SELVATICI. TRE FIGLIE DELLA CINA - JUNG CHANG

TITOLO: Cigni selvatici. Tre figlie della Cina
AUTORE: Jung Chang - traduzione di Lidia Perria
EDITORE: Tea
PAGINE: 677
PREZZO: € 14,00
GENERE: memoir, letteratura cinese
LUOGHI VISITATI: Cina dai primi del '900 alla fine degli anni '70
acquistabile su amazon: qui (link affiliato)



“Quella notte, mente dal letto ascoltavo i colpi di arma da fuoco e gli altoparlanti dei Ribelli che vomitavano improperi da far gelare il sangue, raggiunsi una svolta fondamentale nella mia vita: mi avevano sempre detto, e io ci avevo creduto, che vivevamo in un paradiso terrestre, la Cina socialista, mentre il mondo capitalista era l’inferno. Ora mi chiedevo: se questo è il paradiso, allora l’inferno che cos’è? Decisi che mi sarebbe piaciuto vedere con i miei occhi se nel mondo esisteva davvero un posto più carico di sofferenza. Per la prima volta, arrivai a odiare consapevolmente il regime sotto il quale vivevo e a desiderare ardentemente un’alternativa.”

Un libro importante. Affronta la Storia della Cina attraverso la storia della propria famiglia dagli inizi del ‘900 fino alla fine degli anni ’70. Ricostruendo la vita della nonna Yu-fang si assiste alla vita in Manciuria agli inizi del ventesimo secolo, una società basata sui signori della guerra, dove si fasciano ancora i piedi alle bambine, dove le donne sono merce di scambio e dilaga il mondo marcio delle concubine. La nonna è una donna forte, che saprà rialzarsi, saprà imporsi e riuscirà anche a vivere una vita abbastanza felice almeno in alcuni momenti. La vita della nonna e della madre di Jung, De-Hong si svolge in Manciuria, una regione nel nord-est della Cina al confine con la Corea, regione che è stata un dominio giapponese fino alla fine della seconda guerra mondiale. Emerge subito la mancanza di un governo forte che si prenda cura e protegga realmente i propri cittadini, così gli abitanti della Manciuria passano dalle angherie subite sotto il dominio giapponese, a quelle conseguenti l’arrivo dei nuovi padroni del Kuomintang e poi alla guerra civile tra il Kuomintang e i comunisti di Mao. Il Kuomintang è il partito che ha governato la Cina (ci ha provato) dall’instaurazione delle Repubblica fino all’avvento dei comunisti nel 1949. De-hong è una ragazza forte, indipendente, attiva che si avvicina ed entra a far parte dei comunisti. Qui incontra l’amore della sua vita, Wang Shou-yu (il padre di Jung Chang) e si sposano, trasferendosi prima a Yibin nel Sichuan, paese natale di Wang e poi a Chengdu. La loro vita è fatta di lavoro sono membri del Partito Comunista e come tali sono funzionari statali, a dare loro una mano con i figli c’è fondamentalmente la nonna Yu-fang e la zia paterna Jun-ying.

Ma la vita sotto il regime di Mao non è affatto il paradiso che dittatore vuol far credere. Si inizia con continue campagne contro i traditori (veri o presunti), sono cacce alle streghe fatte di numeri, i funzionari devono consegnare un certo numero di colpevoli pena essere considerati complici dei nemici di classe (se si trovano nemici di classe vanno creati); un continuo succedersi di campagne di odio in cui i carnefici finivano per essere vittime nella campana successiva; viene analizzata la politica economica del Grande Balzo in Avanti che è stata a dir poco fallimentare fino ad arrivare agli anni bui della Rivoluzione Culturale, un periodo particolarmente buio e opprimente, diretto ad eliminare lo stesso partito comunista per fare di Mao il solo e unico leader incontrastato.

“Sotto il governo di Mao era cresciuta una generazione di adolescenti che aspettavano di combattere i nemici di classe, e i vaghi appelli della stampa alla Rivoluzione Culturale avevano contribuito a generare la sensazione che fosse imminente una ‘guerra’. Alcuni giovani politicamente accorti intuivano che vi era direttamente coinvolto il loro idolo, Mao, e l’indottrinamento che avevano ricevuto non lasciava loro altra scelta che schierarsi al suo fianco. Fin dai primi di giugno, gli attivisti dei una scuola media superiore collegata a una delle università più note della Cina, la Qinghua di Pechino, si era ritrovati più volte per discutere le strategie da adottare nella battaglia imminente e avevano deciso di chiamarsi ‘le Guardie Rosse del presidente Mao’; come motto, avevano adottato una citazione di Mao comparsa sul Quotidiano del Popolo: ‘La ribellione è giustificata’. […] Per i fanatici adolescenti, fu come se un dio in persona avesse parlato loro, e ben presto gruppi di Guardie Rosse fiorirono in tutta Pechino e poi pian piano in tutta la Cina. Mao voleva che le Guardie Rosse fossero le sue truppe d’assalto: si era reso conto che la gente non rispondeva ai suoi ripetuti inviti ad attaccare i seguaci del capitalismo. […] Se voleva che la popolazione entrasse in azione, Mao doveva sottrarre potere al Partito e gettare le basi perché a lui solo fossero dovute fedeltà e obbedienza. Per raggiungere tale scopo aveva bisogno del terrore, un terrore intenso che soffocasse ogni altra considerazione e annientasse ogni altra paura. E gli agenti ideali erano proprio ragazzi e ragazze adolescenti, cresciuti nel culto fanatico della personalità di Mao e della dottrina militante della ‘lotta di classe’. Avevano tutti i pregi della giovinezza: erano ribelli, impavidi, pronti a combattere per una ‘giusta causa’, assettati di avventura e di azione. Ed erano anche irresponsabili, ignoranti, facili da manipolare… e inclini alla violenza. Soltanto loro potevano dare a Mao l’immensa forza che gli era necessaria per terrorizzare l’intera società e creare il caos che avrebbe scosso e infine distrutto le fondamenta del Partito. Uno slogan riassumeva il compito delle Guardie Rosse: ‘Ci impegniamo a combattere una guerra sanguinosa contro chiunque osi resistere alla Rivoluzione Culturale, contro chiunque osi opporsi al presidente Mao’”.

Le regole sono fondamentali e il Partito ha da sempre imposto regole ferree ai propri membri, lo scopo è creare un paese forte, egualitario eliminando corruzione e nepotismo che erano tipici della vecchia Cina. Manipolazione delle informazioni, indottrinamento della popolazione diretto a eliminare la capacità di pensiero libero delle persone, infine caposaldo imprescindibile le autocritiche, il momento in cui il soggetto deve denunciare pubblicamente le proprie colpe.

“Quelle intrusioni sistematiche del Partito nella vita privata della gente erano uno dei punti chiave di quel processo noto sotto il nome di ‘riforma del pensiero’. Mao esigeva non solo una disciplina esteriore, ma l’assoggettamento totale di tutti i pensieri, grandi o piccoli che fossero. Ogni settimana si teneva una riunione dedicata ‘all’esame del pensiero’ per coloro che ‘erano nella rivoluzione’. Ognuno doveva criticare sé stesso per i propri pensieri scorretti e sottomettersi alle critiche degli altri. Le riunioni tendevano a essere dominate da persone meschine e supponenti convinte di essere nel giusto, che ne approfittavano per dare sfogo alla propria invidia e frustrazione; in particolare, le persone di origine contadina le sfruttavano per attaccare quelli di origini ‘borghesi’. L’idea di fondo era che tutti dovevano ‘riformarsi’ per diventare sempre più simili ai contadini, perché la rivoluzione comunista era in sostanza una rivoluzione contadina. Tale processo faceva leva sui sensi di colpa di coloro che avevano studiato: essi avevano vissuto in condizioni migliori dei contadini, e l’autocritica verteva sempre su quel punto. Le riunioni erano un mezzo di controllo importante per i comunisti: non lasciavano tempo libero, ed eliminavano la sfera privata. La meschinità che le dominava era giustificata con la scusa che ingerirsi nei dettagli personali era un modo di garantire una completa pulizia dell’anima. In realtà, la meschinità era una caratteristica fondamentale di una rivoluzione in cui l’intrusione e l’ignoranza venivano esaltate, e l’invidia era incorporata nel sistema di controllo. La cellula di mia madre la tormentò una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro, costringendola a infinite autocritiche.”

 

“Da bambina mi ero fatta un’idea dell’Occidente come di un miasma di povertà e di squallore, su tipo della Piccola fiammiferaia, la favola di Hans Christian Andersen. Nel periodo in cui ero all’asilo e non volevo finire il piatto, la maestra mi diceva: «Pensa a tutti quei bambini che muoiono di fame nel mondo capitalista!» E a scuola, quando cercavano di spronarci a un maggior impegno nello studio, gli insegnanti ripetevano spesso: «Siete fortunati ad avere una scuola e dei libri da leggere. Nei Paesi capitalisti i bambini devono lavorare per mandare avanti la famiglia e non morire di fame». Spesso gli adulti, quando volevano farci accettare qualcosa, dicevano che la gente in Occidente avrebbe fatto i salti mortali per averla, e perciò noi dovevamo apprezzare la nostra fortuna. Alla fine mi riusciva automatico pensarla a quel modo. Quando vidi una mia compagna di classe indossare un nuovo tipo di impermeabile di plastica rosa trasparente che non avevo mai visto, pensai a come sarebbe stato bello rimpiazzare il mio vecchio ombrello di carta paraffinata con un impermeabile come il suo, ma mi castigai subito per quella tendenza ‘borghese’, e scrissi nel diario: «Pensa a tutti i bambini dei Paesi capitalisti: per loro un ombrello è già un sogno!»”

Gli anni vissuti da Chang in prima persona con coscienza perché inizia ad essere una ragazzina sono gli anni della Rivoluzione Culturale, che sono anche il periodo dove i suoi genitori sono sottoposti a “processi” o meglio sessioni di denuncia e ripetutamente incarcerati, sono anni difficili per la famiglia Chang e lo sono perché i suoi genitori fanno di tutto per salvare i loro figli ma anche e soprattutto la dignità e l’ideale comunista; sono gli anni in cui si abbandona la scuola per andare a lavorare nelle campagne accanto ai contadini oppure in fabbrica. Quelli della Rivoluzione Culturale sono forse gli anni più bui, dove prevale la violenza, l’odio e il risentimento personale più che vere colpe politiche; bisogna prestare attenzione a ogni minimo dettaglio perché tutto può essere interpretato come oltraggio al Presidente Mao:

“‘Rilassarsi’ era diventato un concetto obsoleto: libri, quadri, strumenti musicali, sport, carte, scacchi, sale da tè, bar… erano tutti scomparsi. I parchi erano luoghi desolati, deserti in cui erba e fiori erano stati estirpati e uccellini e pesci rossi eliminati. Film, commedie e concerti erano stati messi al bando: la moglie di Mao aveva fatto piazza pulita di tutte le opere teatrali e cinematografiche per far posto alle otto ‘Opere rivoluzionarie’ alla cui produzione lei stessa aveva collaborato e che erano le uniche a poter essere messe in scena. Nelle provincie, comunque, la gente non osava rappresentare nemmeno queste: una volta un regista era stato condannato perché il trucco dell’eroe, picchiato e torturato, era stato giudicato eccessivo dalla moglie di Mao. Il regista era stato condannato per ‘aver esagerato le asprezze della lotta rivoluzionaria’. A malapena uscivano per passeggiare. Fuori, l’atmosfera era terrificante, con violente sessioni di denuncia a ogni angolo di strada e sinistri tazibao su ogni muro. Le persone in giro sembravano morti viventi, con il volto atteggiato a un’espressione a volte dura e a volte semplicemente bovina. Oltretutto, i lividi e i graffi sul volto dei miei genitori li qualificava come condannati, e uscendo correvano anche il rischio di essere malmenati.

Un esempio tipico del terrore che regnava in quel periodo era il fatto che nessuno osava più bruciare o gettare via i giornali vecchi: in prima pagina c’era il ritratto di Mao, e ogni due o tre righe c’erano le sue citazioni. Per questo andavano conservati, e cercare di disfarsene significava passare guai grossi. D’altro canto, anche conservarli era un problema: i topi potevano sempre rosicchiare il ritratto, oppure la carta poteva marcire, ed entrambe le possibilità sarebbero state interpretate come un crimine contro Mao.”

Il merito e il sapere vengono tacciati come ‘borghesi’, la società è allo sbando e si vive nel terrore costante di possibili ripercussioni:

“[…] non c’erano principi a regolare il comportamento quotidiano della gente o la condotta del Partito, e la corruzione era tornata a fare la parte del leone. I funzionari pensavano in primo luogo alle loro famiglie e ai loro amici; nel timore di essere percossi, gli insegnanti assegnavano voti alti a tutti gli studenti, senza badare alla qualità del loro lavoro; i bigliettai degli autobus non facevano pagare il biglietto, e così via. La dedizione al bene della collettività veniva irrisa apertamente: la Rivoluzione Culturale di Mao aveva distrutto tanto la disciplina del Partito quanto la morale civica.”

Alla storia della sua famiglia Jung Chang sovrappone la Storia della Cina, quella storia che lei, sua madre e sua nonna, e in generale la sua famiglia, hanno vissuto sulla propria pelle. Vengono analizzate le ragioni di ogni singolo avvenimento, tutto è corredato da studi critici e pareri personali della Chang.

Un libro che è combinazione tra storia personale e Storia politica, economica e culturale della Cina. È la dimostrazione della deriva totalitaria e dittatoriale di Mao, che ha epurato il suo stesso partito, che ha lacerato il suo popolo e ha quasi distrutto il suo Paese, un dittatore di cui ancora si conosce poco, ed è proprio questa una delle ragioni che ha spinto Jung Chang ha scrivere questo libro. Si possono studiare o perlomeno apprendere fatti storici attraverso la voce di chi li ha vissuti.

La narrazione è scorrevole, ricca di spunti di riflessione e di riflessioni personali dell’autrice che a posteriori analizza i fatti e anche i propri pensieri e le proprie sensazioni. Un aspetto molto interessante sono le descrizioni, in particolare quelle naturalistiche sono davvero meravigliose e rendono l’idea dell’ambiente circostante; ma vengono descritte anche le tradizioni, la società e il suo modo di vivere e di essere anche sotto il dominio di Mao e vengono descritte anche le risorse architettoniche e culturali andate distrutte che la Chang ha avuto modo di vedere.

“Una casa da tè nel Sichuan è un posto ineguagliabile. Di solito si trova all’interno di un boschetto di bambù o al riparo all’ombra di un grande albero. Intorno ai tavoli di legno bassi e squadrati ci sono poltrone di bambù che anche dopo anni di uso emanano un aroma delicato. Per preparare il tè si lascia cadere nella tazza un pizzico di foglie, versandovi sopra dell’acqua bollente. Poi sulla tazza di mette un coperchio che non chiude del tutto, e il vapore fuoriesce dall’apertura, emanando la fragranza del gelsomino o di altri fiori. Nel Sichuan esistono moltissimi tipi di tè: quello al gelsomino, da solo, conta cinque varietà. Le case da tè sono importanti per gli abitanti del Sichuan quanto i pub per gli inglesi. Gli uomini anziani, in particolare, vi trascorrono gran parte del loro tempo, fumando pipe dal cannello lungo e bevendo il tè, accompagnato da un piattino di noci e semi di melone. Il cameriere si aggira fra le poltrone con un bricco pieno di acqua bollente, che versa da mezzo metro di distanza con precisione incredibile. Un bravo cameriere riesce a far arrivare il livello dell’acqua oltre quello della tazza senza che trabocchi. Da bambina restavo incantata a guardare l’acqua cadere dal beccuccio. Capitava di rado, comunque, che i miei genitori mi portassero in una casa da tè, in quanto vi regnava un’atmosfera di rilassatezza che loro disapprovavano. Come nei caffè europei, anche nelle case da tè ci sono giornali a disposizione dei clienti, e alcuni ci vanno per leggere; ma lo scopo principale è incontrarsi e chiacchierare, scambiandosi notizie e pettegolezzi. Spesso c’è anche uno spettacolo: la narrazione di un cantastorie che si accompagna con il battito ritmico di due bastoncini di legno.”

Il libro fornisce delle ricostruzioni storiche accurate, documentate e interessanti a cui vengono aggiunti l’esperienza personale e le proprie opinioni critiche. Una lettura preziosa, oserei dire che è quasi un via di mezzo tra un’autobiografia e un saggio.

Emerge una denuncia alla dittatura di Mao e al suo tradimento verso i principi che stavano alla base del suo stesso Partito Comunista. Principi che sulla carta potevano davvero fare della Cina un paradiso: alfabetizzare; intervenire in favore delle donne riconoscendo loro una parità e un uguaglianza, sancire che non sono obbligate ad accettare matrimoni che non vogliono imposti dalla famiglia, avere un ruolo attivo nella società; provvedere ai bisogni della gente; eliminare la corruzione che era una delle piaghe della vecchia Cina. Tutti principi che vengono disattesi. Inutile dire che il libro è tutt’oggi bandito in Cina, ma non lo è l’autrice che può circolare liberamente nel suo paese natale e riscuotere l’appoggio delle persone comuni che clandestinamente hanno letto il libro e imparato molto sulla propria storia.

Ci sono davvero tante cosa da dire perché tante sono le esperienze e le vicende narrate, ripeto che la lettura di questo libro è un modo per approcciarsi e iniziare ad approfondire la storia recente delle Cina. 

Davvero super consigliato! Voglio approfondire ulteriormente questa scrittrice.

Ho scelto di leggere questo libro per la tappa del mese di agosto del progetto #ilgirodelmondoin12letture: l’Estremo Oriente. E ho scelto questo libro per varie ragioni: primo questo libro aspettava da anni in libreria; secondo è da poco uscito un nuovo romanzo della Chang edito in Italia sempre da Tea; terzo è un memoir e questa è l’estate dei memoir.

Lo conoscete? Avete letto altro della Chang?

giovedì 6 agosto 2020

KIRIBATI. CRONACHE ILLUSTRATE DI UNA TERRA (S)PERDUTA - ALICE PICIOCCHI e ANDREA ANGELI

TITOLO: Kiribati. Cronache illustrate di una terra (s)perduta
AUTORE: Alice Piciocchi e Andrea Angeli
EDITORE: 24 Ore Cultura
PAGINE: 140
PREZZO: € 16,90
GENERE: albo illustrato - letteratura di viaggio - letteratura italiana
LUOGHI VISITATI: Kiribati
acquistabile su amazon: qui (link affiliato)



“Ci dice che ha viaggiato tanto nella vita, che ha fatto il marinaio per compagnie ittiche per oltre vent’anni: è stato in Indonesia, nelle Filippine, in Australia, in Giappone e ancora nel Mediterraneo. Ma nessun posto è come Kiribati, non c’è alcun luogo in cui vorrebbe vivere al di fuori di questi confini. Spiega come mai. Ovunque è il denaro che detta legge. Devi guadagnare per mangiare, per uscire la sera, per pagare la scuola ai tuoi figli, per vestirti, per permetterti una casa. Qui invece la vita è facile: la cena si trova appesa agli alberi e in fondo al mare, un giaciglio si costruisce in quattro giorni e il materiale te lo dà la natura. È sempre tutto fresco, non c’è bisogno di frigoriferi, si può pescare, raccogliere, costruire giorno per giorno, senza mai preoccuparsi del domani. Solo ad Onea (per contrastare il caldo) hanno sviluppato una particolare tecnica di essicazione per conservare i cibi e contrastare l’eventualità di carestie […] Gli chiediamo se invece a lui è mai capitato di portarsi avanti in modo simile. Ci guarda sbigottito come se avessimo ipotizzato una sciagura. Taglia corto, quasi offeso, e asserisce che spera che non gli capiterà mai di dover pensare al futuro.”

 

Kiribati. Cronache illustrate da una terra (s)perduta.

Una lettura particolare e piacevole, un modo per entrare in contatto con un popolo e una cultura molto diversa e lontana dalla nostra. Il libro è una sorta di diario di viaggio, un diario delle esperienze che gli autori hanno vissuto durante il loro soggiorno nelle Kiribati. Le esperienze, gli incontri, le avventure e disavventure diventano il pretesto per parlare di un particolare aspetto sulla vita nelle isole di questo paradisiaco atollo; la lettura è estremamente scorrevole.

Il volume è strutturato secondo un’alternanza di parti scritte che trattano un particolare argomento - in modo molto sintetico, una massimo due pagine - con una tavola oppure un’iconografia. Le illustrazioni sono stupende: semplici ma d’imbatto, pulite, lineari, esplicative e caratterizzate dalla predominanza di tre colori, il rosso, il giallo ocra e uno scuro azzurro carta da zucchero, mentre i tratti sono neri. Ma le tavole non sono le uniche parti disegnate, a margine delle pagine di narrazione molto spesso ci sono dei piccoli disegni in bianco e nero che illustrano un particolare trattato nel testo ad esempio un frutto o uno strumento o un abito tipico; illustrazione corredata anche da un breve spiegazione ulteriore. Tra le tavole illustrate che preferisco ci sono quelle di confronto, paragone con il mondo occidentale colorando di rosso le cose presenti a Kiribati e d’azzurro quelle che non ci sono, in particolare sono così strutturate le tavole su frutta e ortaggi presenti negli atolli e quella intitolata “Il paesaggio artificiale” che mette in relazione oggetti pubblici di uso comune così scopriamo che a Kiribati non ci sono i semafori e i lampioni e nemmeno le banchine.

Alla fine del volume ci sono due sezioni speciali. La prima è il glossario, dove, in ordine alfabetico, vengono riportati gli elementi più caratteristici sia di Kiribati, ma anche più in generale quegli aspetti o oggetti che caratterizzano un’etnia, una cultura e permette un raffronto con le altre: così ad esempio ci sono abbigliamento, abitazione, clima, mezzi di trasporto, religione, sanità, strada, a cui si aggiungono tutta una serie di parole autoctone come kava, tarawa. In questa sezione si possono approfondire alcuni elementi, seppur nell’estrema sintesi, come politica e religione.

La seconda è una linea cronologica chiamata “Andirivieni” dove sono indicate le epoche e le date più significative della millenaria storia delle Kiribati, dai primi insediamenti umani, all’indipendenza passando per gli esploratori europei e la Seconda Guerra Mondiale; linea cronologica accompagnata da un breve scritto riassuntivo.

Le Kiribati sono uno stato insulare dell’Oceania, si trovano in mezzo all’oceano Pacifico e si compongono di tre arcipelaghi principali (le Isole Gilbert, le Isole della Fenice e le Isole Sporadi equatoriali, a cui si aggiunge l’isola di Banaba) per un territorio totale di circa 811 km2, sono stato un protettorato britannico, e dal 1979 anno dell’indipendenza sono una Repubblica Presidenziale.

Gli autori Alice Piciocchi e Andrea Angeli (che è il curatore delle illustrazioni) sono degli esploratori del nuovo millennio, alla base del viaggio nelle Kiribati c’è una ragione molto singolare: hanno sentito parlare di un piano di evacuazione, uno spostamento in massa della popolazione nel caso gli atolli venissero sommersi dalle acque- ipotesi purtroppo non remota dato l’innalzamento del livello dei mari dovuto all’inquinamento e ai cambiamenti climatici in corso – in vista di questa evenienza nel 2014 il Presidente della Repubblica di Kiribati ha acquistato una nuova terra alle Fiji dove trasferire la propria nazione in caso di necessità. E cosa hanno trovato?  Persone che vivono tranquillamente la loro vita; la popolazione delle Kiribati, almeno la stragrande maggioranza, ignora il piano di evacuazione e tutte le problematiche legate ai cambiamenti climatici; tant’è che loro stessi continuano a mettere in atto comportamenti in qualche modo rischiosi per la sopravvivenza delle isole stesse.

Irrinunciabile, pur nella sua semplicità ed essenzialità. È un po' come guardare un filmato di viaggio negli atolli, come spesso se ne vedono in televisione, penso al programma Alle Falde del Kilimangiaro per citarne uno oppure a quelli di Turisti per caso; quei filmati che non sono un documentario ma si avvicinano, l’esplorazione non è possibile senza un contatto diretto e con la partecipazione dei locali, che molto spesso sono ospitali e generosi, e mostrano la propria cultura e le proprie tradizioni.

Davvero una bella esperienza. Un modo per viaggiare lontano con la fantasia stando comodamente in poltrona, questo libro è proprio un’esperienza di viaggio, un’esperienza molto diversa dalla lettura di un romanzo (o di un saggio) che è comunque un modo per conoscere il mondo, ma attraverso un romanzo lo conosciamo in via mediata attraverso l’ambientazione, il modo di pensare dei personaggi, il sistema culturale e sociale in cui sono inseriti.

A voi piacciono questi viaggi attraverso le pagine?