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venerdì 26 aprile 2024

CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA di GABRIEL GARCÌA MARQUEZ

TITOLO: Cronaca di una morte annunciata
AUTORE: Gabriel Garcìa Marquez traduzione di: Dario Puccini
EDITORE: Mondadori
PAGINE: 132
PREZZO: € 12,50
GENERE: letteratura colombiana, letteratura sudamericana, libri brevi
LUOGHI VISITATI: Colombia
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Lettura stupefacente: ho preso in mano il libro senza grandi aspettative, quasi priva di interesse perché conoscevo già la storia per aver tantissimo sentito parlare (bene) del libro sia perché tutto sommato la trama è semplicissima e quello che accade noi lo sappiamo già. Ma leggere il libro è tutta un'altra cosa pur già conoscendolo! Quindi se come me sapete (o pensate di sapere) già tutto, fatevi il favore di leggerlo merita davvero tanto.

La trama di base è semplicissima: un uomo, Santiago Nazar verrà ucciso dai fratelli Vicario per vendicare un delitto d’onore, tutti lo sanno ma nessuno fa niente per impedirlo.

Abbiamo un io narrate che torna nella città natale di Santiago tanti anni dopo il fatto e ricostruisce quella fatidica giornata, e come dice il titolo è appunto una cronaca dove si dà conto di tutto ciò che accadde, il narratore intervista e ascolta tante persone, è anche lui del luogo e conosce tutti dalla vittima ai carnefici passando per il resto della comunità che è rimasta inerme. Dall’alba i fratelli Vicario vanno in giro dicendo di voler uccidere Santiago Nazar ma nessuno fa o dice nulla, anzitutto perché i delitti d’onore sono cosa buona e giusta (tanto che gli assassini verranno assolti) e poi perché nessuno li prende sul serio: c’è chi le ritiene chiacchere da ubriachi o spacconerie tanto più che vittima e carnefici appartengono a due classi sociali diverse, Nazar è un ricco proprietario terriero quindi una sorta di intoccabile… Ma per una serie di ragioni, coincidenze e casualità invece il fatto si concretizza.

Il racconto è un mezzo per denunciare una società machista, maschilista e patriarcale, una società dove ricorrere al delitto d’onore è possibile e doveroso (ma ricordiamoci che fino agli anni ’80 in Italia esisteva il “matrimonio riparatore”) ed è anche un modo per rendere giustizia ad un caro amico Cayetano Gentile ucciso in un delitto d’onore.

È un libro breve, intenso, che si legge in poche ore (io l’ho letto tutto in un giorno, praticamente in un pomeriggio) è un libro corale, ci sono tanti personaggi, tutto il paese è partecipe del dramma che andrà a compiersi, tutti in qualche modo sono protagonisti, è un dramma comunitario e sociale, molte le persone che a distanza di decenni ricorderanno quella giornata con l’io narrante quando li incontra per ricostruire l’accaduto; ma la voce narrante è una soltanto una quella del nostro narratore scrittore che ricostruisce la vicenda. Resterà il dubbio circa la “colpevolezza” di Santiago, non verrà svelato questo particolare perché la custode del segreto non lo fa e quindi non possiamo conoscere la verità essendo una cronaca, una ricostruzione di fatti.

Si tratta del mio primo approccio a Marquez, sicuramente voglio approfondire la conoscenza già mi aspettano in libreria Cent’anni di solitudine e L’amore ai tempi del colera.

Vi aspetto nei commenti per sapere se lo avete letto (altrimenti fatevi questo regalo) e cos’altro mi consigliate di Marquez.


mercoledì 10 febbraio 2021

L'ISOLA DI ARTURO DI ELSA MORANTE

TITOLO: L'isola di Arturo
AUTORE: Elsa Morante
EDITORE: Einaudi (collana ET Scrittori)
PAGINE: 392
PREZZO: € 13,00
GENERE: romanzo di formazione, letteratura italiana
LUOGHI VISITATI: isola di Procida fine anni '30
Vincitore del Premio Strega nel 1957

acquistabile su amazon: qui (link affiliato)

 


Una storia bella, toccante e tragica.

Protagonista e voce narrante è Arturo Gerace, che adulto ricorda e racconta la sua infanzia e fanciullezza sull’isola di Procida.

Arturo vive e cresce praticamente da solo e abbandonato a sé stesso sull’isola di Procida, è orfano di madre e il padre, va e viene, torna, sta qualche giorno e riparte per il continente, fa quello che vuole e del figlio praticamente non si interessa. Nei primissimi anni di vita Arturo ha un balio, un ragazzo napoletano di nome Silvestro – che è anche praticamente il suo unico amico – che però lascia Procida quanto è chiamato al servizio di leva; da quel momento l’unico aiuto arriva da Costante, il colono che fa da cuoco ai Gerace, andando alla casa una volta al giorno a cucinare i pasti che lascia in cucina.

“La mia casa non dista molto da una piazzetta quasi cittadina (ricca, fra l’altro, di un monumento di marmo), e dalle fitte abitazioni del paese. Ma, nella mia memoria, è divenuta un luogo isolato, intorno a cui la solitudine fa uno spazio enorme. Essa è là, malefica e meravigliosa, come un ragno d’oro che ha tessuto la sua tela iridescente sopra tutta l’isola.”

Arturo vive in una decadente abitazione signorile detta “la casa dei Guaglioni” perché il vecchio proprietario Romeo l’Amalfitano (grande amico del padre di Arturo, Wilhelm a cui rimarrà in eredità) era solito fare molte feste ma invitando esclusivamente uomini e ragazzi perché odiava le donne, tutte le donne nel loro genere.

La vita di Arturo scorre tra giornate in esplorazione dell’isola e in giro per il mare con la sua barca e la lettura dei libri e romanzi che si trova in casa, su cui si forma e che rappresentano anche la sua unica fonte di istruzione e termine di paragone con la vita e il mondo. La vita che conduce Arturo è selvaggia e libera e senza regole, una vita che condivide con la sua fedelissima cagnetta Immacolatella.

“… Mio padre non si curò mai di farmi frequentare le scuole: io vivevo sempre in vacanza, e le mie giornate di vagabondo, soprattutto durante le lunghe assenze di mio padre, ignoravo qualsiasi norma e orario. Soltanto la fame e il sonno segnavano per me l’ora di rientrare a casa.”

“Le serate invernali, e i giorni di pioggia, io li occupavo con la lettura. Dopo il mare, e i vagabondaggi per l’isola, la lettura mi piaceva più di tutto. Per lo più leggevo in camera mia, sdraiato sul letto, o sul canapè, con Immacolatella ai miei piedi”

Arturo è profondamente stregato dal padre, che vede quasi come un dio, e lo imita in tutto e per tutto a partire dal comportamento arrogante verso gli abitanti dell’isola con cui praticamente non stringe amicizia ne intrattiene rapporti.

“La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza; ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa coppia, per chi ci incontrava! Lui che avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra gonfie e gli occhi duri, senza guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: ‘Procidani, passa mio padre!’ La mia statura, a quell’epoca, non oltrepassava i molto il metro, e i miei capelli neri, ricciuti come quelli di uno zingaro, non avevano mai conosciuto il barbiere (quando si facevano troppo lunghi, io, per non esser creduto una ragazzina, me li accorciavo energicamente con le forbici; soltanto in rare occasioni mi ricordavo di pettinarli; e nella stagione estiva erano sempre incrostati di sale marino).”

Una prima svolta arriva il giorno in cui il padre comunica che si sposa e tornerà sull’isola con la nuova moglie, Nunziata.

“Non tentavo per nulla di raffigurarmi quale aspetto e quale carattere potesse avere la nuova sposa di mio padre. Respingevo ogni curiosità. Che quella donna fosse fatta in un modo, o in un altro, per me, era uguale. Essa, per me, significava soltanto: il Dovere. Mio padre l’aveva scelta, e io non dovevo giudicarla.
Secondo i libri che avevo letto, una matrigna non poteva essere che una creatura perversa, ostile e degna di odio. Ma, come sposa di mio padre, costei, per me, era una persona sacra!”

Il rapporto tra Arturo e la matrigna non è semplice, Arturo è duro, scontroso, odia Nunziata forse perché lei rappresenta un ostacolo, un intruso nel suo rapporto col padre, che fino a quel momento (almeno sull’isola) era esclusivo, ora non può più avere tutte le (già scarsissime) attenzioni del padre per sé, probabilmente Arturo è geloso, geloso di tutto e tutti, del resto il padre è l’unico parente che ha al mondo. In realtà lo stesso Arturo a distanza di tanti anni non sa spiegare il suo sentimento verso la matrigna; è molto crudele con lei, non le parla, la lascia perennemente sola anche durante i pasti e soprattutto fa di tutto per instillare in Nunziata paura e terrore e si rammarica che nonostante il suo comportamento burbero e scontroso non riesce a causarle paura e alla base di questa sua ossessione c’è il desiderio di imitare e assomigliare al padre. Potrebbero invece farsi forza e compagnia a vicenda, in fondo sono entrambi due ragazzini.

“Soprattutto, una cosa mi esasperava sempre più, col passare dei giorni: e cioè che lei, tato timorosa di mio padre, di me, invece, non mostrava, mai, alcun timore! Quand’io la offendevo e la ingiuriavo, sebbene non mi replicasse mai nulla, tuttavia mi stava di fronte impavida come una leonessa. Simile suo contegno era un’altra riprova evidente che costei mi trattava alla stregua di un ragazzino, il quale non può farsi temere da una matrona pari a lei. Eppure, dall’epoca del sua arrivo, già la differenza fra le nostre due stature appariva abbastanza diminuita; e la sua audacia era uno schiaffo per me. Io avrei voluto, per soddisfazione del mio orgoglio, ispirarle paura quanto mio padre, in cospetto del quale essa tremava solo a un’ombra che gli passasse sulla fronte! e spesso, dimenticando tutte le altre mie ambizioni, mi perdevo nel progetto di diventare, da uomo, un brigante, un capobanda terribile, tale ch’essa dovrebbe cadere svenuta solo alla mia vista. Perfino la notte, certe volte, mi svegliavo con questo pensiero: Voglio farle paura, e m’immaginavo di usarle cattiverie inaudite, ogni sorta di barbarie, nella smania di essere odiato da lei com’io la odiavo.
Quando le impartivo ordini, e mi facevo servire da lei, mi atteggiavo alla maniera di un torvo imperatore che si volga a un soldato semplice. E lei era sempre docile e pronta a servirmi, ma questa sua ubbidienza mi non sembrava, per nessun segno, dettata dalla paura. Anzi, nell’affaccendarsi per me, ella si animava e assumeva perfino delle maniere pompose. E la sua faccia, da brutta e smorta, ridiventava fresca come un gelsomino. Forse, elle sperava che da parte mia il comandarlo, e il farmi servire da lei, significasse già un principio di riconciliazione? Non c’era modo di farle capire quanto fosse spietato il mio animo.”

Ma invece nonostante tutto Nunziata tiene un atteggiamento e un comportamento amorevole e pieno di cure e attenzioni verso Arturo, mandandolo ulteriormente in bestia:

“Il fatto era che io non volevo né cure né attenzioni da lei. La comandavo, per avere la soddisfazione di umiliarla, trattandola come un automa, un oggetto; ma le sue attenzioni gentili (quasi che davvero si presumesse una mia parente, mia madre!), mi erano insopportabili. In più di una occasione tornai a ripeterle: -Fra noi non c’è nessuna parentela. Tu non mi sei niente.”

Nunziata proviene da una famiglia molto povera, anche lei è orfana però di padre morto in un incidente sul lavoro, e la sua vita è immensamente triste, anche se forse la sua ignoranza e la sua semplicità non le consentono di comprendere appieno la sua situazione.

“Le sue noti, volgari, stridenti, si trascinavano piene di malinconia, come se tutte le canzoni che lei cantava avessero un argomento triste. Ma essa, credo, non aveva pensieri, e nemmeno era consapevole di non esser felice. Una pianta di garofano o di rosa, anche se, invece che in giardino, le tocca di stare sull’angolo di una finestruola, dentro un coccio, non si mette a pensare: Potrei avere un’altra sorte. E così era fatta lei, altrettanto semplice.”

Non capisco davvero il perché del matrimonio tra Wilhelm e Nunziata, capisco bene la famiglia di lei che la spinge tra le braccia di un uomo più vecchio, palesemente burbero e scontroso ma un “miliardario” o meglio un possidente, quindi un uomo benestante almeno secondo i suoi racconti. Ma non capisco le ragioni che hanno spinto Wilhelm a sposarsi e a insistere per avere Nunziata, pur di averla si converte al cattolicesimo ma l’ha sempre trattata male anche ai tempi del fidanzamento

“Così, divennero fidanzati. Ormai, gli si era promessa, ella non pensava più a sfuggirlo, sebbene, solo al vederlo da lontano, si sentisse gelare di spavento. Ciò che soprattutto la impauriva, era di trovarsi sola con lui; né avrebbe saputo dire la ragione di questo fatto, giacché in realtà, quando non v’erano altre persone, egli la trattava alla maniera solita, senza farle molta attenzione né darle confidenza, al punto che, andando a spasso con lei, non la teneva neppure sottobraccio. In ciò, essi differivano da tutti gli altri innamorati, che si vedevano andare in giro abbracciati e stretti; forse, ella pensava, lui era diverso perché era nato in un paese forestiero, e là al suo paese i fidanzati andavano in questo modo. Se talvolta egli la toccava, era solo per farle del male, come per esempio tirarle i ricci, o scuoterla per un braccio, o altri dispetti simili. Non erano dispetti terribili, ma pure bastavano a farla tremare. Ed egli allora la lasciava stare, e rideva fieramente dicendole: -Se hai tanta paura adesso, che siamo appena fidanzati, che sarà, quando ci sposeremo?

E infatti il trattamento che Wilhelm riserva alla neo sposa è davvero crudele e cattivo, non fa nulla per metterla a proprio agio, la tratta fondamentalmente come un serva e continuerà a fare la sua solita vita di giramondo.

“-Ricordati, - egli riprese, accendendosi di maggior violenza ad ogni parola, - che, sposati o no, io rimango sempre libero di andare e venire quando voglio, e non devo rispondere a nessuno di me stesso! Per me non esiste nessun obbligo né dovere, IO SONO UNO SCANDALO! Eh, non sarò a te, nennella, che dovrò render conto delle mie fantasie! Deve ancora nascere quel grande imperatore che potrà tenere in gabbia Wilhelm Gerace! E se tu, povera bambola pidocchiosa, credi che in conseguenza dello sposalizio, io deva rimanere attaccato ai tuoi stracci, farai meglio a disingannarti subito!”

“Mio padre girò il capo verso di lei: -Taci, tu- le rispose, -che sei appena nata, e, inoltre, sei nata stupida! Se dici ancora un’altra parola, ti ammazzo! Di certi sentimenti, ne faccio a meno io: li lascio ai disgraziati, che sono liberi soltanto la domenica. Non mi vanno, a me, i romanzi d’amore, di nessun genere. Ma l’amore delle femmine, poi, è il CONTRARIO dell'amor’!”

Ad un certo punto la storia prende una piega particolare, non voglio dire scontata ma io un po’ me l’aspettavo, ciò di cui Arturo ha bisogno è amore e amore materno, la sua nuova ossessione diventano i baci che non ricorda di aver mai dato o ricevuto. Inoltre Arturo sta crescendo e scoprirà l’amore e la delusione, inizia a vedere il padre sotto una luce diversa, si sente tradito fino alla rottura finale e l’abbandono dell’isola di Procida, momento che segna la sua definitiva crescita e l’ingresso nel mondo degli adulti. Fino a quel giorno Arturo è vissuto isolato dentro un universo tutto suo, non sapeva nulla della realtà del mondo esterno a Procida.

“In sostanza, io conoscevo la storia fino dai tempi degli antichi egiziani, e le vite degli eccellenti condottieri, e le battaglie di tutti i passati secoli. Ma dell’epoca presente contemporanea, non sapevo nulla. Anche quei pochi segnali dell’epoca presente che arrivavano all’isola, io li avevo appena intravisti senza nessuna attenzione. Non m’aveva incuriosito mai, l’attualità. Come fosse tutto cronaca ordinaria da giornali, fuori dalla Storia fantastica, e delle Certezze Assolute.”

La scrittura è ricca ed immersiva con tante parole del dialetto locale che rendono ancora più vivido e reale il personaggio di Arturo. Come detto la narrazione è in prima persona, è lo stesso Arturo a raccontare e ovviamente l’unico punto di vista e le uniche sensazioni e pensieri che possiamo conoscere sono i suoi; così noi lettori non possiamo entrare nella mente degli altri personaggi che rimangono indefiniti e quasi incompiuti e i loro segreti nascosti.

La storia di Arturo, ma anche quella di Nunziata, mi ha suscitato tanta tenerezza, sono storie tristi e dolorose mentre Wilhelm mi ha riempito di rabbia.

I personaggi sono ben delineati e anche molto realistici, ma come detto conosciamo davvero bene solo Arturo.

Arturo è un ragazzino taciturno, abituato alla libertà e alla solitudine del resto – come detto – ha praticamente sempre vissuto solo, cerca di imitare il padre e di fare colpo su di lui (senza riuscirci), vede nel padre un Dio infallibile e un esempio da seguire, è appassionato di lettura, con una grande sete di avventure in giro per il mondo come quelle che legge nei suoi romanzi e come quelle che crede il padre viva tutte le volte che è lontano dall’isola. Probabilmente Arturo soffre “di gelosia” verso tutto e tutti, in particolare verso ciò che può essere di intralcio tra lui e l’oggetto dei suoi desideri, in primis il padre, e questo sentimento lo spinge a comportamenti odiosi e strafottenti, non è abituato a mostrare e tanto meno a parlare delle proprie emozioni; tutto sommato lo si può anche capire, non è altro che un ragazzino che è dovuto crescere per forza, che non sa cos’è una famiglia e cos’è l’amore.

Nunziata arriva a Procida giovanissima, ha sedici anni (Arturo ne ha quattordici!) fa quel che può per badare alla casa e al figliastro, nonostante tutto cerca di essere amorevole e paziente con Arturo, è molto religiosa e riuscirà a fare amicizia con altre donne.

Wilhelm è prepotente, beffardo, tirannico, violento e feroce, scostante; è una figura sfuggente e misteriosa, ma anche invincibile e un vero eroe questo è quello che pensa Arturo, che come ogni bambino adora il padre. Forse anche perché il narratore è Arturo che Wilhelm rimane sfocato, fino alla fine non si capiscono le ragioni di molte sue scelte, non fa nulla né per il figlio né per Nunziata, non fa nulla nemmeno per facilitare la loro convivenza. Semplicemente vive la sua vita fregandosene degli altri. È un personaggio antipatico che ho odiato profondamente per il suo comportamento arrogante e menefreghista verso il figlio. Perché se ne va in giro e lascio Arturo da solo a Procida? Cosa fa in giro? Che lavoro fa? Certo va contestualizzato al periodo storico in cui è ambientato ma io non posso e non voglio credere che tutti gli uomini e mariti fossero come Wilhelm e nello stesso romanzo viene data prova che questa non è l’unica realtà possibile.  Wilhelm forse solo una volta o massimo due fa il padre, rimane torbido e pieno di misteri che non vengono svelati anche se alla fine del libro il lettore può intuire alcune cose e azzardare ipotesi che però non possono trovare conferma; per me rimane un uomo assolutamente mediocre e insulso e lo trovo uno dei personaggi più antipatici che finora ho trovato nei libri.

Un bellissimo romanzo di formazione con un protagonista indimenticabile, libero, selvaggio con un proprio codice d’onore e una terribile storia di solitudine.

Una lettura magnifica che rimarrà a lungo nei miei pensieri.

Conoscete Elsa Morante? Avete letto L’isola di Arturo? Vi aspetto nei commenti

giovedì 21 gennaio 2021

SE QUESTO É UN UOMO - PRIMO LEVI

TITOLO: Se questo è un uomo
AUTORE: Primo Levi
EDITORE: Einaudi
PAGINE: 219
PREZZO: € 11,00
GENERE: letteratura italina, memoir, shoa
LUOGHI VISITATI: campo di Auschwitz

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“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine ‘Campo di annientamento’, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.”

Se questo è un uomo di Primo Levi è il primo libro che tratta direttamente del tema dell’Olocausto che io ho letto. La prima volta l’ho lessi diversi anni fa e l’ho voluto rileggere ora per parlarne qui sul blog approfittando anche di un nuovo progetto che seguo su Instagram.

È un libro necessario per quanto doloroso, anzi direi imprescindibile. Primo Levi racconta la sua esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz: dal campo di internamento in Italia dopo la cattura, il lungo viaggio in treno, la vita nel campo fino all’arrivo dei russi.

La narrazione non è meticolosa e dettagliata per quel che riguarda la cronologia degli eventi e nemmeno per i legami che si sono creati con altre persone. Non è un diario. È piuttosto un insieme coerente (anche se non legato e spiegato dettagliatamente) di molti eventi che ha vissuto in prima persona, della sua esperienza in campo e di alcuni avvenimenti particolari e generali come ad esempio “la cerimonia” della selezione, il Ka-Be (l’infermeria) e l’orchestra che accompagna uscita e ingresso dal campo dei lavoratori.

“Alla distribuzione del pane si sente lontano, fuori dalla finestre, nell’aria buia, la banda che comincia a suonare: sono i compagni sani che escono inquadrati al lavoro. […] I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. […] Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? Quale prova più concreta della loro vittoria?”

La cerimonia della selezione è uno dei passaggi più drammatici della vita interna, si tratta di un “controllo”, della scelta sommaria e, in realtà anche molto arbitraria e casuale, tra i prigionieri all’interno del campo per decidere chi continua a “vivere” e chi invece è destinato alle camere a gas, tra chi continua la lotta in attesa della prossima selezione e chi invece deve abbandonare il mondo.

Nell’esperienza personale di Levi c’è il lavoro fuori dal campo, nella Buna, una gigantesca fabbrica costruita grazie alla manodopera del vicino complesso di Auschwitz, è un enorme cantiere dove i prigionieri vengono sfruttati per i lavori più massacranti, si tratta di una fabbrica chimica e Primo Levi – che è proprio un chimico - parteciperà all’esame per fare parte della squadra di chimici che lavorerà in laboratorio.

Questo cantiere infinito è anche il luogo dove i prigionieri vengono in contatto con i civili, ma cosa pensano i civili?

“Quello che noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile»”

“Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci di animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondono l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo «Kazett», neutro singolare.”

Queste sono le parole più drammatiche, angoscianti e spaventose. Perché mostrano come può reagire l’uomo libero, come può un uomo libero ragionare di fronte a tanto scempio, e la cosa che mi spaventa (e mi fa anche arrabbiare) maggiormente è che purtroppo ragionamenti simili si sentono tutt’oggi.

Ho accennato al commercio, al mercato interno del lager perché leggendo questo libro si scoprono dei dettagli assolutamente agghiaccianti: un esempio i prigionieri devono dare il grasso alle scarpe/zoccoli, chi non lo fa o comunque non ha le calzature in ordine viene punito fisicamente, io mi aspetto che il campo fornisca il grasso, e invece no sono gli stessi prigionieri che lo devono procurare.

“Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.”

Levi si interroga sulla giustezza di narrare quanto accaduto nei lager e si risponde affermativamente e propone anche una particolare chiave di lettura di questa esperienza:

“Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione rimanga una qualche memoria.
A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui narriamo. Vorremo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.”

Quindi Levi avanza l’ipotesi di considerare il lager come un laboratorio per un gigantesco esperimento scientifico e sociologico sul comportamento umano, da un lato questa interpretazione è strettamente legata alla ricostruzione ed analisi della psicologia umana che Levi fa delle persone che lo circondano (sia durante la prigionia cosa che gli permette di rimanere “vivo”) sia a posteriori durante la scrittura della sua testimonianza. Dall’altro ho inizialmente trovato raccapricciante l’idea di vedere il lager come un esperimento scientifico ma forse è un’interpretazione meno spaventosa di quello che in realtà è stato, perché alla fine lo scopo del lager era semplicemente e brutalmente annientare una parte di popolazione (in primis gli ebrei, ma non solo) senza colpa alcuna se non quella di appartenere ad un'altra cultura e religione?! Non so cosa sia peggio!

“Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di ciascuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e compromessi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.”

 

Come si sopravvive dentro a un lager? Anzitutto è questione di fortuna e caso! Questi sono i due elementi che determinano la sorte degli individui. Ma si può lottare contro il sistema lager anzitutto mantenendo la propria dignità, come un compagno più anziano spiega al neo internato Levi

“Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire. Questo cose mi disse Steinlauf.”

E poi ci sono le astuzie che si imparano col tempo, quando l’unica preoccupazione è il domani immediato, il tempo e il freddo che rendono ancor più duro il lavoro senza sosta.

Un tema trattato molto importante e singolare è il sogno: cosa sognano i rinchiusi? Cibo senz’altro, ma secondo Levi un sogno molto comune e diffuso è quello di essere nuovamente a casa, tra i propri cari e raccontare l’accaduto, raccontare il lager e trovare incredulità o meglio non essere creduti, è probabilmente anche questa una delle ragioni dell’impellente bisogno di Levi di raccontare.

Infatti l’opera rappresenta la sua testimonianza, scritta di getto subito dopo il ritorno a casa, senza pianificazione tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947, qui racconta le cose più importanti, grosse e urgenti.

Il libro finisce all’improvviso, la narrazione si interrompe con l’arrivo ad Auschwitz dei russi. L’uscita dal campo e il travagliato viaggio di ritorno sono narrati in un altro libro: La tregua.

L’aspetto che mi ha maggiormente colpita nello stile è la lucidità nel descrivere quasi asetticamente la vita e le regole del campo; senza odio, senza influenzare il lettore ma porgendo al lettore domande e riflessioni e tanto materiale su cui riflettere.

Nella mia edizione Einaudi c’è anche un’interessantissima appendice dove lo stesso Levi risponde alle domande che maggiormente si è sentito rivolgere.

Conoscete questo libro? Avete letto altro di Primo Levi? Fatemi sapere nei commenti.