lunedì 6 aprile 2020

MEMORIE DI UN SOLDATO BAMBINO - ISHMAEL BEAH

TITOLO: Memorie di un soldato bambino
AUTORE: Ishmael Beah - traduzione di Luca Fusari
EDITORE: Beat
PAGINE: 256
PREZZO: € 9,00
GENERE: letteratura della Sierra Leone - letteratura di guerra
LUOGHI VISITATI:Sierra Leone duranta la guerra civile anni 90
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“I villaggi conquistati e trasformati in basi e le foreste in cui dormivamo diventarono la mia casa. La squadra era una famiglia, il fucile il mio custode e protettore, l’unica regola era uccidere o essere uccisi. I miei pensieri non andavano oltre. Combattevamo da più di due anni, ammazzare era ormai diventato un gesto quotidiano. Non provavo pietà per nessuno. La mia infanzia se n’era andata senza che me ne accorgessi, il mio cuore ormai assomigliava a un pezzo di ghiaccio. Mi accorgevo del passare dei giorni perché vedevo il sole e la luna, ma non sapevo mai se fosse domenica o venerdì.”

Fin dall’inizio il lettore sa che Ishmael è stato un soldato – lo dice il titolo e la trama in quarta di copertina -  un soldato bambino, ha visto e fatto cose che nemmeno nei peggiori incubi un bambino dovrebbe sopportare. E fin dall’inizio sappiamo che Ishmael ce la farà in qualche modo a sopravvivere, perché ha scritto il libro che stiamo leggendo. Nel libro Ishmael racconta e ricostruisce la sua vita dal 1993 quando incontra per la guerra civile, iniziando una fuga nella foresta solitaria o con altri ragazzi, assistendo a scene strazianti, fino ad essere arruolato nell’esercito e iniziare a combattere “per la patria” fino al “congedo” e alla riabilitazione, ma la guerra lo segue e dovrà fuggire nuovamente.

“… attraversata la palude iniziarono i guai veri, perché i ribelli si misero a sparare contro la gente anziché in aria. Non volevano lascarci abbandonare la città, gli abitanti gli servivano come scudo per proteggersi dall’esercito. Una delle priorità dei ribelli, quando conquistavano un villaggio, era infatti costringere i civili, soprattutto le donne e i bambini, a rimanere con loro. Così riuscivano a prolungare la permanenza, impedendo l’intervento militare. […] Quando si accorsero che i civili stavano per farcela, i ribelli fecero fuoco con i lanciarazzi RPG2, i mitra, gli AK-47 e i G3, tutte le armi che avevano, contro la radura. Ma sapevamo di non avere scelta, dovevamo attraversarla a ogni costo, perché eravamo giovani e maschi e avremmo corso un rischio molto più grave se, anziché tentare la fuga, fossimo rimasti in città i ragazzi venivano arruolati immediatamente e i ribelli gli tatuavano addosso, dove preferivano, le iniziali del RUF con una baionetta rovente. Quell’incisione indelebile rappresentava la condanna a rimanere con loro oppure a morire, perché i soldati dell’esercito regolare, come pure i civili armati, uccidevano senza problemi chiunque portasse sul corpo le iniziali dei ribelli.”




“«La nostra missione è molto importante, e disponiamo dei soldati più esperti, che faranno del loro meglio per difendere questo paese. Non siamo come i ribelli, quei farabutti che ammazzano la gente senza motivo. Noi li uccidiamo per il bene e il progresso della nazione. Perciò, rispettate questi uomini» tornò a indicare noi «per il servizio che prestano». Il tenente proseguì a lungo il suo discorso, che serviva tanto a convincere i civili della bontà delle nostre intenzioni quanto ad alzare il morale delle truppe, compresi noi ragazzi. Restavo lì impalato con il fucile in mano e mi sentivo speciale, perché facevo parte di qualcosa che mi prendeva sul serio e non ero più costretto a scappare. Ora avevo il mio fucile e, come diceva sempre il caporale: «Il fucile, in quest’epoca, è la vostra unica fonte di potere. Vi proteggerà e vi fornirà tutto ciò che vi serve, se saprete usarlo bene».
Non ricordo perché il tenente avesse iniziato quel discorso. Troppe cose accadevano senza ragione né spiegazione. A volte ci ordinavano di andare a combattere a metà di un film. Molte ore più tardi, dopo aver ucciso chissà quante persone, riprendevamo la visione come se si fosse trattato di un semplice intervallo. Non facevamo altro che combattere al fronte, guardare film o prendere dorghe. Non c’era tempo per restare soli o per pensare. I nostri discorsi riguardavano soltanto i film di guerra o il modo in cui il tenente, il caporale oppure uno di noi aveva ucciso un ribelle. Come se al di fuori della nostra realtà non esistesse altro.”


Le vicende sono narrata in prima persona dall’autore protagonista.
Sapevo fin dall’inizio che il libro sarebbe stato un pugno allo stomaco. Mi sono trovata spesso durante la lettura a doverla interrompere e dedicarmi un attimo a qualcosa di stupido e divertente per non pensare. Una lettura dolorosa ma necessaria perché le persone riflettano e inizino a comportarsi diversamente, e fare qualcosa: stiamo parlando di fatti realmente accaduti e che purtroppo accadono ancora oggi, se non in Sierra Leone in tanti altri paesi.
Non mancano però anche i riferimenti alla cultura e alla tradizione, in particolare ho trovato molto bella e dolce la “favola” della luna, poi si aggiunge la tradizione di narrare delle storie la sera prima di addormentarsi, cosa che fanno anche i ragazzi in fuga.

“«Dobbiamo sforzarci di essere come la luna». Un vecchio di Kabati ripeteva spesso questa frase a chi passava davanti a casa sua per andare a prendere l’acqua al fiume, a cacciare, a spillare vino di palma o diretto alle fattorie. Ricordo di aver chiesto a mia nonna cosa significasse quella frase. Lei mi aveva spiegato che era un’esortazione a comportarsi bene e a essere buoni con il prossimo. La gente si lamenta quando c’è troppo sole e il caldo è insopportabile, ma anche quando piove tanto o fa freddo. Invece nessuno protesta quando la luna splende. Tutti sono felici e ne apprezzano la presenza, ognuno a modo suo. I bambini guardano le proprie ombre e giocano sotto la sua luce, gli adulti si ritrovano nelle piazze a raccontare storie e ballare per tutta la notte. Succedono tante cose belle, quando splende la luna. Ecco perché tutti dovrebbero sforzarci di essere come lei.”

Infine emergono alcuni dettagli della vita in Sierra Leone negli anni ’90: vita che nei villaggi più remoti e distanti dalla capitale è rimasta “indietro” e legata alle tradizioni e alle usanze, è un paese che abbraccia l’Islam - almeno nel villaggio di origine di Ishmael – ci sono capanne di fango, altre costruzioni con i tetti in lamiera o di paglia, ci sono le piantagioni di caffè e di banane. La suddivisione tribale della popolazione, ogni tribù ha segni distintivi diversi e parla anche lingue o meglio dialetti diversi; emerge fortissimo il senso di comunità e di unità tipica, forse delle società più ancestrali. Ma il punto focale della narrazione è la condizione dei bambini, di cosa sono costretti a fare e subire e l’esperienza in prima persona dell’autore, racconta la sua esperienza senza mezzi termini e senza lasciare spazio all’immaginazione, è molto forte e diretto anche nella narrazione delle battaglie e degli effetti sul corpo umano.

Questo libro l’ho letto per il progetto che per la tappa di aprile prevede di viaggiare nell’Africa subsaharina, quando ho letto i consigli di lettura ho rivisto questo libro dopo tanti anni e ho deciso che volevo leggerlo, pur immaginando che non sarebbe stato facile.
Ishmael Beah è oggi ambasciatore Unicef, intellettuale e scrittore. Ha scritto anche un altro romanzo, pubblicato in Italia sempre da Neri Pozzi e da Beat, “Domani sorgerà il sole” che tratta sempre il tema della guerra in Sierra Leone da un punto di vista diverso nel senso che si occupa principalmente del ritorno alla vita dopo il conflitto, non è autobiografico ma un romanzo di “fantasia”.

La guerra civile, come ogni dnnata guerra ha alla base solo la sete di potere, e in Africa anche la spartizione di ricchezze oltre ad antiche rivalità tribali.

“…Chissà cosa pensava della guerra da cui stavo fuggendo. Avevo sentito degli adulti dire che era una guerra rivoluzionaria per liberare la gente da un governo corrotto. Ma che razza di movimento di liberazione è quello che spara sui civili innocenti, sui ragazzini, su una bambina? Nessuno sapeva rispondere a questa domanda…”

È stato il mio primo approccio alla letteratura di guerra, un genere letterario di denuncia, non facile ma necessario e che assolve ad uno degli scopi che secondo me la lettura deve avere: leggere per scoprire e imparare il mondo che ci circonda, ci sono anche molti aspetti orribili che non possiamo ignorare e leggerne serve ad acquisire consapevolezza, a riflettere e fare qualcosa per migliorare il mondo in cui viviamo.

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