TITOLO: Il mulino del Po
AUTORE: Riccardo Bacchelli
EDITORE: Mondadori collana classici moderni
PAGINE: 1159
PREZZO: € 24,00
GENERE: sagha familiare, romanzo storico - letteratura italiana
LUOGHI VISITATI: Italia (ferrarese) nel corso dell'800 e Piave durante Prima Guerra Mondiale
acquistabile su amazon: qui (link affiliato)
Croce e delizia.
Un libro denso e corposo, un vero
mattone! Il mulino del Po racconta le vicende di Lazzaro Scacerni e dei sui
discendenti, il figlio Giuseppe detto Coniglio Mannaro, sua moglie, i loro
figli e infine il bisnipote che chiude il cerchio e porta il nome del bisnonno.
Romanzo storico scritto tra il
1938 e il 1940 ambientato nel ferrarese, in particolare nella zona di Guarda e
Ponticel della Pioppa, Ro e Ferrara; il periodo storico abbracciato è molto
lungo si parte dell’epoca napoleonica fino alla Prima Guerra Mondiale.
Lettura meravigliosa per quel che
riguarda la trama in se e per se, per le vicissitudini degli Scacerni a partire
dal “misterioso” capostipite Lazzaro e anche per la ricostruzione storica.
“- Della vostra vita, padron
Lazzaro, ci sarebbe da farne un romanzo.
- Che roba sarebbe? – chiese lo
Scacerni, facendolo ridere di cuore.”
L’opera presenta una struttura
articolata con un prologo, tre libri e un epilogo finale.
Provo a sintetizzare la trama con
gli elementi essenziali; non voglio dire molto perché non voglio rovinare la
lettura, può sembrare semplice ma non lo è affatto, tutto è ricco di sfumature
e profondità, e tra gli avvenimenti principali ce ne sono tantissimi altri
minori.
Nel prologo e nel primo volume “Dio
ti salvi” incontriamo il giovane Lazzaro Scacerni in Russia, al seguito della
spedizione di Napoleone, riceve da un suo conterraneo del denaro con cui,
tornato nel ferrarese, costruisce un mulino, il San Michele e inizia la sua
attività di mugnaio di fiume sul Po; si innamora e sposa Dosolina e avranno un
solo figlio, Giuseppe. Padron Lazzaro si trova a dover fare i conti e se
vogliamo a scendere a patti con la malavita locale comandata da un
contrabbandiere di nome Raguseo, va ricordato che ai tempi il Po segnava il
confine tra lo Stato Pontificio e i possedimenti austriaci. Ma il mugnaio deve
fare i conti con un pericolo terribile: le piene del Po (tante segneranno le
vicende dei protagonisti) e durante una di queste padron Lazzaro salva il
Paneperso un mulino che andava alla deriva e la ragazza che lo governava,
Cecilia poiché la ragazza è rimasta orfana e l’unica cosa che ha è il mulino si
appiarda a fianco del San Michele; tra Cecilia e padron Lazzaro si instaura un
rapporto di affetto quasi filiale e di stima reciproca.
Giuseppe Scacerni odia i mulini
preferisce fare il sensale, è molto bravo nel suo mestiere, è avaro, senza
scrupoli, per questo e per la sua bruttezza verrà soprannominato Coniglio
Mannaro. Nel secondo volume intitolato “La miseria viene in barca” seguiamo principalmente
le sue avventure al servizio d’un tale Viginio Alpi un politicante e truffatore
senza scrupoli; e in tutto questo tutto Giuseppe si sposa e avrà dei figli. E
proprio Cecilia e i loro figli (Lazzarino, Giovanni, Antonio, Princivalle,
Maria, Dosolina e Berta) saranno i protagonisti dell’ultimo libro intitolato “Mondo
vecchio sempre nuovo” alle prese con la tassa sul macinato ma anche le prime
lotte sindacali e gli scioperi.
Infine il volume si chiude con un
epilogo che vede protagonista Lazzaro Scacerni bisnipote di padron Lazzaro che
si ritrova a fare il pontiere sul Piave durante la Prima Guerra Mondiale,
chiude il cerchio della narrazione con un parallelismo con le avventure
giovanili del bisnonno in Russia anche lui pontiere.
Ci sono degli aspetti negativi, alcune caratteristiche
della narrazione mi hanno disturbato: la lettura è molto pesante per la
scrittura in se e per se e per le digressioni. La scrittura è estremamente articolata, macchinosa e artificiosa sia
nella costruzione della frase (con una preponderanza di periodi lunghi(ssimi)
pieni di congiunzioni e subordinate) che nella scelta lessicale. Qui è doveroso
aprire una parentesi: è ovvio che un romanzo scritto nella prima metà del ‘900
utilizzi uno stile e un lessico diversi da quelli del 2020, e io ho pochissima
esperienza di lettura di libri italiani scritti in quel periodo (per gli
stranieri il discorso è diverso perché possono essere stati “ammodernati” con
una traduzione – relativamente – recente), però secondo me Bacchelli ha uno
stile molto arzigogolato che rende difficile la lettura, ho persino riletto
alcune pagine a caso de “I Promessi Sposi” di Manzoni e le ho trovate molto più
scorrevoli. Però devo dire che si sono anche delle parti.
Altro tasto dolente sono le digressioni: utili, interessanti e di
grande interesse per contestualizzare le vicende narrate e conoscere la Storia,
però troppe e troppo lunghe.
“Intanto Princivalle Scacerni era arrivato alla
Guarda.
Ci sarebbe arrivato dieci volte, dirà qualcuno (mi
pare di sentirlo), con tutte queste digressioni.
Non sono digressioni. È cercar le cose per intiero;
e se non fosse superbia, direi che non ci si metta chi ha fiato corto e non ha
buona memoria. Se non fosse superbia; ma tant’è: l’ho detto, e ormai non lo
ritiro. E se non avesse per avventura, del ricercato e del sottile, aggiungerei
che vuol essere, nel raccontare lo stile del contrappunto.”
È stata una lettura difficile e
altalenante con momenti in cui non riuscivo a staccarmi dalla pagine -in cui il
Bacchelli instilla una curiosità morbosa nel lettore – che si alternano con
momenti di lunghissime e tediose digressioni (ho avuto anche la tentazione di
saltare delle pagine per la noia). Di contro, però, ci sono passaggi anche
molto belli, lirici e potenti.
Ultimo aspetto che non mi è
piaciuto è il fatto che non tutti i personaggi
sono stati trattati allo stesso modo: alcuni escono di scena e non si sa che
fine fanno e di altri si sa poco e niente e quasi per caso. La cosa mi
infastidisce perché un romanzo molto lungo e prolisso, questa “noncuranza”
verso alcuni mi è dispiaciuta, potevano esserci degli “approfondimenti”.
La costruzione dei personaggi è
ben riuscita, definiti e caratterizzati, fedeli a se stessi e anche alla realtà
dell’epoca di ambientazione, andando spesso ad incarnare e rappresentare ruolo
e modi dei tempi ma anche “la pecora nera”, quello che sa distinguersi e crede
nei propri ideali. Mi sono trovata subito in empatia con loro e mi dispiace che
Bacchelli sia stato poco tenero.
Si tratta di un romanzo storico e la Storia in questo libro è una
protagonista, dall’epoca napoleonica con le esperienze della Repubblica
Cisalpina e i governi giacobini, la campagna di Russia di Napoleone, la
Restaurazione e gli ultimi decenni di governo dello Stato Pontificio (di cui il
territorio ferrarese faceva parte) con le lotte intestine per il potere e per
mantenerlo, la presenza degli Austriaci, il 1848, il Risorgimento, l’Unità
d’Italia, i primi decenni dell’Italia unita.
C’è soprattutto Storia locale del ferrarese,
mostra le ripercussioni degli eventi storici su questa parte di mondo e sulle
persone che ci vivono; ci sono le più importanti piene del Po e non mancano
leggende locali.
Molto interessante è l’analisi
delle conseguenze delle scelte politiche sul quotidiano, sulla vita di tutti i
giorni in modo particolare l’analisi del periodo post unitario con i problemi
del “non expedit”, della tassa sul macinato (i nostri protagonisti sono dei
mugnai!), della leva obbligatoria, i registri di stato civile, fino ai primi
scioperi e alle lotte sociali - è la
parte secondo me più consistente e quella che ho maggiormente apprezzato.
Nell’analisi storica è spesso critico, sarcastico ma giusto, dà voce al popolo,
al sentire comune.
“Correvano i primi anni del Regno
d’Italia, difficili subito, e lungamente poi, per gli onerosi passivi
finanziari delle guerre e d’un rivolgimento economico e sociale, lento gran
tempo, e poi subitaneo, che aveva assommate le conseguenze d’un lungo disagio con
quelle d’una rivoluzione precipitosa. È noto d’altra parte che
all’indipendenza, alla libertà politica, all’unità statale, era preparati i
pochi; e che presto i molti ci capiron anche meno di prima, salvo per mormorare
che ‘si stava meglio quando si stava peggio’. […] La gente di piccolo affare,
il popolo minuto, sentiva il disturbo e il peso e la novità degli obblighi
civili e militare d’uno stato moderno, innanzi d’averne, non che vantaggi, non
che coscienza, neppure una sufficiente cognizione politica; sentiva le tasse
inasprite e l’inasprito rincaro; sentiva il peso nuovo della coscrizione
militare, e denigrava, anche prima d’averli esercitati, i diritti del voto e
delle altre libertà e garanzie costituzionali. Li denigrava per accidia e
stizza, ma è anche vero che era riserbati a pochi, a un patriziato colto ed
abbiente, mentre i pesi eran generali, e più sensibili ai poveri. Rimpiangeva,
la gente, le tante esenzioni, e gli accomodamenti della vecchia costituzione,
mentre i vantaggi della nuova parevano così remoti a venire, che predicarli e
prometterli, o solo rivolgervi la mente, riusciva se mai a sfiducia e
malcontento, quasi fosse mostrata la luna nel pozzo, per consolazione di
fastidi e disagi ben altrimenti reali. Cominciava insomma la storia del Regno
d’Italia, senza brillare per altri fatti gloriosi, ma che s’impone al rispetto
per un aspro, diuturno, onesto sacrificio, che fu di quelli modesti: e non sono
i più facili, né in cui meno s’affermi e fruttifichi la sostanza d’una utile
virtù nazionale e popolare. Chè infine, se le plebi parteciparono poco al
Risorgimento, ebbero parte assai, e dolente e coraggiosa, nel pagarne i
debiti”.
Il Bacchelli si fa datore di voce
del popolo minuto, come lui stesso ribadisce più volte nel corso della narrazione.
“Ed ecco che sulla soglia di
questo secondo libro del poema molinaresco, tutto quanto in cui l’autore può
essersi ingegnato e travagliato coll’arte e collo studio, per acquisire alla
poesia un secolo, un momento della possente umiltà del popolo minuto, civile in
Italia d’una sua civiltà a volte evasiva e segreta e sempre inconfondibile e
non mai soppressa da tanto e sì illustre e anche greve carico di storia; ecco
tutto dilegua lietamente in una certezza radicata, da cui la fantasia attinge,
ed io assumo, la certezza umana, e magari anche troppo umana: insomma, in una
voce del sangue, in una di quelle cose che propriamente non si sa che si siano,
e senza le quali l’uomo non sarebbe poi l’uomo.”
Fin dall’inizio della lettura
sono stata portata a paragonare questo romanzo con altri due “I Promessi Sposi”
di Manzoni e “I Malavoglia” di Verga. Con “I Promessi Sposi” ci sono elementi
in comune come il narratore onnisciente che dialoga/ interagisce con il
lettore, le digressioni e contestualizzazioni storiche della vicenda. Mentre
con l’opera verghiana è più una sensazione, sarà il periodo storico
d’ambientazione che in parte coincide, per l’occuparsi del popolo, per la
somiglianza sotto certi aspetti delle famiglie protagoniste: lavoratori
instancabili che si trovano a dover fronteggiare la sorte avversa.
“La storia dei mugnai è finita,
non aspetta che d’esser conclusa. Chi l’ha narrata, sente d’un tratto il vuoto
che questa parola gli reca nell’animo, quasi lo aggrevi d’un tratto di tutto il
tempo in cui gli fu dato di stare all’opera come se il tempo non passasse,
quand’egli di sé e delle sue forze dava tutto, questo almeno sì, come in vista
di un Et nunc dimittis.”
Lo avete letto? Cosa ne pensate?